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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 26 dicembre 2011

NOTA SUL TROTSKISMO IN ARGENTINA


                                                                   di IKOS


Formazione del FiT
In Argentina (aprile 2011) si è costituito il Frente de Izquierda y de los Trabajadores (FiT), formato dalle seguenti organizzazioni:
  • Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) che fa riferimento alla Fracción Trotskista come organizzazione internazionale;
  • Partido Obrero (PO), rappresentato a livello internazionale dal Coordinadora por la Refundación de la IV Internacional;
  • Izquierda Socialista (IS), la cui organizzazione internazionale è l'Unidad Internacional de los Trabajadores.
Il 14 agosto si son tenute le elezioni primarie, preliminari alle elezioni presidenziali. Il FiT, ottenendo il 2,5% (500.000 voti), ha superato i 400.000 voti necessari per la presentazione della lista alle presidenziali.
Il 23 ottobre si sono svolte le presidenziali. Il FiT tuttavia, pur con i suoi 660.000 voti, non ha eletto nessun deputato. Il meccanismo elettorale prevede che il Parlamento (composto di circa 250 deputati) venga rinnovato per metà ogni due anni. Lo sbarramento, del 3%, viene calcolato non sulla base dei votanti effettivi, ma degli aventi diritto.

Critica alla riforma organizzativa della Gioventù del PTS
A dicembre si è tenuta la Conferencia de Oganización de la Juventud del PTS per lo sviluppo di un partido leninista de vanguardia in Argentina. Noto che però la juventud revolucionaria trabajadora y estudiantil del PTS sta procendendo ad un (mi duole dirlo) allargamento senza principi della propria struttura. Si parla di revolucionar la estructura actual de la Juventud del PTS con la perspectiva de incluir a miles de compañeros y compañeras nuevos a nuestras filas en el próximo período partiendo de distintos niveles de adhesión política a nuestras ideas. Questo ampliamento della struttura giovanile del partito avviene perché algunos simpatizantes no se deciden a militar porque aún no conocen todo hasta el final (riferimento a los compañeros que aún no tengan una comprensión científica de nuestro programa y nuestra estrategia) o por falta de tiempo.
Cito ancora testualmente: la Conferencia resolvió que nos propongamos incorporar a nuestras filas a toda una nueva camada militante de una forma nueva, con una adhesión “sentimental” a nuestro programa, al Manifiesto de la Juventud del PTS. Forma di adesione che evidentemente (fortunatamente) prima non era prevista.
Si insiste in particolare su un concetto, sulla formazione di una juventud revolucionaria de miles (di migliaia e migliaia di aderenti), para responder rápido como “infantería ligera” ante los eventos de la lucha de clases. Esigenza fondamentale questa, ma non è certo mediante accorgimenti organizzativi di tipo menscevico che si sviluppa quel partido leninista de vanguardia inizialmente evocato; tantopiù quando le avanguardie reali sono apenas un 30% de los equipos de la Juventud del PTS che, dopo la conferenza, accentua quindi il suo carácter federativo.
La mia riflessione è quindi la seguente: in Argentina si è registrata una positiva confluenza di carattere elettorale tra diverse organizzazioni dispirazione trockista, ma il lato negativo delloperazione non tarda a manifestarsi: la messa in questione della concezione bolscevica del partito rivoluzionario. Si può e si deve invece tener conto della reale coscienza delle masse senza per questo rinunciare a quei paletti organizzativi che contraddistinguono un partito leninista da tutti gli altri organismi del movimento operaio.

22 dicembre 2011

venerdì 23 dicembre 2011

Il Natale di una volta: vecchio e sempre nuovo






Leonardo Boff
Filosofo/teologo



Vengo dal passato remoto, dagli anni 40 del secolo passato, un'epoca in cui babbo Natale non era ancora arrivato con la slitta. Nelle nostre colonie, italiane, tedesche e polacche, domatrici della foresta nella regione di G. Concordia-SC, conosciuta per essere la sede della Sadia e della Seara con i loro eccellenti prodotti di carne, conoscevamo soltanto il bambino Gesù. Erano tempi di fede ingenua e profonda che dava forma a tutti i particolari della vita. Per noi bambini, il Natale era il punto forte dell'anno, preparato e aspettato con ansia. Finalmente veniva il bambino Gesù con il suo asinello (musseta, in veneto) a portarci i doni.

La regione era tutta una foresta di pini a perdita d'occhio e non era difficile trovare qualche alberello che veniva adornato con materiali rudimentali di quella regione ancora in via di orrganizzazione. Si adoperava carta colorata, cellophane e disegni che noi facevamo a scuola. La mamma faceva pane al miele e figure umane e di animaletti che venivano appesi ai rami dell'albero. Sulla cima c'era sempre una stella grande rivestita di carta rossa. In basso, e intorno all'albero, si montava il presepio, fatto con ritagli di carta, presi da una rivista che arrivava in abbonamento a mio padre, maestro di scuola. Lì stavano San Giuseppe, Maria, tutta raccolta, i re Magi, i pastori, le pecorelle, e pure l'asinello e alcuni cani, gli angeli cantori che noi appendevamo ai rami bassi dell'albero e, naturalmente, al centro, il bambino Gesù: vedendolo quasi nudo noi immaginavamo che stesse battendo i denti dal freddo e così eravamo tutti pieni di compassione. Vivevamo il tempo glorioso del mito.
Il mito traduce meglio la verità che la pura e semplice descrizione storica. Come parlare di un Dio che si fa bambino, del mistero dell'essere umano, della sua salvezza, del bene e del male se non contando storie, proiettando miti che rivelano il senso profondo degli eventi?
I racconti della nascita di Gesù contenuti nei Vangeli, contengono elementi storici, ma per enfatizzare il loro significato religioso, vengono rivestiti di linguaggi mitologici e simbolici. Per noi bambini tutto questo era una verità che accettavamo con entusiasmo. Ancor prima che fosse introdotto la 13ª, i professori ricevevano una piccola indennità. Mio padre spendeva tutto quel denaro per comprare regali agli 11 figlioli. Regali che venivano da lontano, e tutti istruttivi: carte con i nomi dei principali musicisti, pittori celebri, dai nomi difficili da pronunciare e ridevamo per le loro barbe o per i loro nasi o per qualche altro piccolo particolare. Un regalo ha fatto fortuna: una cassa con materiali per costruire una casa o un castello. Noi, i più vecchi, cominciavamo a partecipare della modernità: avevamo in dono una Jeep e o una macchinetta che si muovevano dando la corda o avevano una ruota che mentre girava faceva scintille o qualcosa di simile. Per non litigare, sotto ogni regalo stava il nome del figlio della figlia. Poi cominciarono le contrattazioni e gli scambi. La prova infallibile che il bambino Gesù di fatto era passato era la sparizione sparizione dei fasci di erba fresca.
Oggi viviamo nei tempi della ragione e della demistificazione. Ma tutto questo vale soltanto per noi adulti. I bambini, sia pure con Babbo Natale, e non più con Gesù, vivono nel mondo incantato dei sogni. Il buon vecchietto porta regali e dà buoni consigli.
Siccome ho la barba bianca, non c'è bambino che mi passi accanto e che non mi chiami Babbo Natale. Spiego loro che sono soltanto il fratello di Babbo Natale che viene per osservare se i bambini fanno tutto ammodino, poi io racconto a Babbo Natale per chi vuole avere dei bei regali. Anche così i bambini non sono del tutto convinti. Si avvicinano, toccano la barba e dicono: è proprio Babbo Natale. Sono una persona come qualsiasi altra ma il mito mi fa essere Babbo Natale davvero.
Se noi adulti figli della critica e della demitizzazione, non riusciamo più a rimanere incantati, permettiamo che i nostri figli e figlie restino incantati e gustino il regno magico della fantasia. La loro esistenza sarà piena di senso di allegria. Che vogliamo più di ogni altra cosa dal Natale se non questi doni preziosi che Gesù ha voluto portare in questo mondo?
Tradotto da Romano Baraglia

Un "nuovo" segretario inaugura un "nuovo" PSI





Care compagne e cari compagni,
il nostro partito è giunto sulla soglia di un anniversario che lo vede ancora tenere alta la sua bandiera dopo ben 120 anni di storia, una storia illustre piena di luci ma anche densa di molte ombre, fattesi purtroppo molto lunghe negli ultimi venti anni.
E quando le ombre sono lunghe, vuol dire che il sole è basso e non splende più in alto nel nostro orizzonte, e il clima non è caldo, ma tende ad essere gelido.
Le vicissitudini degli ultimi tempi ci hanno portato a dover combattere più per sopravvivere che per affermare i nostri ideali di sempre.
Ma la nostra passione resta intatta e lo si vede quando qualcuno di noi vola più alto delle misere logiche localistiche o dei disperati giochi di bottega, per ricordarci quale è la nostra bussola, come essa sia importante e quale direzione tuttora essa segni nel mondo ed in Europa.
Un partito che ambisce ad essere socialista e a restare tale, unico per altro ad essere ancora iscritto al PSE e all'Internazionale Socialista in Italia, ha il dovere innanzitutto, prima ancora di ogni eventuale strategia politica di carattere nazionale, di coordinarsi con quelle che sono le politiche europee e globali messe in atto da analoghi partiti socialisti.
Il documento di recente elaborato dal partito socialdemocratico tedesco e da quello socialista francese parla chiaro:
Bisogna dunque riformare in profondità la politica economica, finanziaria e sociale europea nel quadro di un governo economico europeo democraticamente legittimato e dotato di ampi poteri di intervento. I capi di stato e di governo europei, in maggioranza conservatori e liberali, e soprattutto la cancelliera tedesca e il presidente Sarkozy, si sono rifiutati per troppo tempo di discutere di una governance economica europea. Hanno sottovalutato l’ampiezza della crisi monetaria e finanziaria. Non l’hanno saputa anticipare e hanno dimostrato di non avere quella visione politica di cui l’Europa avrebbe avuto bisogno durante la crisi. L’Europa governata dai conservatori ha esitato troppo.(…) Le decisioni assunte all’ultimo Consiglio di Marzo 2011- riforma del patto di stabilità e di crescita, accordo sui principi di un meccanismo di stabilità europeo permanente e su un patto per l’euro – sono ben al di sotto del grande slancio politico necessario ad attuare un vero governo economico europeo. Sono iniziative incentrate sul rigore di bilancio, sull’austerità, considerata come la via maestra per far uscire l’Unione europea dalla crisi.
Si tratta di un approccio alquanto sbagliato e pericoloso. Riduce la crisi monetaria europea ad una crisi di indebitamento dei paesi membri e dimentica così totalmente la causa principale della crisi attuale dell’euro: la crisi dei mercati finanziari internazionali scatenata da un’enorme speculazione che ha costretto a più riprese gli Stati membri dell’Unione europea ad indebitarsi per impedire il crollo totale dei mercati finanziari.
Sono i contribuenti che alla fine pagheranno il conto della crisi. Per colpa dei conservatori europei, le banche e gli speculatori, le cui operazioni finanziarie rischiose hanno provocato la crisi stessa, se ne usciranno senza alcuna conseguenza. Questo non può essere nè economicamente nè socialmente accettabile.
Le iniziative e le riforme attuali sono insufficienti perché prescrivono una via, quella dell’austerità economica, come unico rimedio universale per tutti i paesi membri. Esse dimenticano le disparità economiche e gli squilibri esistenti tra gli stati membri dell’UE e, cosi facendo, rischiano di accentuare le fratture economiche invece di sanarle.
Anche i rimedi proposti sono particolarmente condivisibili ed evidenti:
1) Una tassa sulle transazioni finanziarie in Europa (…)
2) Un programma di crescita europea (…)
3) Istituzione degli eurobond (…)
4)Un sistema bancario con un’autentica funzione di servizio(…)
5)Una base comune per l’imponibile fiscale sulle società (…)
6)Un patto di stabilità sociale (…)
La governance economica deve essere completamente democratica
Non ci sembra per altro che la precedente opposizione parlamentare (in particolare il PD) abbia recepito in alcun modo tali indicazioni ed in particolare, favorendo la nascita di un governo tecnico non eletto dai cittadini, essa ha disatteso la necessità di una governance democratica, e con le misure messe in atto e votate dalla medesima ex opposizione, oggi diventata a tutti gli effetti componente organica per la fiducia ad un governo che attua le politiche della peggior destra europea, essa ha piuttosto contribuito a far pagare ai contribuenti più deboli un ulteriore insopportabile costo della crisi, rendendosi di fatto complice attiva della recessione in atto. E con l'aggravante di spacciare tale complicità per senso di responsabilità, non certo esercitato nei confronti della maggioranza degli elettori.
Un partito Socialista degno di tale nome deve dunque evitare due rischi che sono al contempo due pericoli micidiali che possono portarlo al suo annientamento definitivo:
Il primo è la "complicità" con chi mette in atto politiche profondamente divergenti da quelle che si considera di attuare nell'ambito del Socialismo Europeo
Il secondo è lo “strabismo” che lo porta a guardare da una parte alla sua presenza in un ristretto ambito localistico, e dall'altra a fregiarsi di una visione europea di facciata, in particolare per autoleggittimarsi (ma solo formalmente) nell'eventualità che altri reclamino il diritto di attuare politiche concretamente e più credibilmente socialiste. Uno “strabismo” per altro accentuato anche dalla tendenza non tanto ad accogliere senza pretese chi crede di avere sbagliato ad intraprendere strade diverse in passato, ma addirittura a proporre liste comuni con coloro che fuoriescono da anni di berlusconismo da noi sempre aspramente criticati e considerati tuttora rovinosi per l'assetto sociale ed economico del paese.
Chi ha sbagliato e chiede di tornare a non sbagliare può essere accolto (perché non si sbatte mai la porta in faccia a nessuno e ai miracoli non si voltano mai le spalle), ma solo a patto che, pentito seriamente ed amaramente del suo recente passato, dia poi umilmente il suo contributo come tutti. Non si può certo accettare che diventi invece il perno di una nuova politica per cercare consensi che non troveremo di sicuro tra quelle persone che sanno ancora quali sono sempre stati i valori e gli orientamenti del socialismo italiano, tanto meno tra i giovani che sono stati le vittime preferite di tali disastrose politiche, messe in atto con il pieno assenso di coloro che oggi abbandonano il carro di Berlusconi.
Un valore che dobbiamo mettere al centro della nostra politica è la “condivisione” perché il valori socialisti non sono un “monopolio” esclusivo di un partito, in particolare, considerando i compagni socialisti di SEL profondamente delusi dopo la svolta del “precedente” segretario svoltasi a Bagnoli, che aspiravano ed aspirano tuttora a creare una “sinistra larga” di orientamento socialista e democratico, noi dobbiamo rivolgere loro un caloroso appello affinché si crei con il nostro partito una piena convergenza di intenti, per rafforzare anche in SEL l'energia necessaria a percorrere con orientamenti e valori chiari, la via del Socialismo Europeo, la quale, evidentemente, non può essere tracciata solo da un leader, o che, comunque, non aspetta a tempo indeterminato che un leader la percorra, ma piuttosto richiede una vasta partecipazione e consapevolezza nella base di tutti quei militanti di partito che sono decisi fermamente ad intraprenderla.
Noi, dunque, come partito seriamente ancorato alla sinistra fino ad esserne indissolubili e a reclamarne oggi come 120 anni fa la sinonimia e la stessa “fondazione”, restiamo aperti al loro prezioso contributo e anche alla loro militanza, pronti ad accoglierli in ogni momento, per valorizzare al massimo le loro ragioni e farne elemento fondamentale di propulsione creativa verso i più vasti orizzonti e percorsi che consideriamo insieme di volere raggiungere.
Lo stesso diciamo ai compagni socialisti del PD, e anche a chi si trova nella FED; la sinistra può e deve essere rinnovata e rilanciata soprattutto se sapremo condividere la strada della prassi socialista, che richiede innanzitutto partecipazione alle lotte dei lavoratori, sostegno ai sindacati che più ne difendono oggi i diritti, promozione di una coscienza più matura di appartenere ad una “classe”, ad un mondo che lo spietato totalitarismo del profitto tende a ridurre a merce e “pezzo di ricambio”, soltanto per accrescere i suoi interessi. Ciò ci impone in particolare una coscienza matura dei rapporti sociali in atto e anche delle sfide ecologiche ed ambientali che esigono un diverso modello di sviluppo più orientato non tanto verso la “sostenibilità”, ma piuttosto verso la compartecipazione alla valorizzazione e alla simbiosi con le forze della natura, ricavandone energia vitale e rinnovabile.
Per seguire la bussola del Socialismo, l'unica che può concretamente evitare di farci naufragare in una generalizzata e globalmente rovinosa barbarie, è necessario non essere “strabici”, e conseguentemente saper guardare insieme nella stessa direzione, verso la quale già puntano altri popoli che validamente cercano di contrastare, anche in altri continenti, la tirannide di un capitalismo cainamente speculatore e guerrafondaio.
Dobbiamo utilizzare le risorse preziose che vengono dai contribuenti (e dobbiamo lottare strenuamente affinché tutti lo siano) non per incrementare l'attività più inutile e dispendiosa oltre che tragicamente rovinosa ed autodistruttiva che ci sia mai stata: la guerra. Dobbiamo giovarcene per rendere il nostro Stato più solidale e più giusto, per combattere la criminalità e la corruzione e per tutelare lo Stato sociale, la giustizia, la salute, la formazione ed i posti di lavoro, sapendo anche “vendere meglio” i nostri prodotti all'estero, in particolar modo nei paesi emergenti del BRIC in cui la nostra politica dell'export è tuttora in ritardo, deficitaria e scarsamente concorrenziale.
Noi siamo “piccoli” perché scontiamo troppe “piccolezze” che ci hanno ridotto in tali condizioni in un passato recente, dopo avere tentato di essere “grandi” con un grande leader: Bettino Craxi il quale però, pur pensando in “grande” non seppe allargare questa “grandezza” al di fuori della sua leadership, restando sostanzialmente prigioniero prima e confinato poi nell'assolutismo di “quella sua personale”.
Un leader è grande quando riesce non solo a dare un esempio credibile e duraturo, ma ancor di più quando sa coinvolgere, nella rilevanza del suo progetto innovativo, la partecipazione attiva e responsabile di altri compagni e persino di altre forze politiche; in poche parole quando è “contagiosamente” utile e positivo per una causa comune. Così furono grandi socialisti come Pertini, Nenni e Lombardi, così possiamo, vogliamo e dobbiamo essere noi, non contando su “uno per tutti”, ma essendo piuttosto disposti a “contare tutti per uno”.
Condivisione e focalizzazione degli obiettivi che abbiamo di fronte, senza alcuna “complicità” o “strabismo” questa può essere la strada non solo della rinascita di un partito, ma, ancora di più, di una Italia più degna, più rispettata e sicuramente migliore di quella che abbiamo oggi sotto i nostri occhi
Ecco quindi che il miglior augurio che credo di potervi fare per il nostro prossimo 120° anniversario è quello di avere coraggio e di non esitare, per continuare a guardare in alto e credere, partecipare e lottare, perché così le ombre si accorceranno, e il nostro sole, quello del migliore avvenire, finalmente potrà rispendere alto e luminoso su di noi... fino alla vittoria, sempre!

C.F.

giovedì 22 dicembre 2011

Un problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi




di Guglielmo Carchedi

dal sito Proteo

E' da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale di Carlo Marx che economisti di varie scuole hanno scoperto e riscoperto una ‘contraddizione’ nell’economia marxista che ne invaliderebbe le fondamenta. Si tratta del cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi. Lo scopo di questa breve nota è duplice. Primo, fare uno schema dell’essenza del cosiddetto problema per i ‘non-addetti ai lavori’, vale a dire in termini comprensibili a tutti. Secondo, dimostrare che il problema, se c’è, è solo nelle menti confuse dei critici di Marx. Premetto che quanto segue è solo ciò che è strettamente necessario per capire il dibattito sulla trasformazione.
Che cos’è dunque la trasformazione? Nella teoria di Marx, il valore di una merce è dato dal valore dei mezzi di produzione, chiamati capitale costante, dal valore della forza lavoro, chiamato capitale variabile, e dal plusvalore creato dai lavoratori. Se V è il valore della merce, c quello del capitale costante, v quello del capitale variabile e s è plusvalore, il valore di una merce è V = c+v+s. Consideriamo adesso due settori rappresentati dalle merci che essi producono, e chiamiamoli V1 e V2. Ciascuno di essi ha bisogno del suo c e del suo v e produce il suo s.
In tal caso
V1 = c1+v1+s1
V2 = c2+v2+s2.
Diamo adesso dei valori a questa notazione astratta. Per esempio, se i valori del capitale investito sono espressi in percentuali (cosicché il totale del capitale costante più quello variabile è uguale a 100)
Settore 1: V1 = 80+20+20 = 120
Settore 2: V2 = 60+40+40 = 140
In questo schema, il settore 1 impiega capitale costante per un valore di 80 e capitale variabile per un valore di 20. Si presuppone che il plusvalore prodotto sia uguale al valore della forza lavoro (il capitale variabile). Questo implica un tasso di plusvalore (il rapporto tra plusvalore e capitale variabile) uguale a 20/20 = 100%. La stessa ipotesi è fatta per il plusvalore prodotto nel settore 2 in cui il valore del capitale costante è 60 e quello del capitale variabile è 40. Quindi il plusvalore prodotto è di 40.
Fino a qui abbiamo supposto che in ciascuno dei due settori vi sia solo un produttore. Supponiamo adesso che in ciascuno di questi settori vi siano più produttori (tutti i produttori nello stesso settore impiegano la stessa percentuale di c e v e in entrambi i settori il tasso di plusvalore è del 100%). Introduciamo la nozione di tasso di profitto. Quando un’impresa vende i suoi prodotti, ricava un certo plusvalore che, diviso per la somma del capitale investito (c+v), dà il tasso di profitto. Supponiamo che la domanda sia distribuita in modo tale che ciascun settore realizzi il plusvalore in esso prodotto. In tal caso il settore 1 ha un tasso di profitto uguale a 20/100 = 20% e il settore 2 di 40/100=40%. Ora, se le imprese nel settore 1 ricavano un tasso di profitto inferiore a quelle nel settore 2, vi sarà una tendenza a disinvestire nel primo settore e a investire nel secondo. La produzione e quindi l’offerta nel settore 1 diminuisce e quella nel settore 2 aumenta. Se la distribuzione della domanda (cioè del potere d’acquisto) tra i due settori è invariata, i prezzi aumentano nel settore 1 e cadono nel settore 2. Lo stesso vale per i tassi di profitto: il tasso nel settore 1 cresce al di sopra del 20% e quello nel settore 2 cade al di sotto del 40%. Cioè vi è una tendenziale perequazione dei tassi di profitto verso (20+40)/(80+20+60+40)= 60/200 = 30%. [1]
Tuttavia, una distribuzione della domanda tale che ciascun settore realizzi esattamente il plusvalore in esso prodotto è puramente accidentale. In realtà, la distribuzione della domanda e quindi i prezzi dei due settori saranno diversi da quelli appena ipotizzati. Come prima ipotesi di lavoro supponiamo che essi siano tali che i due settori realizzano il tasso medio di profitto del 30% (conseguentemente, non vi è movimento di capitali). In tal caso, ciascun impresa del settore 1 venderà i suoi prodotti per 130 e lo stesso vale per le imprese del settore 2. Ossia, i lavoratori di ciascun impresa nel settore 1 producono un plusvalore di 20 ma quell’impresa ricava un plusvalore uguale a 30 mentre i lavoratori di ciascun’impresa nel settore 2 producono un plusvalore di 40 ma tale impresa ricava un plusvalore di 30. Vendendo a tali prezzi, ciascun’impresa nel settore 1 si appropria di un plusvalore aggiuntivo di 10 e ciascun’impresa del settore 2 perde un plusvalore di 10. La trasformazione dei valori in prezzi è tutta qui: è una redistribuzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso di profitto vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto (30%) e i settori ad alto tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro tasso alla media. Si noti che la media è solo un esempio. Ogni altro valore entro 120 e 140 andrebbe ugualmente bene. Il vantaggio di ipotizzare la media è che ci permette di astrarre dai movimenti di capitale e quindi di focalizzare la nostra attenzione sull’appropriazione di valore attraverso il sistema dei prezzi. La trasformazione quindi non è nient’altro che la teoria della formazione dei prezzi in Marx che a sua volta non è nient’altro che la differenza tra valore prodotto e appropriato. Niente di trascendentale.
Tra parentesi, l’appropriazione di valore dovuta ad una struttura di domanda ed offerta tale che ciascun settore realizza o di più o di meno del plusvalore prodotto (l’ipotesi di cui sopra) è chiamata ‘scambio diseguale’ (una nozione da non confondersi con quella di Emmanuel). Questa nozione è importante non tanto perché spiega l’appropriazione di valore nelle condizioni sopra ipotizzate quanto perché (1) ci permette di focalizzare l’attenzione sull’essenza della trasformazione dei valori nei prezzi e perché (2) tale spiegazione è il punto iniziale che ci permette di rivelare l’appropriazione di valore in seguito alle innovazioni tecnologiche e a prezzi costanti nei settori innovativi (la causa ultima delle crisi economiche). Ma quest’argomento non può essere trattato qui. Ritorniamo alla trasformazione.
Introduciamo ora la dimensione temporale. A ciascuna produzione segue la distribuzione (vendita) e il consumo dei beni prodotti. La economia è quindi un susseguirsi di periodi che iniziano con l’ acquisto dei beni necessari (gli inputs), che prosegue con la loro trasformazione (produzione), e che finisce con la vendita e consumo del prodotto (output). Chiamiamo t1 il momento iniziale (acquisto degli inputs) del primo periodo e t2 quello finale (vendita e consumo degli outputs). Al momento t1 le imprese del settore 1 comprano mezzi di produzione per 80 e forza lavoro per 20. A t2 vendono un prodotto per 130. In maniera simile, a t1 le imprese del settore 2 comprano mezzi di produzione per 60 e forza lavoro per 40 e a t2 ricavano 130. A t2, i capitalisti del settore 1 consumano 30 e accantonano 100 per ricominciare un nuovo periodo. Lo stesso vale per i capitalisti del settore 2. Il nuovo ciclo incomincia a t2 (se si suppone, per semplificare le cose, che la data della fine del primo ciclo coincide con quella dell’inizio del secondo ciclo) e finisce a t3. E cioè a t2 ciascun’impresa compra gli inputs per un totale di 100 e a t3 vende gli outputs per 130. E così via. Questo è il cosiddetto schema di riproduzione semplice (in cui il plusvalore è completamente consumato dai capitalisti invece di essere parzialmente reinvestito in addizionale c+v, come nella riproduzione allargata).
Questo schema dell’attività economica è estremamente semplificato ma contiene in nuce tutti gli elementi per essere esteso a situazioni sempre più complesse. Le sue potenzialità per capire il capitalismo dal punto di vista del proletariato sono immense, ed è proprio per questo che è stato attaccato e continua d essere attaccato dalla ‘scienza’ economica la cui matrice ideologica è esattamente l’opposta di quella di Marx. Vediamo in che consiste tale critica. Consideriamo l’esempio di cui sopra
Settore 1:
valore prodotto=80+20+20=120 Valore realizzato=130
Settore 2:
valore prodotto=60+40+40=140 Valore realizzato=130
Supponiamo ora che i due settori rappresentino l’economia di un paese (l’introduzione di più settori renderebbe tale esempio più realistico ma due settori sono sufficienti per capire la questione). La critica verte sui seguenti tre punti. Primo, c’è la domanda su cui molti si sono spremuti le meningi: che cos’è il valore e come si misura? La risposta per Marx è molto semplice. Il valore è lavoro umano eseguito entro relazioni economiche capitalistiche, cioè eseguito da coloro che non sono i proprietari dei mezzi di produzione per i proprietari di tali mezzi. Molto dovrebbe essere aggiunto, ma questa è l’essenza. Quindi il valore ha sia un aspetto naturalistico (e in questo senso il lavoro è la sostanza del valore) sia un aspetto socialmente determinato. Bene, dicono i critici, ma per Marx il lavoro semplice conta meno di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di quello meno intenso.
Questa tesi è stata criticata, come al solito, semplicemente perché non è stata capita. Consideriamo prima il valore prodotto dal lavoro semplice e da quello complesso. La forza lavoro del lavoratore non-qualificato, (per esempio, lo spazzino) richiede meno tempo per essere prodotta, per esempio un più basso livello di scolarità, di quella del lavoratore qualificato (per esempio, l’ingegnere). Se alla società creare un ingegnere costa un multiplo del tempo necessario per creare uno spazzino, ogni volta che un ingegnere è creato è come se venissero creati diversi spazzini (diversi spazzini non potrebbero fare il lavoro dell’ingegnere ma ciò è irrilevante, dato che è l’aspetto quantitativo e non quello qualitativo che conta in questo contesto). Quindi, ogni volta che un ingegnere lavora per un’ora è come se lavorassero diversi spazzini per un’ora. È per questo che il lavoro della forza lavoro qualificata (lavoro complesso) conta come un multiplo del lavoro della forza lavoro non-qualificata (lavoro semplice). Per quanto riguarda l’intensità del lavoro, uno spazzino (e lo stesso vale per l’ingegnere) che lavora ad una intensità doppia di quella di un altro produce un valore uguale a quello di due spazzini più ‘pigri’. Infatti, ci vorrebbero due di questi ultimi per produrre quello che produce lo spazzino più alacre. Questo è la tesi di Marx.
Pur ammettendo che tale tesi sia giusta, dicono i critici, siccome noi non possiamo osservare tipi diversi di lavoro, il concetto di valore non può essere empirico e diventa metafisico. Questa è una sciocchezza bella e buona. Che i diversi tipi di lavoro non siano osservabili è solo ed unicamente una conseguenza di un sistema di rilevazioni statistiche che (non a caso) non si presta a tale tipo di osservazioni. Date le risorse ad un gruppo di ricercatori e loro vi produrranno un sistema di rilevazione del lavoro adatto a misurare il valore prodotto da ciascun lavoratore (si veda il volume curato da A.Freeman e G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996, capitolo 7).
La seconda critica è chiamata pomposamente la ‘regressione ad infinitum’, un nome tale da incutere timore. E cioè, dicono i critici (tra cui penne illustri, come Joan Robinson), per calcolare il valore del prodotto di un certo periodo, bisogna sapere il valore degli inputs, per esempio dei suoi mezzi di produzione. Ma questi sono stati a loro volta outputs del periodo precedente. Quindi per calcolare il loro valore dobbiamo fare un ulteriore passo indietro nel tempo, e così via presumibilmente fino alle origini della vita. Questa è una sciocchezza ancora maggiore. Come ho argomentato più volte, questo criterio renderebbe impossibile qualsiasi tipo di scienza e di conoscenza (compresa la storia). Ogni tipo di scienza deve prendere un certo punto di partenza come dato. Per esempio, per capire le origini del capitalismo devo prendere il feudalesimo come un dato punto di partenza. Se, per capire il capitalismo, penso che sia necessario indagare anche sulle origini del feudalesimo, allora devo prendere l’epoca precedente come data. Ma alla fine dovrò fermarmi e prendere un certo punto come dato. Similmente, uno psichiatra che indaghi sui problemi del suo paziente può pensare che sia necessario esaminare la psiche dei suoi genitori. Eventualmente potrebbe fare un passo indietro nell’albero genealogico del paziente ma alla fine si dovrà fermare. Per tornare a noi, per calcolare il valore di un prodotto devo prendere quello dei suoi inputs come dati. Anche se volessi fare ulteriori passi indietro, ad un certo punto dovrò pure prendere gli inputs di un certo periodo come dati. È incredibile ma vero: è con questo tipo di balbettio metodologico che un gigante come Marx viene attaccato.
La terza ed ultima critica richiede un certo impegno per essere seguita. Supponiamo che il settore 1 produca beni di investimento (macchine, ecc.) e che il settore 2 produca beni di consumo (vestiti, cibo, ecc.). Questo è il modello più semplice di un’economia. Consideriamo il settore 1. Esso vende i mezzi di produzione da esso prodotti per un valore di 130, sia al suo interno che al settore 2. Ora, dicono i critici con l’aria di chi ha avuto une grande pensata, anche un bambino sa che lo stesso prodotto è comprato dal compratore per un certo prezzo e venduto dal venditore allo stesso prezzo. Nell’esempio precedente, 130 è il valore a cui sono venduti i mezzi di produzione ad entrambi i settori ed ovviamente dovrebbe essere il valore pagato dai compratori. Però i mezzi di produzione sono comprati dai capitalisti nel settore 1 per un valore di 80 e nel settore 2 per un valore di 60. Il totale è 140. Voilà, ecco la prova definitiva dell’incoerenza del pensiero di Marx. I capitalisti comprano i mezzi di produzione per 140 ma li vendono per 130. Il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo pagato dal compratore. È questa l’essenza della critica della circolarità, la critica maggiormente diffusa ed accettata della teoria marxista della trasformazione dei valori in prezzi. Fu originariamente proposta da Böhm-Bawerk, ripetuta, con una ‘soluzione’ che accettava la validità della critica, da von Bortkiewicz, e, ahimè, accettata e diffusa nei circoli marxisti dall’influente economista marxista Paul Sweezy nel secondo dopoguerra. Dopo di loro, intere biblioteche sono state scritte su questo ‘problema’ come se il problema esistesse veramente e numerose soluzioni sono state trovate ad un problema che non esiste. Ma le cose stanno diversamente e per ben due motivi.




Primo, la discrepanza (tra 130 e 140) è dovuta al fatto che negli esempi di cui sopra (e per estensione in tutte le discussioni sulla trasformazione) il capitale costante e quello variabile sono espressi in percentuali piuttosto che nei loro valori assoluti (vedi sopra). Questi valori percentuali sono stati implicitamente considerati dai critici come valori assoluti e quindi sono stati fatti contare come una unità di capitale investito per settore. Ma se si ipotizzano diverse unità di capitale investito nei vari settori, il problema sparisce. Vediamo perché.
Consideriamo il periodo t1-t2. Se entrambi i settori hanno comprato mezzi di produzione a t1 per 60+80=140 è ovviamente perché tali mezzi di produzione erano allora disponibili a quei prezzi (indagare sulla formazione di questi prezzi significherebbe accettare la validità della regressione ad infinitum). Se, durante il periodo t1-t2, il settore 1 produce mezzi di produzione che vende a t2 solo per 130 vuol dire (1) o che la produzione è calata (e con essa è anche calato il potere d’acquisto, la domanda, per tale offerta) cosicché a t2 (come inizio del periodo t2-t3) i mezzi di produzione che possono essere comprati avranno un prezzo di 130 (2) o che nel settore 1 operavano più di una unità di capitale e quindi la quantità di capitale investito e i mezzi di produzione prodotti sono tali per cui il prezzo totale dei mezzi di produzione è 140. Ciò non può essere visto perché l’esempio considera implicitamente solo una unità di capitale investito invece di mostrare il capitale effettivamente investito, cioè l’esempio mostra le percentuali invece dei valori assoluti. La critica non comprende l’ipotesi su cui si basa la teoria marxista della trasformazione.
Per di più, anche se si considerano valori percentuali, cioè solo una unità di valore investito per settore, per ciascun esempio in cui c’è una ‘discrepanza’ come sopra, un altro esempio può essere fatto in cui tale ‘discrepanza’ non esiste. Nell’esempio di cui sopra basta ipotizzare che il settore 1 investe 73.3c e 26.7v per ottenere i seguenti risultati

Settore 1 73.3c+26.7v+26.7s
=
126.7
Settore 2 60.0c+40.0v+40.0s
=
140.0







133.3c+66.7v+66.7s
=
266.7
Dopo la perequazione del tasso di profitto (66.7/200=0.33), ciascun settore realizza un valore pari a 133.3. Quindi il settore 1 vende i mezzi di produzione a 133.3 e entrambi i settori li comprano a 73.3+60.0=133. [1].
Secondo, abbiamo visto che non vi è ‘discrepanza’ tra i valori dei mezzi di produzione comprati e venduti. Vediamo ora perché i critici hanno potuto pensare che vi fosse tale discrepanza, cioè perché il metodo di Marx sia presumibilmente affetto da circolarità. La ragione è che la critica si basa su un madornale errore logico. Consideriamo il primo periodo, t1-t2. A t1 le imprese di entrambi i settori comprano mezzi di produzione per 80+60=140. Con tali mezzi di produzione nuovi mezzi di produzione vengono prodotti dalle imprese del settore 1 che li vendono (sia all’interno del loro stesso settore che al loro esterno, al settore 2) per 130. Cioè, indipendentemente dai valori a cui sono comprati e venduti, i mezzi di produzione comprati a t1 (che servono per il periodo t1-t2) non sono gli stessi di quelli venduti a t2 (che servono per il periodo t2-t3). Tuttavia, la supposta circolarità nel metodo di Marx si basa sull’assurda ipotesi che i mezzi di produzione comprati a t1 sono gli stessi di quelli venduti a t2. Ciò è evidente se si considera l’affermazione su cui si basa la critica della circolarità secondo cui nel metodo marxiano gli stessi mezzi di produzione sono venduti ad un prezzo e comprati ad un altro prezzo (vedi sopra).
In altre parole, la critica sarebbe valida se i mezzi di produzione prodotti dal settore 1 nel periodo t1-t2 (quindi venduti da tale settore per 130 al momento t2) fossero comprati da entrambi i settori non al momento t2 ma al momento t1 (quindi per 140). In questo caso essi sarebbero contemporaneamente venduti per 130 ma comprati per 1403. Ma questo significa sovrapporre i due momenti t1 e t2, significa cioè abolire il tempo. Questa è la contro-critica che rivela la vacuità del cosiddetto problema della circolarità nella trasformazione dei valori in prezzi. Tale contro-critica, da quando è stata formulata negli anni 80 (si veda G. Carchedi, The Logic of Prices and Values, Economy and Society, Vol.13, No.4, 1984 e G. Carchedi, Frontiers of Political Economy, Verso, London, 1991, ch. 3) ad oggi non è mai stata ribattuta. Si continua a parlare del ‘problema’ della trasformazione e a trovare delle ‘soluzioni’ la cui assurdità metodologica è direttamente proporzionale al poderoso arsenale matematico impiegato.
Concludendo, ridotta alla sua essenza, la questione è semplice. In una concezione in cui il tempo non esiste, la teoria di Marx è incoerente. Ma in una teoria in cui il tempo esiste è la critica a Marx che è incoerente. Ciascuno faccia la sua scelta.










mercoledì 21 dicembre 2011

Tagli e tasse sul corpo martoriato dei lavoratori


Fabio Damen
15 dicembre 2011

martedì 20 dicembre 2011

Sinistra radicale in Italia: a che punto siamo? di Riccardo Achilli



Condizioni oggettive e soggettive

A che punto siamo nello sviluppo di una sinistra radicale nel nostro Paese? Bella domanda, cui personalmente non ho una risposta convincente da dare. Certamente al crescere delle condizioni oggettive di una situazione rivoluzionaria, che procede con l'impoverimento progressivo di strati sempre più ampi del proletariato, persiste una perniciosa assenza della condizione soggettiva, poiché non solo manca un partito unitario e forte, ma sembra mancare anche un vertice sufficientemente coeso, carismatico e in grado di condividere fosse anche un programma di transizione sufficientemente articolato, figuriamoci un programma rivoluzionario. In assenza di una situazione ragionevolmente pronta ad un salto rivoluzionario immediato e diretto, il lavoro che sembra attendere prioritariamente la sinistra antagonista è quello di costruire, se non una coscienza di classe, quantomeno una maggiore consapevolezza degli obiettivi di una lotta.
Il problema, quindi, è oggi quello di iniettare una consapevolezza di base in un proletariato caratterizzato da condizioni strutturali di modestissima capacità combattiva di fronte alla svolta esasperatamente liberista che il capitalismo in crisi sta imprimendo. Dovrebbe far riflettere il sondaggio, pubblicato ieri, in cui il 58% degli intervistati ha ancora fiducia in Monti e nella Fornero, anche dopo la pubblicazione della manovra finanziaria, mentre per un terzo dell'elettorato la colpa della situazione attuale, e delle manovre finanziarie di Monti, è da addebitarsi a Berlusconi ed al suo Governo. Non serve a niente liquidare con sufficienza i sondaggi, mentre è molto più utile esaminarne il significato, che più o meno riflette il successo di un'operazione mediatica, condotta dalla borghesia che ha scaricato il suo ex-campione Berlusconi, oramai imbolsito da una gestione "tiberiana" del potere, per mettersi nelle più energiche mani del tecnico Monti. Tale operazione tende, da un lato, a recuperare consenso dai settori riformisti dell'elettorato, facendo passare un normalissimo avvicendamento fra gli scudieri politici della borghesia come la tanto sospirata rivoluzione antiberlusconiana, che nella crisi di idee e valori del riformismo della fase successiva alla disfatta del keynesianesimo, è praticamente l'unico obiettivo politico su cui tale area politica e sociale fonda una presunta (ed illusoria) identità. D'altro canto, si radica nelle menti l'idea del "sacrificio necessario", dopo l'orgia di tanti anni in cui "si è vissuto al di sopra dei nostri mezzi" (spiegatelo all'operaio che fa sopravvivere una famiglia con 1.200 euro al mese, ditelo al pensionato al minimo, a quell'8% di famiglie italiane in povertà relativa, che in questi ultimi anni avrebbero vissuto in un'irragionevole orgia di benessere consumistico, e che ora devono stringere la cinghia).

Nuovo proletariato

Questa miserevole condizione della consapevolezza, della necessità di una svolta combattiva è difficile da spiegare in modo semplice. Certamente 20 anni di berlusconismo hanno lavorato a fondo sulla sovrastruttura culturale del proletariato, innestandovi valori di individualismo e competizione consumistica che hanno profondamente inciso sui meccanismi di cooperazione e mutuo aiuto, quindi sulla stessa consapevolezza di appartenere ad una stessa classe. La persistenza di un'area a sviluppo ritardato come il Mezzogiorno ha provocato una incorporazione di ampi strati del proletariato meridionale all'interno di meccanismi consociativi, nei quali il posto di lavoro, o piccoli ma vitali sussidi economici, vengono barattati con il voto, dato a formazioni politiche rappresentative della borghesia, e quindi in realtà ostili agli interessi degli operai e dei sottoproletari urbani che li votano. Gli stessi interessi di classe del proletariato settentrionale e di quello meridionale sono stati artificiosamente contrapposti, facendo credere all'operaio lombardo (che non di rado vota per la Lega) che il suo compagno siciliano gli stesse rubando quote di benessere, e così creando addirittura una inedita spaccatura geografica nel proletariato italiano.
I cambiamenti stessi di un capitalismo sempre più terziarizzato hanno però contribuito ancor di più nel senso di un indebolimento della capacità combattiva della classe. Oggi l'80% del valore aggiunto delle economie capitaliste mature è generato dai servizi. E per sua natura, il processo produttivo di un servizio ha caratteristiche peculiari (specie per i servizi a più alto valore aggiunto, quelli la cui materia prima è costituita dal sapere e dall'elaborazione intellettuale di questo - servizi finanziari, consulenziali, di comunicazione, culturali, logistici, ecc.). Il servizio ad alto contenuto di informazione ed elaborazione intellettuale è unico, irripetibile, non può essere prodotto in serie, richiede interazioni orizzontali e non gerarchizzate. tutto ciò richiede una organizzazione del lavoro flessibile fino al precariato, gerarchie di tipo lean ed orizzontali, basate sul concetto del lavoro di gruppo e del brainstorming. Tutto il contrario rispetto ai criteri del fordismo delle vecchie economie industriali. Tale mutamento influisce negativamente sulla coscienza di classe ed aggrava le condizioni di sfruttamento di questo "nuovo" proletario. Spieghiamo meglio questo aspetto.
In sostanza, il proletariato di oggi è sempre più incentrato su figure professionali flessibili, con scarso attaccamento al ciclo produttivo della loro azienda, e che quindi si sentono estranei alle lotte di classe che vi si potrebbero sviluppare.
Si tratta inoltre di lavoratori abituati a lavorare su cicli produttivi sempre più individualizzati, o per piccoli team, e quindi isolati e frazionati dai loro colleghi e compagni, dotati di autonomia funzionale ed organizzativa, tale da configurarli come dei collaboratori del padronato, più che come dipendenti in senso tradizionale (e non è raro che alcuni precari, la cui attività consiste nel fornire servizi consulenziali o di staff al capitalista, vedano sé stessi più come “collaboratori” della proprietà dell'impresa che come sono in realtà, ovvero dei proletari). Naturalmente, tale visione è falsa. Questi precari rimangono dei proletari nel senso marxiano del termine, perché nei rapporti sociali di produzione non hanno da offrire nient'altro che la loro forza-lavoro, e quindi operano in condizioni di alienazione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione e di sfruttamento anche peggiore rispetto al passato.
In una logica marxista, il tempo di lavoro è la chiave per analizzare le condizioni di sfruttamento. Ebbene, il proletario che la terziarizzazione dell'economia ha precarizzato è ancor più sfruttato rispetto al vecchio proletario fordista. Infatti, il suo tempo di lavoro diviene sempre più destrutturato (e lungo). Questo nuovo precario intellettuale terziarizzato, in pratica, non "stacca" mai. Può essere chiamato a lavorare negli orari più imprevedibili. Anche quando è fuori ufficio, le attività di autoformazione, di apprendimento, di rielaborazione, lo assorbono., ecc., rimane tale, ed anzi la sua condizione oggettiva peggiora, per certi versi, rispetto al lavoratore di 30 ani fa. Inoltre cambia, ed in peggio, è la sua coscienza di classe, ovvero la sua percezione del suo posizionamento in dinamiche di classe.
A tal punto che la destra liberale può avanzare l'ipotesi (erronea) che le classi non esistono più, affogate come sono in un enorme ed indistinto "ceto medio" (che però dal punto di vista storico ed economico non ha una sua definizione, quindi non ha un ruolo unitario come classe). Si è giunti al punto che le teorie manageriali più attuali tendono, ovviamente in modo falsificato e strumentale, a considerare morto il conflitto di classe sul posto di lavoro, pretendendo di trasformare l'operaio in un alleato del padrone, anche per il tramite dell'introduzione di sistemi di compartecipazione all'utile d'impresa, che ovviamente sottraggono agli operai la lotta per la posta più importante, ovvero per la proprietà dell'intera impresa, e non di una misera ed eventuale quota degli utili, e sistemi di cogestione, che ovviamente convengono esclusivamente alle burocrazie sindacali che siedono nei consigli di sorveglianza, non certo ai lavoratori. Tali lavoratori sono inoltre abituati a considerarsi dei “piccoli capitalisti”, più evoluti e tutelati rispetto agli operai industriali o agricoli, casomai in grado, tramite i loro risparmi, di fare investimenti immobiliari e finanziari, quindi di scimmiottare in piccolo la borghesia, sentendosi quindi non i proletari che in realtà sono, ma quasi dei piccoli imprenditori.
Rispetto alla succitata evoluzione, il toyotismo ed i sistemi di qualità totale sono stati devastanti, introducendo concetti di lean organization che hanno frammentato l'unitarietà dei lavoratori, anche a livello di singola fabbrica, rendendo meno intuitiva l'identificazione del nemico di classe. Il resto lo ha fatto la de-verticalizzazione dei processi produttivi avviatasi dagli anni Ottanta, in cui l'originaria unitarietà dei lavoratori nelle grandi fabbriche è stata spezzata lungo le filiere, frantumandosi in un pulviscolo di piccole e medie imprese operanti in diversi segmenti della catena del valore, caratterizzate da sistemi di governance che, nei confronti dei lavoratori, sono intrisi di paternalismo e familismo, indubbiamente atti ad annacquare la lotta di classe.
Infine, il sorgere di un nuovo dualismo interno nel mercato del lavoro ha contribuito a frammentare ulteriormente il fronte di lotta del proletariato. I vecchi modelli “insider-outsider” utilizzati per descrivere la competizione interna fra lavoratori (insiders) e disoccupati (outsiders) sono adesso applicabili anche fra i vecchi insiders stessi, poiché si crea un ulteriore frammentazione (che va a sovrapporsi con quella fra chi lavora e chi non lo fa) fra lavoratore a tempo indeterminato e precario. Quest'ultimo viene utilizzato dalla borghesia come “benchmark” sul quale parametrare l'abbassamento dei diritti dei lavoratori stabili, chiedendo loro un aumento di produttività (e quindi un aumento del saggio di sfruttamento) in cambio della loro condizione “privilegiata”, mentre il precario viene spremuto sempre di più agitandogli sotto il naso l'illusione di una futura “stabilizzazione”, in cambio della quale, oggi, viene chiamato a lavorare a ritmi sempre più forsennati, e con salari da miseria. Non è nemmeno infrequente la situazione in cui si vengano a creare veri e propri conflitti fra lavoratori precari e lavoratori stabili: questi ultimi imputano al precario l'abbassamento dei loro diritti e l'aumento del carico di lavoro, mentre i precari sono portati a pensare che la mancata stabilizzazione dipende da un ostracismo da parte dei colleghi a tempo indeterminato, o semplicemente dal fatto che costoro occupano gli unici posti di lavoro stabili che l'azienda può offrire. Ovviamente la radice di tale situazione non risiede nei lavoratori, ma nei capitalisti che hanno creato artatamente tali conflitti in nome del “divide et impera”, ma questo non traspare facilmente.

Che fare?

Quale che sia la spiegazione, non vi è dubbio che occorra lavorare sulla ricostituzione di una consapevolezza minimale della necessità di reagire in modo radicale. Non ho ricette magiche da dare (altrimenti sarei un dirigente politico primario, cosa che non sono né sarò mai, occupandomi di altre cose). Certamente va ridefinito il sindacalismo. La progressiva incorporazione dei grandi sindacati confederali nei meccanismi di controllo del capitalismo probabilmente porta a riconsiderare l'esigenza di far ripartire la lotta sindacale dal basso, mediante sindacati di base, di fabbrica e di unità produttiva, autonomamente creati e gestiti direttamente dai lavoratori, e dotati di una struttura minima di coordinamento fra loro, per condurre lotte in comune.
Molto però dipende anche da ciascuno di noi, dalla capacità di dare segnali giusti, di fornire indicazioni utili, il che presuppone una capacità di analisi politica che spesso latita. Alcuni esempi in tal senso: vedo serpeggiare nella sinistra una crescente e pericolosa simpatia per le posizioni leghiste, solo perché, per questioni meramente tattiche, la Lega osteggia il Governo Monti adoperando, nella sua retorica politica, argomenti simili a quelli che utilizzerebbe un partito comunista. Tale simpatia è stata addirittura portata ad estreme conseguenze, proponendo alleanze tattiche con la Lega, anche da menti molto brillanti, provocando in me non poco sconforto e molta delusione. Attenzione: la posizione della Lega nei confronti di Monti indebolisce, anziché rafforzare, gli interessi di classe. Tale posizione è infatti strumentale esclusivamente all'egoistica pretesa della piccola borghesia settentrionale (che rappresenta la base dell'elettorato leghista, e ne ha conformato la linea politica e i richiami identitari) di non pagare il costo della macelleria sociale di Monti (che poi se a pagare tale costo è il proletario, specie se meridionale, all'elettore medio della Lega va benissimo). La posizione leghista, condita da continui appelli secessionistici, in realtà rafforza la posizione di Monti e della borghesia, anche se formalmente la critica. La paura della secessione agitata, con la bava alla bocca ed il dito medio alzato, da esagitati che indossano elmi celtici, spinge ancor di più il resto dell'elettorato a stringersi attorno a Monti, per "salvare la Patria", minacciata dal secessionismo leghista (che sembra, apparentemente, rafforzarsi con l'indebolimento progressivo dell'economia e della governance politica del Paese, e quindi con il governo dei tecnici, e con le ricette economicamente disastrose che tale governo propone, anche se in larga misura tale rafforzamento delle posizioni secessionistiche è frutto di una illusione ottica e mediatica). Quindi l'amaro calice dei sacrifici propalati da Monti diviene ancora più facile da ammannire, in nome della difesa dell'unità della Patria! Che servizio sopraffino i leghisti stanno rendendo all'italica borghesia! Occorrerebbe sempre tornare agli insegnamenti marxisti di base, secondo i quali non ci si può alleare con la piccola borghesia, che ha sempre un atteggiamento opportunista di fronte alla rivoluzione, ma tutt'al più la si deve trascinare a rimorchio di un'iniziativa politica che rimanga in mano al proletariato.
Altro esempio di errore frequente: fare crescere la consapevolezza significa insegnare al proletariato quali sono le cause e le radici dell'attuale crisi, e delle dolorose manovre finanziarie che lo stanno indebolendo, in nome di un risanamento delle finanze pubbliche che conviene soltanto ai grandi operatori finanziari globali, che dei governi sono i principali creditori. Ciò significa che la lotta di classe deve essere orientata alla radice del problema, ovvero contro i meccanismi di funzionamento dei mercati finanziari, e quindi occorre rivendicare la fuoriuscita immediata dall'euro, lo smantellamento dell'Unione Europea, che di fatto è solamente un meccanismo di liberalizzazione dei mercati delle merci e dei fattori produttivi, che, aumentando la competizione fra questi (ed in particolare fra i lavoratori dei diversi Paesi membri) si risolve in una soluzione liberista a favore della borghesia. E che occorre collettivizzare (non soltanto meramente nazionalizzare) le banche. E abolire i fondi pensionistici, tornando ad una gestione esclusivamente pubblica della previdenza e sotto il controllo dei lavoratori. E proibire per legge l'utilizzo di strumenti finanziari derivati di qualsiasi genere. Viceversa, l'idea di combattere a livello nazionale le manovre finanziarie che di volta in volta, nei Paesi PIIGS (come l'Italia) vengono ammannite per far pagare ai lavoratori il costo del risanamento delle finanze pubbliche e della difesa dell'euro (peraltro una difesa di breve periodo, perché è chiaro anche ai mercati finanziari ed ai loro scherani politici e tecnocratici che l'area-euro è in realtà divenuta insostenibile e quindi sarà smantellata, non prima di aver recuperato il recuperabile dai crediti vantati nei confronti dei Governi dei Paesi iper-indebitati). Educare il proletariato nazionale ad una lotta diretta contro il governo Monti e le sue manovre, senza invece educarlo ad una lotta contro le radici strutturali da cui il governo Monti e le sue ricette economiche scaturiscono, è come confondere i sintomi con le cause di una malattia, ed è profondamente diseducativo.
Terzo esempio, di cui ho parlato in un articolo riferito alla nuova economia del benessere: concetti anche corretti e condivisibili come la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo possono essere utilizzati dalla borghesia per sviare la visione del proletariato dalle condizioni strutturali dei rapporti sociali di produzione, da cui i problemi di sostenibilità ambientale e sociale derivano, verso un terreno molto più innocuo per la borghesia stessa, ovvero quello sovrastrutturale della qualità della vita, dell'amenità dell'ambiente e del paesaggio, ecc. Tali tentativi sono sostenuti da economisti e pensatori che si autodefiniscono "progressisti", ma che in realtà, spostando la lotta di classe dal terreno strutturale a quello sovrastrutturale, la neutralizzano, difendendo di fatto l'ordine capitalista. Occorre tenersi lontani da tali elaborazioni concettuali, e recuperare il senso della centralità della crescita economica, e quindi dei rapporti sociali di produzione che ne sono alla base. Lottando per un cambiamento dei rapporti di produzione che favorisca la crescita sotto precisi vincoli di compatibilità sociale ed ambientale, non espungere la centralità dei problemi del benessere materiale.
Una maggiore attenzione a tali aspetti è forse il miglior contributo che possiamo dare. Tutto ciò va fatto, e forse è anche la cosa più importante di tutte, recuperando la capacità di ascolto e dialogo fra compagni. Non rinchiudiamoci nel dogmatismo e nel settarismo. Evitiamo atteggiamenti autoreferenziali o dettati esclusivamente da orgoglio personale. Recuperiamo la capacità di ascoltare chi ci critica con spirito costruttivo. Come ben dice l'anarchico spagnolo Guti, "hay que discutir, discutir, discutir. De la discusiòn sale la luz, y no de las votaciones". Come dire...nessuno nasce saputo e nessuno nasce infallibile. Un gruppo dirigente si forgia nella discussione critica e nel coraggio di adottare posizioni aperte e non dogmatiche.

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