DAL
PRIVATO AL PRIVATO,
OVVERO:
una breve storia dei servizi pubblici locali in Italia
di
Norberto
Fragiacomo
1.
Il concetto di servizio pubblico
In
principio era il privato.
Nell’Europa
dell’800 quelli che sarebbero diventati “servizi pubblici”
erano gestiti da imprenditori e società private secondo la logica
del profitto, e venivano forniti, di conseguenza, solo ai membri
delle classi abbienti.
La
lenta trasformazione dello Stato liberale “di diritto” in Stato
sociale determina, verso la fine del secolo, una modifica
dell’impostazione generale: l’ascesa delle forze socialiste e la
presa di coscienza, da parte delle masse, dell’esistenza di diritti
basilari costringono la politica ad un mutamento di rotta – dal
privato al pubblico – che si traduce in leggi di riforma. In
Italia, il primo intervento normativo è datato 1903: si tratta della
c.d. Legge Giolitti (n. 103).
Prima
di esaminarne per sommi capi il contenuto è però opportuno
introdurre il concetto di servizio pubblico. Per espressa ammissione
di generazioni di giuristi che si sono cimentati col tema non si
tratta di impresa facile; lo stesso legislatore è sempre apparso
restio ad introdurre definizioni generali, preferendo individuare
singoli settori di intervento.
Prima
ad essere elaborata fu la c.d. “teoria soggettiva”: servizio
pubblico è quello erogato dallo Stato o dagli enti pubblici. Oggi
tale tesi non è più sostenibile, e difficilmente lo era in passato,
dal momento che – attraverso il meccanismo della concessione – il
privato ha, in ogni epoca, rivestito un ruolo (sia pure secondario)
nell’erogazione. Più convincente appare, alla luce del diritto
positivo, la “teoria oggettiva”: servizio pubblico è quello che,
per il
soddisfacimento di determinate esigenze generali,
si rivolge ad
un’utenza indifferenziata.
Il problema è che la mutevolezza delle scelte legislative impedisce
di distinguere aprioristicamente ciò che è di interesse generale –
e quindi va considerato “servizio pubblico” – da ciò che non
lo è: dunque l’esame va condotto caso per caso, a seconda dei
momenti storici. Si tratta, in altre parole, di un concetto politico
piuttosto che giuridico.
Una
nozione oggi abbastanza condivisa, ma eminentemente descrittiva,
fonde le due precitate teorie, individuando nel servizio pubblico
quel
complesso di attività, direttamente od indirettamente riconducibili
all’amministrazione, che soddisfano bisogni collettivi e sono
rivolte, perciò, alla generalità dei cittadini1.
I caratteri del servizio sono pertanto la continuità, la doverosità,
l’economicità, il rispetto dei principi di tutela,
qualità e partecipazione2.
Esiste
anche una definizione in negativo: il servizio pubblico va distinto
dalla funzione pubblica, che implica – a differenza del primo –
l’esercizio di poteri autoritativi, in base allo schema
potestà-soggezione. In pratica, lo Stato gestore, che agisce in
regime di diritto privato, è contrapposto allo Stato autorità, che
agisce invece in regime di diritto amministrativo3.
Come
detto, non esiste un’unitaria nozione legislativa di servizio
pubblico: la legge 146/1990 regolamenta il diritto di sciopero nei
servizi denominati essenziali, riconoscendoli in quelli volti a
garantire il godimento dei diritti fondamentali previsti dalla
Costituzione; la legge 80/1998, invece, attribuisce la giurisdizione
esclusiva in materia di servizi pubblici al giudice amministrativo, e
contiene un’elencazione di natura esemplificativa.
In
ogni caso, un riferimento ai servizi pubblici è rinvenibile
nell’articolo 43 della Costituzione, che pone un limite “elastico”
all’iniziativa privata in quelli che vengono etichettati come
servizi essenziali.
2.
L’evoluzione della disciplina dei servizi pubblici locali dalla
Legge Giolitti agli anni ‘90
Come
anticipato, è con la Legge
103/1903 che
viene sancita l’assunzione diretta, in capo ai Comuni, dei servizi
pubblici locali. Il meccanismo prescelto per l’erogazione è quello
dell’azienda
speciale, priva
di personalità giuridica ma con autonomia di bilancio: eventuali
utili di gestione vanno a rimpinguare il bilancio comunale,
altrimenti sarà il Comune a dover ripianare i (più frequenti)
disavanzi. E’ prevista anche la gestione
in economia.
Un’evoluzione
si ha negli anni ’20, con l’entrata in vigore del R.D.
2578/1925; in
precedenza, la possibilità di assunzione diretta dei servizi
pubblici era stata estesa anche alle Province.
La
nuova disciplina prevede, per l’assunzione del servizio in regime
di monopolio pubblico, un’autorizzazione legislativa –
autorizzazione non necessaria nell’eventualità in cui il pubblico
si affianchi al privato. Si mantiene il modello dell’azienda
municipalizzata,
ma nuova enfasi viene posta sulla gestione
in economia, cui
si fa ricorso ove il valore del servizio sia modesto, e soprattutto
quando il suo carattere sia prevalentemente non industriale. Via
libera, in alternativa alla gestione diretta, a quella indiretta, da
attuarsi attraverso lo strumento della concessione.
Nonostante
la caduta del fascismo e l’avvento della nuova Costituzione
democratica, la disciplina scritta nel primo quarto di secolo rimane
sostanzialmente invariata fino al 1990, quando con la Legge
142/1990 – che
potenzia il ruolo degli enti locali, attribuendo loro autonomia
statutaria – viene ridisegnato anche il sistema dei servizi locali.
Rispetto
al passato, non mancano le innovazioni: si passa anzitutto da un
modello in cui il servizio ha prevalente carattere imprenditoriale ad
uno nel quale la finalità sociale si affianca a quella della
promozione dello sviluppo della comunità comunale/provinciale. E’
introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio.
Gli
strumenti di gestione sono i seguenti (art. 22):
- gestione in economia, per servizi di modeste dimensioni o dalle particolari caratteristiche;
- concessione, qualora lo richiedano ragioni di carattere tecnico od economico;
- azienda speciale, per i servizi economicamente rilevanti, da gestire secondo modalità imprenditoriali. La nuova azienda speciale ha personalità giuridica, autonomia imprenditoriale ed un proprio statuto (approvato dal Consiglio); i suoi organi sono il consiglio d’amministrazione, il presidente ed il direttore;
- istituzione (con proprio statuto, ma senza personalità giuridica), quando si tratti di gestire un servizio privo di rilevanza imprenditoriale;
- società per azioni a prevalente capitale pubblico, ove risulti utile il coinvolgimento di privati. La Società deve perseguire finalità inerenti all’interesse pubblico affidato all’ente; l’affidamento è disposto con concessione.
3.
Dal Testo Unico al Decreto Bersani (periodo 2000-2006)
Gli
anni ’90 sono non soltanto un periodo di profonda trasformazione
per tutto l’apparato amministrativo italiano; sono anche il
decennio in cui aumenta la capacità di penetrazione della disciplina
comunitaria nell’ordinamento nazionale. Com’è noto, la
legislazione europea non conosce la categoria dei “servizi
pubblici”: parla, più asetticamente, di “servizi di interesse
(economico) generale”. La differenza terminologica non è di poco
conto, specie se si considera la fede dogmatica4
delle istituzioni UE nel totem denominato “tutela della
concorrenza”. La spinta verso una liberalizzazione del settore si
fa dunque sempre più forte, anche grazie ai numerosi interventi
della Corte di Giustizia.
Le
prime significative modifiche al tessuto normativo della 142
coincidono con la trasfusione di detta legge nel Testo
Unico 267/2000.
Si
tratta, in verità, di poca cosa, rispetto ai periodici
stravolgimento che la disciplina subirà negli anni successivi: tra
le novità, merita ricordare l’apertura alle società
per azioni non controllate dall’ente pubblico
ed alle società a
responsabilità limitata oggetto di controllo.
Sorge
tuttavia una questione, fonte di possibili collisioni con i principi
comunitari: è possibile prescindere dal meccanismo di gara per la
scelta del socio privato?
Ancora
una volta è il legislatore ad attivarsi, redigendo l’articolo 35
della Legge
448/2001.
Questa
volta il quadro muta radicalmente: accanto all’articolo 113 del
T.U., dedicato ai “servizi
di rilevanza industriale”
fa la sua comparsa un 113bis, che riguarda i servizi privi di detta
rilevanza; scompare, inoltre, l’istituto della concessione.
Viene anche sancito il principio della necessaria separazione tra la
proprietà di reti, impianti e dotazioni e la gestione del servizio:
la prima è riservata agli enti, o a società di capitali di cui
questi ultimi detengano la maggioranza assoluta ed incedibile; la
seconda è affidata in via preferenziale al privato, da scegliersi
tramite gara.
Anche
la nuova disciplina non manca di suscitare perplessità: si assiste
di conseguenza a ben due interventi legislativi nello stesso anno,
con Leggi 326
e 350/2003.
Scompaiono
i servizi con e senza rilevanza industriale, sostituiti da quelli con
(o senza)
“rilevanza
economica”: il
discrimen adesso
è più chiaro, essendo rappresentato dall’attitudine del servizio
a generare utili. Per quanto riguarda invece la proprietà delle
reti, essa può essere ancora attribuita a società di capitali, a
condizione però che l’intero capitale sia in mani pubbliche.
La
privatizzazione della gestione va avanti: i servizi economicamente
rilevanti possono essere affidati: a) a soggetti
privati, con gara
pubblica: b) a società
miste, con scelta
del socio privato tramite gara pubblica; c) a società
in house,
in presenza dei noti requisiti, elaborati in sede europea, del
controllo “analogo” (a quello sui servizi dell’ente) e della
prevalenza dell’attività svolta in favore dell’ente5.
E’
però la regolamentazione puntuale (art. 113bis) delle modalità di
affidamento dei servizi non economici ad attirare l’attenzione
della Corte Costituzionale che, con Sentenza
272/2004,
dichiara l’illegittimità della disciplina, in quanto non
rientrante nella “materia” statale della tutela della
concorrenza. In tale specifico ambito, dunque, l’autonomia delle
regioni e degli enti locali non può venire ingiustificatamente
compressa.
Passano
due anni prima che il legislatore torni ad occuparsi della tematica
dei servizi locali: in questo caso, però, l’interesse si focalizza
non sui servizi generali, cioè destinati alla collettività, bensì
sulla produzione di beni e servizi strumentali all’attività
dell’ente locale di riferimento.
L’articolo
13 del Decreto
Bersani (n.
223/2006)
vieta, infatti, alle c.d. società strumentali6
di svolgere attività a beneficio di soggetti diversi dall’ente
locale, onde evitare distorsioni del mercato. Da qui l’obbligo per
le amministrazioni di cedere le proprie quote azionarie entro un
breve termine (più volte prorogato) o, in alternativa, di procedere
allo scorporo dei servizi non più consentiti. La norma non si
applica alle società esercenti servizi pubblici7.
4.
Le riforme del 2008/2009 e la Sentenza 325/2010 della Corte
Costituzionale
La
volontà di liberalizzare ulteriormente il mercato sta alla base
dell’ennesimo intervento legislativo in materia, contenuto
nell’articolo 23bis del Decreto
112/2008,
convertito in Legge 133/2008.
Si
sancisce che, in materia di affidamenti, la regola è quella della
gara pubblica, cui possono partecipare società miste e private
(anche di persone!), oltre che singoli imprenditori. Solo in presenza
di particolari circostanze economiche, sociali, ambientali ecc. che
non consentono un utile ed efficace ricorso al mercato,
è consentito l’affidamento in
house – a patto
che la scelta sia adeguatamente pubblicizzata e motivata (in
relazione ad un’analisi di mercato), e che di essa siano informate
l’autorità di settore e quella garante della concorrenza.
Si
ribadisce inoltre il principio secondo cui le reti devono essere
pubbliche, ma la loro gestione può essere affidata a terzi.
Ad
appena un anno di distanza, il legislatore scrive un altro decreto,
il n. 135/2009,
convertito in Legge
166/2009, che
modifica il testo dell’articolo 23bis.
Per
quanto riguarda il modulo in
house, non è più
disposto l’invio di relazioni, bensì la richiesta di un parere
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato; quanto alle
società miste, si precisa che il socio c.d. industriale – cioè
incaricato in toto
o in
parte della
gestione – debba essere scelto con procedure di evidenza pubblica
(c.d. a doppio oggetto8)
e non possa essere titolare di una percentuale inferiore al 40% del
capitale sociale.
Sono
previste delle deroghe (gas, trasporto locale, farmacie comunali,
elettricità) e termini per adeguarsi. Nel complesso, nella sua nuova
formulazione, l’articolo 23bis appare più chiaro rispetto alla
versione precedente; ma resta da dire che l’introduzione della
norma ha suscitato non poche preoccupazioni, legate soprattutto alla
liberalizzazione del servizio idrico.
Questi
timori, uniti alla convinzione che l’intervento fosse invasivo
delle loro competenze, hanno condotto numerose regioni ad impugnare
la norma davanti alla Consulta, e ad emanare proprie normative
derogatorie.
Il
giudice delle leggi si è pronunciato con la Sentenza
325, datata 17
novembre 2010, respingendo di fatto tutte le censure proposte dalle
regioni.
La
Corte ha ritenuto, infatti, che, contrariamente a talune
prospettazioni, la disciplina introdotta dal legislatore nazionale
sia pienamente compatibile con quella europea, che fissa un limite
minimo, non certo massimo, di tutela della concorrenza (le regioni
lamentavano una sorta di marginalizzazione dell’istituto dell’in
house, confinato
in ipotesi eccezionali); ha ribadito la ragionevolezza delle scelte
legislative e, richiamandosi a precedenti pronunce, ha affermato che
la materia dei servizi pubblici di rilevanza economica rientra nella
tutela della concorrenza, affidata allo Stato centrale.
Un
tanto varrebbe, secondo la Consulta, anche per il servizio idrico
integrato. La sentenza dice anche un’altra cosa: che stabilire la
rilevanza economica di un servizio pubblico spetta al legislatore
nazionale “sulla
base di criteri oggettivi”,
in presenza di un mercato anche solo “potenziale”.
Ora,
sarebbe agevole rispondere che un mercato “potenziale” esiste
ovunque, visto che qualsiasi settore è suscettibile di
privatizzazione (dalla sanità ai servizi sociali alle forze
armate9),
e che, di conseguenza, la Corte avrebbe dovuto concludere che non c’è
più spazio, oggi, per servizi “privi di rilevanza economica”, ma
c’è di più: ponendo la concorrenza innanzi tutto, anche in ambiti
fondamentali come quello della distribuzione dell’acqua, il Giudice
delle leggi mostra di non tenere in nessun conto alcuni principi
cardine del nostro ordinamento, come gli articoli 41 e 43 – che
subordinano di fatto l’iniziativa economica privata alle esigenze
primarie dei cittadini – e lo stesso articolo 3, che sancisce
l’eguaglianza sostanziale.
Al
centro dell’attenzione sono non più i bisogni degli individui e
delle collettività di ricevere adeguata tutela, bensì la necessità
del mercato di espandersi, costi quel che costi: i valori della
Costituzione sono capovolti dal suo stesso tutore.
Ed
eccoci dunque tornati al punto di partenza, a quel mondo ottocentesco
in cui tutto poteva essere comprato e venduto, tutto era business.
La
nostra frase di apertura era “in principio era il privato”. La
cieca (ed interessata) fede nel mercato che permea oggi le
istituzioni ci costringe a conchiudere: la fine è il principio.
5.
L’imprevisto di un referendum che supera il quorum e la tentata
truffa di un legislatore alle strette
Il
largo trionfo del “sì” al referendum del 12-13 aprile 2011 –
favorito anche dall’emozione suscitata dalla tragedia di Fukushima
– entusiasmò la cittadinanza consapevole e gettò nello sgomento
le multinazionali dei servizi (specie idrici) e i loro galoppini
politici: di colpo la disciplina dell’articolo 23-bis, approvata
come detto dalla Consulta, non c’era più.
Referendum
sull’acqua, uno slogan azzeccato: in realtà referendum abrogativo
sui servizi pubblici locali di rilevanza economica tutti.
Un
Governo Berlusconi allo sbando – era l’estate del Grande Spread –
provò a ingraziarsi la UE con una norma-truffa contenuta nell’ultima
manovra tremontiana (D.L. 138/2011, convertito in L. 148/2011):
fingendo che la consultazione avesse riguardato solamente l’acqua,
si stabilì di escludere quest’ultima da una nuovissima disciplina
che addirittura limitava il ricorso all’in
house rispetto al
23-bis, prevedendo una soglia massima di 200 mila euro e promuovendo
il ricorso al mercato fra gli “indici di virtuosità” degli enti
locali. Il tentativo di cattivarsi la simpatia dei mercati non andò
a buon fine: nel 2012, a Governo Berlusconi morto e sepolto
(dall’affossatore Napolimonti), la Consulta dovette dichiarare
l’incostituzionalità della norma sopravvenuta, visto che
riproduceva – talora “testualmente”, annotò ironicamente
l’estensore - i principi della vecchia disciplina bocciata dal
referendum (sent. n. 199/2012).
L’esecutivo
Monti decise allora di prendere tempo: il D.L. 179/2012 si adeguava
alle indicazioni della Consulta, dando piena “libertà” agli
EE.LL. circa la modalità di gestione, nel rispetto della normativa
UE.
Storia
finita? Neanche per sogno: leggo, su il Messaggero del 13 aprile
2015, che con specifico riferimento al trasporto pubblico locale (ma
è una rondine che
fa primavera) nel
“Programma nazionale di riforma approvato insieme al DEF viene
annunciata la messa a punto di uno specifico disegno di legge col
duplice obiettivo (…) di garantire
che gli affidamenti in house diventino realmente una categoria
residuale (…)”.
Gli
anni passano (ne serve ancora uno), l’attenzione dell’opinione
pubblica scema: c’è da scommettere che tra le prossime “riforme
epocali” l’erede di Silvio inserirà un’integrale
riprivatizzazione dei servizi pubblici locali. Il tam tam
propagandistico è già cominciato: si farnetica di investimenti
insostenibili, inefficienze e servizi da migliorare.
L’acqua
torna a sporcarsi.
*********************************
NOTE
1
Mutatis mutandis la definizione è valida anche se riferita
alla sottocategoria dei servizi pubblici locali, assunti dall’E.L.
per scopi sociali e di sviluppo economico-sociale della collettività
amministrata.
2
Questi ultimi principi si concretano nella previsione normativa di
“carte dei servizi”, vere e proprie prese d’impegno da parte
dell’amministrazione.
3
Tale conclusione si ricava in primis dal Codice penale, che
distingue il pubblico ufficiale – colui che esercita le funzioni
legislativa, giudiziaria od amministrativa (disponendo, in
quest’ultima ipotesi, di poteri certificativi/autoritativi) –
dall’incaricato di pubblico servizio.
4
Di matrice anglosassone.
5
Oltre che della proprietà interamente pubblica.
6
Si pensi a quelle partecipate che svolgono attività di supporto
informatico all’ente.
7
Sulla stessa scia, la Legge 244/2007 (art. 3, comma 27)
obbliga gli enti locali ad avviare la dismissione, entro un termine
definito, delle proprie partecipazioni in ogni società che a) non
produca beni o servizi strettamente necessari per l’attività
dell’ente stesso, o b) non svolga servizi di interesse generale,
ovvero c) non fornisca servizi di committenza o di centrali di
committenza. Ugualmente vietato è costituire nuove società che non
rispondano ai requisiti di legge. Si dettano regole precise in
ordine alle modalità da seguire per il mantenimento delle
partecipazioni nelle ipotesi consentite (numerosi adempimenti:
delibera consiliare, trasmissione della stessa alla Sezione di
Controllo della Corte dei Conti ecc.), all’obbligo, in caso di
cessione, di rideterminare le dotazioni organiche, al ruolo degli
organi di revisione.
8
E’ stato così accolto dal legislatore il “suggerimento”
contenuto nella sentenza dell’A.P. del CdS n. 1/2008, una sorta di
“terza via” tra chi sosteneva fossero necessarie 2 gare e chi
riteneva sufficiente che la scelta del socio avvenisse con
meccanismi di evidenza pubblica.
9
L’esercito americano, nelle sue più recenti campagne, si è
diviso i compiti bellici con i famigerati contractors.
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