GLI INTRAMONTABILI MIGLIORISMI DELLA SINISTRA ITALIANA
di Riccardo Achilli
Sui motivi della crisi
politica della sinistra italiana, una crisi che oramai potremmo
definire storica, si sono versati fiumi di inchiostro, e gran parte
di quei fiumi colgono correttamente alcuni degli aspetti principali.
Personalmente, sospetto (e l'ho detto da tempo) che il motivo più
grave, che peraltro la sinistra italiana condivide con quella di
tutto il mondo occidentale sviluppato, è l'incapacità di leggere
correttamente i profondi cambiamenti che le società moderne hanno
attraversato negli ultimi venti-trenta anni, con la fine del fordismo
e della compattezza dei blocchi sociali novecenteschi, perdendo di
conseguenza il contatto intimo con le proprie classi sociali di
riferimento.
La globalizzazione della
sinistra, nel tentativo di tenere dietro una globalizzazione
economica e finanziaria crescente, sospinta in modo particolarmente
violento dalla caduta del muro di Berlino e dall'imposizione di un
pensiero unico che ha cercato (con successo) di imporre un modello
omogeneo di relazioni sociali e produttive, ha contribuito a
distaccare ulteriormente la sinistra dal suo substrato sociale di
riferimento. Dentro il modello omogeneo del pensiero unico, il ruolo
della sinistra non poteva che essere di supporto ai processi di
globalizzazione produttiva e finanziaria, a scapito degli interessi
nazionali, in questo cooperando, fino quasi a confondersi, con la
destra liberista. Distaccandosi solo per un approccio meramente
mirato a chiedere compensazioni alle esternalità negative prodotte
da questo processo di progressiva alienazione sociale, culturale ed
identitaria prodotto dalla globalizzazione. E rinunciando a
presentare una alternativa di società. Cioè rinunciando alla sua
stessa funzione ed al suo motivo di esistenza.
Sin qui, però, la
sinistra italiana ha pagato derive comuni all'intera sinistra
europea. Se, però, da noi le cose anno nettamente peggio che in
altri Paesi, ci debbono essere anche fattori di crisi della sinistra
specifici, oltre che comuni alle altre sinistre continentali. Anche
qui ne potremmo identificare moltissimi. In questo articolo vorrei
soffermarmi su uno solo di questi. Che è la tendenza
particolarmente accentuata, rispetto alle altre sinistre europee, a
piegarsi verso riformismi moderati e posizioni centriste, nel
tentativo perenne di vincere una rincorsa verso il centro dello
spettro della società, in concorrenza con le stesse destre. Perché?
Certamente, ancora una volta, soprattutto per motivi strutturali,
ovvero per il particolare peso che nel nostro Paese, da sempre,
assumono i ceti medi impiegatizi e la piccola borghesia, rafforzata
in termini di rappresentanza politica dal particolare assetto di un
capitalismo che, per assenza di una rivoluzione industriale
completata in tutte le sue fasi, conserva fino d oggi i suoi tratti
primitivi, padronali e piccolo-imprenditoriali.
Ma su questi elementi
strutturali si inserisce anche una componente sovrastrutturale di
ordine culturale e di anomalo posizionamento, dentro lo spettro
politico, degli interessi sociali di questo vasto ceto medio e di
questa ipertrofica piccola borghesia.
Il problema di fondo è
che, se nel nostro Paese sono in crisi le culture della sinistra, è
anche in crisi, e da molto più tempo, la cultura liberale, per cui
l'elettorato, il mondo intellettuale e la militanza politica sono
attraversati permanentemente da branchi erranti di liberali in cerca
di autore, che ultimamente si sono accasati in larga misura nel PD,
non potendo ovviamente, dopo l'iniziale errore, poi corretto, di
Montanelli, accasarsi con Berlusconi, che è l'anti-liberale ante
litteram.
Nelle loro infinite
transumanze, dalla scomparsa dei loro riferimenti politici e
culturali (ovvero Einaudi e Croce), costoro hanno, tornando indietro
nel tempo, sostenuto Renzi, sostenuto Monti, sostenuto D'Alema ed i
"liberal" dei Ds e del Pds, per un brevissimo periodo
sostenuto Berlusconi all'inizio della sua avventura, sostenuto
Mariotto Segni, strizzato l'occhio a Pannella ed alla Bonino,
sostenuto il migliorismo nel PCI, hanno fatto un passaggio nel
partito repubblicano di La Malfa senior, alle volte sono stati
favorevoli a Craxi, ma solo per il suo atlantismo, i suoi progetti
presidenzialistici in materia costituzionale, la lotta contro la
scala mobile, non certo per l'espansione della spesa pubblica, la
difesa delle Partecipazioni Statali, le buone relazioni con i
sindacati e gli apparati della Pubblica Amministrazione o le simpatie terzomondiste che
Craxi manifestava nella sua politica estera di grande equilibrio.
Oggi, in larga parte,
stanno nel PD. Ripetutamente dalla parte sbagliata, ripetutamente a
sostegno dell'uomo sbagliato, ma mai pentiti veramente. Mai con le
palle sufficienti per mettersi insieme e farsi la loro battaglia per
far evolvere la destra peggiore di tutta Europa, la più corporativa
e xenofoba, la meno liberale, costoro hanno infestato la sinistra,
cercando di piegarla ai propri valori, producendo quella
degenerazione centrista che l'ha progressivamente fatta sparire dal
panorama politico italiano.
Tali liberali camuffati
da socialisti (e nel vecchio PCI anche da comunisti) hanno alcuni
tratti identificativi, nel loro pensiero, validi per riconoscerli. Ad
iniziare dal loro pantheon, che contiene, in molti casi, personaggi
come Mario Monti o Draghi. Questo liberismo camuffato da socialismo
liberale (Rosselli era tutt'altra cosa, anche come spessore
culturale) guarda con malcelato interesse ai provvedimenti Hartz sul
mercato del lavoro, difende quei socialisti europei in camicia bianca
che non hanno mosso un dito per sostenere la battaglia di Tsipras, ed
anzi, se tedeschi o nordeuropei, l'hanno anche apertamente
contrastata.
La loro impostazione ha
in fondo un'idea negativa, direi autorazzista, del nostro Paese e del
nostro popolo, più o meno inconsciamente lo ritiene inadeguato,
cialtronesco, incapace di riscatto morale e ideale, dentro di se
crede che l'austerità imposta per interessi di profitto e nazionali
ben precisi, ed esogeni all'Italia, sia in fondo la “giusta”
punizione di un popolo empio, corrotto, anarchico, che può essere
disciplinato soltanto dal bastone e da vincoli imposti dall'esterno.
Come stupirsi se con una simile idea di Paese costoro non possano
ottenere nemmeno un'unghia del consenso elettorale ottenuto da uno
che il suo Paese dimostra di amarlo, come Tsipras?
Dall'impostazione di
questi liberali camuffati da socialisti discende un moralismo del
tutto allineato a quella cultura calvinista e puritana che è la base
“filosofica” del liberismo: il benessere economico e sociale non
è un diritto, va conquistato con il lavoro e l'operosità. Il punto
centrale quindi non è quello di fare politiche che portino
l'economia fuori da un punto di strutturale depressione
dell'occupazione e dei redditi, e di costruire una società
egualitaria, non solo nell'astrattezza delle opportunità di ascesa
sociale, ma anche nella concretezza delle condizioni di vita, ma di
stimolare quelle “forze vive”, liberandole da lacci e lacciuoli
burocratici e corporativi, rendendo il Paese più “contendibile”,
e chi se ne frega dell'eguaglianza o della solidarietà. Quelli sono
problemi che si risolvono da soli, per magia.
Infatti, la visione
redistributiva che questi liberali in incognito hanno è in fondo la
stessa del liberismo “palese” dell’economia neoclassica: in
condizioni di libero mercato, i fattori produttivi (lavoro e
capitale) ricevono esattamente quanto danno, in termini di
produttività, alla creazione di nuova ricchezza. Non può essere
diversamente, in un mercato perfettamente concorrenziale e composto
da operatori egoisti, onniscienti e perfettamente razionali,
altrimenti sarebbe impossibile raggiungere il punto di equilibrio fra
domanda ed offerta1.
Quindi, per aumentare la quota di salari su profitti, i lavoratori
devono essere più produttivi. La base del liberismo è nel porre la
produttività dei fattori al centro delle politiche economiche e
sociali, da cui poi discende l'ammontare di bisogni che possono
essere soddisfatti sub-vincolo della produttività.
Evidentemente, in questo
modo, si confonde il piano della competitività con quello della
distribuzione, assoggettando il secondo al primo: se è vero che la
produttività deve crescere per aumentare la competitività, la
crescita della produttività però deve trovare un riscontro
distributivo prima, e non dopo il suo incremento (che altrimenti
sarebbe disincentivato: quale impresa investirebbe in aumento della
produttività se non trovasse un riscontro sul mercato, in termini di
consumi del maggior quantitativo di beni prodotto?) Sacrificando la
domanda sull’altare della produttività, sulla base di una idea del
tutto astratta di una economia che si trova tendenzialmente e
spontaneamente, e salvo perturbazioni momentanee, in equilibrio, e
che quindi riallineerebbe immediatamente e senza frizioni le
retribuzioni dei fattori produttivi alla maggior produttività
conseguita, si finisce quindi per sacrificare capra e cavoli.
E’ la situazione in cui
rischia di precipitare la Germania, portandosi dietro l’intera
area-euro: l’aumento di produttività conseguito nei primi anni
Duemila con le politiche di Agenda 2010 non ha comportato un aumento
parallelo ed automatico dei salari (perché le ipotesi del modello di
equilibrio economico generale non sono vere), per cui il mercato
interno non è in grado di assorbire la maggior produzione, ed è
stato possibile evitare una crisi da sovraproduzione solo grazie alle
crescenti esportazioni. Quando l’export non è più sufficiente,
perché altri mercati, per inseguire lo stesso modello, o per fattori
specifici propri, devono ridurre la crescita della loro domanda di
beni tedeschi, il modello rischia di precipitare nella recessione e
nella deflazione.
Spesso tali liberali
mascherati propongono l’imposta patrimoniale come rimedio ad ogni
male. Dietro la stessa ipotesi di una imposta patrimoniale sulle
grandi fortune, di per sé idea giusta se usata per finalità di
correzione degli squilibri distributivi (cioè di riduzione
dell’indice del Gini), come ad esempio nelle proposte di Picketty,
in costoro, c’è spesso una idea meramente contabile: l’imposta
deve servire per ridurre il debito pubblico, e deve essere
straordinaria e non ordinaria. Essi giustificano tale posizione come
dei ragionieri: siccome l’imposta è un prelievo dall’attivo
patrimoniale, allora, come insegnano i principi contabili, deve
andare a decurtazione del passivo patrimoniale. Non è così
corretto, in realtà, perché si usa un attivo patrimoniale privato
per coprire un passivo patrimoniale pubblico. Viceversa, occorre
trasferire questo attivo patrimoniale dentro il comparto privato,
riducendo la ricchezza patrimoniale dei ricchi per aumentare quella
dei poveri (ad esempio mediante un azzeramento dell’imposizione
sulla casa per i redditi più bassi, o una riduzione del carico
fiscale sui redditi, per consentire una maggiore accumulazione di
risparmio). Una patrimoniale straordinaria, portata a riduzione del
debito pubblico, non implica alcun miglioramento dei meccanismi
distributivi, se essi sono già stati strutturalmente alterati da una
politica di austerità finanziaria.
Un sottofilone di costoro
concepisce la patrimoniale come uno strumento di efficienza del
funzionamento economico: riducendo la ricchezza dei “rentiers”,
tale imposta si lega all’idea liberale di una società più
contendibile, una società delle opportunità per il meritevole (la
traduzione laica ed economicistica della predicazione allucinante del
calvinismo, con la sua idea intrinsecamente discriminatoria della
grazia ultraterrena concessa solo a pochi eletti, e resa palese, per
tale ristretta schiera, dalla fortuna accumulata nella vita terrena).
Questa società non è certo in automatico più giusta. Tutt’altro.
Alla fine conduce all'incubo anglosassone di una società dove le
opportunità sono tante e diffuse, e quasi la metà della popolazione
vive in condizioni di miseria assoluta.
Ed è evidente il motivo:
un concetto di giustizia basato sull'efficienza non può combinarsi
con un concetto di giustizia sociale basato sull'eguaglianza,
l'eguaglianza nel qui ed ora, e non nell'oltremondo di un “sogno
americano” delle opportunità da cogliere. Spinti al limite, questi
due concetti divergono. L'efficienza massima richiede il sacrificio
di un gran numero di vite e di desideri al funzionamento perfetto
dell'ingranaggio. Vediamo perché.
La formalizzazione
classica di una visione meramente efficientistica della società è
quella dell'ottimo paretiano, come sistema in cui la distribuzione
delle utilità individuali è tale da non poter essere più variata
senza indurre esternalità non compensabili. Tale modello è
formalmente legato allo schema neoclassico (la coincidenza fra le
ipotesi di razionalità, individualismo, concorrenza perfetta e
ottimizzazione paretiana è dimostrata da Arrow e Debreu). E quindi
richiede una situazione il più possibile vicina a quella della
concorrenza perfetta (da qui l'importanza di una patrimoniale che
distrugge rendite di posizione acquisite, o l'ossessione per la
liberalizzazione dei mercati).
Il problema è che questo
modello non ci dice niente circa il modo in cui la produzione, ed il
reddito, vengono distribuiti. In linea teorica, e dipendendo dal
punto di partenza dal quale si avviano dei miglioramenti di
benessere, è possibile avere un punto di ottimo paretiano in una
condizione in cui pochissimi individui possiedono gran parte della
ricchezza nazionale, ed il resto della collettività non ha niente.
Si ha quindi la conclusione, apparentemente paradossale, ma
perfettamente coerente con un modello di benessere sociale puramente
basato sui volumi totali di produzione e consumo di una società,
cioè su un modello che si preoccupa soltanto di massimizzare
l'efficienza, in cui il massimo del benessere si può conseguire
anche in corrispondenza con il massimo di iniquità distributiva!
In conclusione: vogliamo
una sinistra che torni ad essere protagonista? Vogliamo evitare di
ripetere gli errori di un liberismo fallimentare, spesso camuffato da
socialismo? Sarebbe quindi ora di fare chiarezza nel campo della
sinistra italiana. Chiarezza che implica la depurazione dai tanti
liberali che, nell'assenza di una destra liberale nel nostro Paese,
hanno storicamente inquinato la sinistra, nel tentativo di trovare
una collocazione. Quei tanti che, camuffandosi da comunisti o
socialisti, poi hanno dato vita ai vari migliorismi e trasformismi di
destra, cresciuti come tumori dentro i partiti storici della sinistra
italiana. Supportando quella degenerazione dei valori e dell'identità
di sinistra che poi ha prodotto, come risultato finale, il
camaleontismo politico del PD ed il renzismo.
Il socialismo liberale di
Rosselli, cui spesso questi falsi socialisti si camuffano, era
tutt'altra cosa rispetto al social-liberismo ed ai rigurgiti
miglioristi e tardo-blairiani. L'idea di Rosselli era quella di un
progresso continuo delle classi sociali più deboli, sia pur in un
quadro liberale. Egli parlava di benessere di tutta la società,
ottenuto con una condivisione democratica non solo degli strumenti
politici, ma anche di quelli produttivi, non disdegnando affatto la
loro socializzazione. Non avrebbe mai criticato una manifestazione
contro un Governo che imponesse misure di austerità a carico dei più
deboli. Al contrario, riteneva la manifestazione una evidenza di come
gli assetti democratici potessero favorire l'ascesa delle classi più
povere, ed una maggiore libertà collettiva. Difendeva una società
complessivamente più giusta, non una società più contendibile, non
una società più efficiente.
Nota
1
Date le premesse di mercato perfettamente concorrenziale, operatori
meramente individuali egoisti, onniscienti e razionali, ed in
presenza di rendimenti di scala costanti, per il teorema di Eulero,
una funzione di produzione (ad es. Cobb-Douglas) Y = LaKb,
dove Y è il prodotto nazionale, L l’input di lavoro, K quello di
capitale, e a+b= 1 (per i rendimenti di scala costanti) la funzione
è riscrivibile come:
Y = LaK(1-a)
ed ha le seguenti derivate
prime rispetto a L e a K:
DY/L = aK(1-a)L(a-1)
Poiché L(a-1) =
La/L, allora
DY/L = aK(1-a) La/L
= aY/L
Quindi, la derivata prima
rispetto al lavoro, che altro non è che la produttività marginale
del lavoro, uguaglia la quota di reddito assorbita dal lavoro,
moltiplicata per a, che rappresenta il coefficiente distributivo. In
altri termini, la quota di reddito che va ai lavoratori come salario
è collegata strettamente al livello della loro produttività.
La vignetta è del maestro Mauro Biani
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