L’ILLUSIONE SECURITARIA
di
Norberto Fragiacomo
Oggi più che mai, grazie al controllo
totale dei mass media e alla colonizzazione dell'immaginario, il regime
liberalcapitalista svela doti illusionistiche che lo elevano a totalitarismo
realizzato. In omaggio ai principi economici, preferisce suggestionare che
imporre – ma lo fa con tanta impareggiabile maestria da plasmare le menti dei
sudditi in modo più efficace e duraturo di qualsiasi dittatura dichiarata.
L'osceno baratto fra preziosi diritti
sociali e impalpabili “diritti civili” è soltanto un esempio, sebbene sia il
più eclatante: anche la c.d. questione sicurezza assume oggidì i
contorni della parodia. Invero, alla rarefazione della sicurezza che chiamerò
autentica corrisponde – sotto la spinta di situazioni ed eventi enfatizzati ad
arte – la crescente domanda popolare di sicurezze spurie.
Per autentica intendo la sicurezza (rectius:
protezione) sociale in senso ampio, lascito oramai dissipato dei governi di
centro-sinistra della seconda metà del secolo scorso. In cosa consistesse è
presto detto: nelle tutele giuslavoristiche (es. Statuto dei Lavoratori, non
ancora sviliti a “risorse umane”), in sistemi previdenziali e sanitari
(istituzione del S.S.N. nel '78) tendenzialmente universalistici, nel diritto
allo studio. Protetto dagli arbitri del padrone, assistito pressoché gratis in
caso di malattia o infortunio, il lavoratore acquisiva una cittadinanza non
fittizia, e suo figlio, se meritevole, poteva ambire a un salto di qualità
sudandosi il diploma o la laurea. Non scherziamo: non era la compiuta
eguaglianza, visto che le distinzioni di classe restavano marcate, talora
abissali – tuttavia l'ascensore sociale era in moto, e lo Stato garantiva un
presidio a sostegno delle classi subalterne.
Dall’affermarsi del monoteismo liberista,
coinciso con la caduta del muro di Berlino, queste garanzie sono andate
progressivamente erodendosi: di esse residua oggidì un’ombra, il guscio vuoto.
Precariato e libertà di licenziamento, ticket sulle prestazioni sanitarie, alternanza
scuola-lavoro ecc. ci rimandano agli anni ’50, e il senso di insicurezza
ingigantisce di conseguenza, perché la strada del futuro è sempre più impervia.
Visto però che in natura i vuoti sono destinati in qualche modo a riempirsi,
ecco farsi largo un succedaneo della sicurezza doc, misero ma falsamente
rassicurante. Lo Stato – che non cura, non istruisce e non tutela più – ostenta
di interessarsi a rischi più o meno concreti, attira l’attenzione su di essi e
promette al cittadino un intervento salvifico, da attuarsi esibendo i muscoli o
moltiplicando all’infinito commi e procedure. Di questo multiforme fenomeno
sono espressione la militarizzazione dei centri urbani, ma anche divieti ed
esortazioni salutiste, la smania di individuare “responsabili” per qualsiasi
bazzecola, l’imprigionamento (ovviamente “a fin di bene”) dell’organismo
sociale e dei singoli individui in una fittissima rete di prescrizioni
indecifrabili e spesso occulte, rese però temibili dalla minaccia di castighi
spropositati - che possono rovinare un’esistenza come non giungere mai.
Mi si potrà rimproverare l’assenza di un
minimo comune multiplo fra le summenzionate “inclinazioni” del potere
liberista: ribatto che questa assenza è solo apparente, e provo a chiarire il
perché. Se quella di cavalcare la paura (ieri del mafioso e del rapinatore in
villa, oggi del terrorista, del “femminicida” e dello stupratore quotidiano)
per favorire la repressione di qualsivoglia devianza – anche e
soprattutto politica – è una tentazione irresistibile per qualsiasi tirannide
da che mondo è mondo, l’isteria normativa sembra una reazione meno subdola e
maliziosa e, in definitiva, più giustificabile. Il diavolo, tuttavia, si
nasconde nei dettagli – e la normazione odierna è una congerie di dettagli. Gli
esordi di questa tendenza ipertrofica sono davvero innocenti, e forse da
ricondursi alle class actions nordamericane: il cittadino alla Erin
Brockovich che si ribella alla spietata multinazionale, per intenderci. Ci sono
cause giuste e altre strampalate, ma all'avvocato in cerca di fama (=soldi) va
bene tutto - e d’un tratto il mondo si svela per quello che è sempre stato: un
postaccio pieno di insidie. Si scopre l'ovvio: ogni attività umana
(persino attivare un frullatore, tagliarsi una fetta di pane e appendere un
quadro) è potenzialmente "pericolosa", se chi la svolge non rispetta
regole basilari di prudenza e buon senso - la novità risiede nel fatto che
adesso all'incauto e all'imbecille viene fatta balenare l'opportunità di
monetizzare le conseguenze della loro imperizia. I produttori corrono ai
ripari: corredano le loro merci di libretti di istruzioni minuziosissimi e a
prova di demente (che nessuno leggerà mai, ma che potranno essere esibiti alle
Corti), e naturalmente si assicurano. Per le assicurazioni private è una manna
del cielo, ma le azioni giudiziarie non sono sempre indolori: all’inebriante
incremento delle entrate fanno da contraltare, talvolta, esborsi milionari. Per
ridurre il rischio le compagnie impongono clausole via via più sofisticate, penalizzanti
e gravose per i beneficiari, cui vengono di fatto imposti comportamenti e stili
di vita precisi – sì, stili di vita, perché le crescenti litigiosità e
diffidenza reciproca forzano anche il professionista, il funzionario, persino
il cittadino comune a stipulare onerose polizze. Vuoi un’assicurazione medica?
Benissimo, ma devi garantirmi di non fumare, non bere alcoolici, non mangiare
carni rosse (meglio gli insetti, “ricchi di proteine” e abbondanti!) ecc. - e
se sgarri, non vedrai una lira, perché qui non si tratta di salute, ma di business.
Pur vantando una remota parentela con la medicina, l’odierno salutismo è
figlio naturale dell’economia, al pari di certe bizzarre mode (es. il
veganesimo) incoraggiate ai fini dello sviluppo di mercati di nicchia.
“Prevenire è meglio che curare”, ci assicurano, e l’ansia della prevenzione si
diffonde rapidamente in tutti gli strati sociali, assurgendo a forma mentis
dell’uomo contemporaneo. Inseguendo all’inizio, coscientemente sfruttando poi
questa nuova tendenza generale, il legislatore – che non è un’entità astratta,
bensì il garante di tangibili interessi economici – prende a disciplinare nel
dettaglio qualsiasi minuzia, creando una gabbia in similoro all’interno della
quale il cittadino finisce rinchiuso. Pensiamo alla sicurezza sul lavoro, che
di per sé è sacrosanta: il decreto 81/2008 prevede obblighi e divieti talmente
cervellotici, in alcuni casi, da ingenerare il timor panico in chi deve
rispettarli/farli rispettare, considerato che soprattutto al secondo viene
imposta una diligenza sovrumana. Il
lievitare di costi (alludo a quelli superflui) prostra il piccolo-medio
produttore, lasciando indenne il farabutto – per la banale ragione che non li
sostiene – e sfiorando appena i bilanci della multinazionale, i cui vertici
anche in ipotesi di violazioni gravissime la fanno quasi sempre franca,
malgrado l’impegno di qualche eroico magistrato.
Di buone
regole a tutela dell’integrità (non solo fisica, anche morale!) del lavoratore c’è e ci sarà sempre indiscusso bisogno;
non altrettanto si può dire a proposito di istituti di nuovo conio quali, ad
esempio, l’accesso civico totale (c.d. FOIA, non a caso di derivazione
anglosassone). Un’applauditissima normativa attribuisce ai cittadini una sorta
di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche amministrazioni,
prevedendo che, a semplice richiesta o capriccio, queste ultime debbano
comunicare all’interessato qualunque documento, informazione o dato in loro
possesso. Parrebbe una lodevole innovazione, ma c’è da considerare un altro
aspetto, volutamente tenuto in ombra: un accesso dettato da mera curiosità impegna
i dipendenti (che sono sempre meno, com’è noto) per un lasso di tempo che
potrebbe venir dedicato ad attività più urgenti e significative. Visto però che
se non si risponde alla più bislacca delle domande si incappa in sanzioni, il
lavoratore si rassegnerà a perdere ore preziose per ricercare e trasmettere files che, il più delle volte, hanno
contenuti di scarso rilievo, sacrificando il concreto interesse pubblico al
ghiribizzo del privato. Tra l’altro, la pretesa di beneficiare i cittadini non
tiene conto del particolare che pure i dipendenti pubblici sono anzitutto
cittadini, e che il loro numero è ben superiore a quello di coloro (giornalisti
e seccatori in primis) che
avvertivano l’esigenza di questo “rivoluzionario” strumento. Ho citato il caso
di un istituto paradigmatico, che però è solamente un albero in una fitta
foresta: l’amministrativista assiste, da un paio di decenni, al fiorire
selvaggio di adempimenti, regolamentazioni, controlli, termini perentori,
responsabilità e pene di vario genere, l’introduzione dei quali rallenta
anziché velocizzare la macchina burocratica. Possibile che lorsignori non
l’abbiano ancora capito? Secondo me hanno capito eccome…
Anche lontano dall’ufficio, tuttavia, la
nostra esistenza quotidiana è irreggimentata da prescrizioni e minacce ai sensi
di legge. Tutto dev’essere “a norma”: il gestore del b&b non può offrire il
dolce fatto in casa all’ospite ed è obbligato a ricorrere alle merendine
preconfezionate (beh, qualcuno ci guadagna…), per costruire un’altalena occorre
l’autorizzazione, e così via. Si può essere denunciati per tutto, proprio per
tutto: così il gestore del parco giochi per bimbi ammonisce che sulla giostra –
quella a norma - si sale “a proprio rischio”, la maestra non sanziona con una
nota sul registro l’alunno indisciplinato per paura della reazione dei genitori
ecc.
Ironia (apparente) della sorte, tutte
queste norme dettate (apparentemente) per renderci la vita tranquilla suscitano
sconforto e apprensione, patologie
sociali che ci si prefigge di sanare con nuovi regolamenti e divieti ancor più
severi, sia di ordine giuridico che “morale”. Una signora ceca, giorni fa, mi
confessò che nel suo Paese la gente stava meglio sotto il vituperato comunismo:
non era comunista né nostalgica, specificò – semplicemente “allora eravamo molto meno stressati, più
sereni”. Non era, la sua, una voce fuori dal coro… e in questo apparente
paradosso c’è una logica: il regime capitalista in veste democratica satura di
regole e imperativi i propri cittadini sapendo per esperienza che un individuo
stressato è molto più incerto e manipolabile di chi non lo è, che la sua
capacità di intendere e di volere è offuscata – dà di matto, magari, ma non
vede le cose con chiarezza.
Accanto alle ragioni economiche, vi è
dunque un’ulteriore esigenza che “giustifica” questa impostazione: quella del controllo sulle menti. I soldati non stanno soltanto in strada: sono anche
nella nostra testa, e la pattugliano a caccia di pensieri sovversivi.
L’ossessione per la sicurezza genera dunque
il suo contrario, la menzognera promessa fattaci (evita tutti i comportamenti
nocivi ecc., vivrai meglio) si basa su una falsa premessa: che la
neutralizzazione dei rischi – della totalità dei rischi - sia un obiettivo alla
portata. Non è così, perché il gesto del singolo fanatico non è prevenibile da
alcuno spiegamento di forze; la caduta o il soffocamento di un bimbo, la
tragica dimenticanza di una madre, l’insorgere di una malattia, una caduta, uno
scontro frontale sono talvolta scritti nel destino. La sicurezza di cui ci
parlano è semplicemente impossibile,
perché siamo deboli e mortali, suggestionabili e distratti: migliorare la
nostra esistenza materiale e spirituale non è utopistico (“loro” però stanno
facendo il contrario), ma un minimo di fatalismo è indispensabile.
Altre “sicurezze” potrebbero al contrario
essere pienamente garantite: quelle di ricevere un’adeguata istruzione, di
essere curati gratuitamente e al meglio, di avere paghe, pensioni decorose, e
tempo libero per informarsi e realizzare i piccoli desideri di ognuno. Ma tutte
quelle or ora citate, mi spiace, sono monete fuori corso: al loro posto è stata
introdotta l’illusione della sicurezza, una cambiale in bianco strappataci
dall’élite per i suoi scopi.
Nessun commento:
Posta un commento