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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 23 gennaio 2012

La "gravidanza" socialista



Nell'occasione storica della ricorrenza del 91° anniversario della rovinosa scissione del 1921 tra comunisti e socialisti, il 21 gennaio del 2012, tutti i socialisti di tutte le aree della sinistra italiana (assenti solo quelli “nominali” da nomeklatura di partito notabiliare), si sono ritrovati insieme nella sede della storica Fondazione Nenni, grazie all'impegno crescente dell'associazionismo socialista. Il quale, finalmente, dopo vari anni, è riuscito ad esprimersi coralmente e a “cantare all'unisono”
Il “coro” è apparso alquanto intonato ed eterogenero, ma senza “direttori d'orchestra” e questo sicuramente è il segno importante di un “punto di non ritorno”. Quello cioè di un'area che non vuole più restare sparsa tra vari partiti con intenti difformi, anche se accomunati dalla intenzione “formale” di costituire un'alternativa di governo.
Sarebbe opportuno citare tutti gli interventi, da quelli dei principali coordinatori delle varie associazioni partecipanti, a quelli degli aderenti, ai quali si sono aggiunti anche quelli di altri autorevoli compagni che hanno arricchito il dibattito, più a titolo personale che come membri di partito o di associazioni di tutta la sinistra, da SEL al Psi, compresa la componente laburista del PD.
Vorrei citali tutti con i nomi e anche i loro passaggi significativi, ma, facendo i nomi, ne dovrei sicuramente tralasciare qualcuno, e siccome siamo tutti intervenuti in un ambito significativo, paritetico e corale, sarà opportuno solo menzionare il “coro”, e poi sicuramente ci sarà in seguito chi potrà e saprà farlo meglio di me.
Quello che mi sta particolarmente a cuore, come socialista tornato “in ballo” in seguito a tanti anni di diaspora e persino di lontananza dalla politica, è sottolineare il fatto che, dopo circa tre anni di impegno piuttosto fitto ed assiduo per sottolineare e concretizzare i valori dal Socialismo italiano a tutto campo, dalle riunioni, ai socialnetowork, all'associazionismo, ai siti web, nelle scuole e nelle commemorazioni delle amministrazioni locali, non senza difficoltà e vari contrasti persino tra di noi, finalmente, dopo tanto “agitarsi”, qualcosa di concreto si è visto, in uno dei luoghi e in uno dei momenti cruciali, non solo della nostra storia, ma soprattutto della nostra identità politica, morale e culturale.
Tutti gli interventi hanno messo in risalto la necessità e l'urgenza di un progetto di stampo socialista ed europeo che possa validamente dare delle risposte e fare uscire dalla crisi il nostro Paese con un profilo più moderno, più efficiente e soprattutto più equo e solidale.
E questo vuol dire, in termini molto semplici ma particolarmente efficaci, con un salto di qualità dell'impegno politico per affermare più libertà, e dunque più democrazia, e maggiore giustizia sociale.
Questi saranno i capisaldi dell'impegno di quella che possiamo chiamare la nuova Costituente Socialista Democratica Italiana.
Siamo ad un punto di non ritorno, le politiche neoliberiste ed un'Europa prona al monetarismo esigono infatti come imperativo categorico una nuova progettualità ed una nuova concretezza socialista a livello continentale.
L'Europa dei banchieri rischia di frantumarsi in un asfittico regionalismo, retaggio di proteste a sfondo populista, è necessario invece recuperare ampi margini di sovranità nazionale e patriottica, associando ad essi politiche socialmente avanzate e competitive, sia sul piano produttivo che su quello dei modelli sociali.
La convinzione comune dei partecipanti di ieri è che si debba rafforzare in ogni componente politica l'impegno socialista affinché trovi modo di mantenersi trasversalmente e sinergicamente unito negli intenti e negli obiettivi di fondo da conseguire.
Sarà per questo opportuno ritrovarsi periodicamente a discutere e concretizzare i nostri orientamenti comuni in altre occasioni future analoghe, e con le stesse modalità di partecipazione.
C'è stato anche chi ha sottolineato la necessità di costituire da subito un nuovo soggetto politico, ma , obiettivamente, possiamo riconoscere che questo processo in corso ha già portato, di fatto, alla realizzazione di un' area comune trasversale. L'incontro del 21 gennaio 2012 non può dunque non assumere una importanza storica in tal senso.
Sono necessari dei tempi di maturazione, un embrione infatti non può uscire subito alla luce del sole, ha bisogno di una certa gestazione, ma, ed è questo il punto cruciale, non di una “gravidanza” che sia troppo breve o troppo lunga. Perché in entrambe i casi sarebbe destinato ad essere abortito.
Noi abbiamo di fronte un cammino che ci porterà alle elezioni politiche non più tardi della primavera estate del 2013, con un governo che sappiamo non essere minimamente sostenibile con istanze socialiste.
Nel periodo quindi che ci resta, prima di tale cruciale appuntamento, dobbiamo saper maturare una proposta politica alternativa e credibile sul piano socialista, democratico ed europeo e farla valere in ogni componente delle realtà dei partiti politici esistenti nella sinistra. Specialmente se, come appare sempre più probabile, ampi settori del Partito Democratico riterranno di dover proseguire il loro iter nel sostegno a politiche centriste e neoconservatrici come quelle messe in atto oggi dal governo Monti, anche dopo le elezioni e con una stretta collaborazione con il “terzo polo”.
Chi dice che abbiamo un grande futuro sulle spalle non dice tutta la verità, perché il futuro migliore è quello che si riesce a guardare in faccia e che si avvicina progressivamente ed inesorabilmente verso di noi.
Noi dunque non portiamo il futuro del socialismo sulle “spalle” come un onere gravoso, ma andiamo ad incontrarlo, costruendo gradualmente un vero e proprio “riformismo rivoluzionario”, fatto di cultura, di testimonianza e di impegno sul campo, non di accordi di vertice o di una spasmodica ricerca della conquista di una leadership.
Ieri non c'era alcun “direttore del coro” attorno al quale aggregarsi e in nome del quale affermarsi, e questa è stata forse la dimostrazione più lampante del nostro “socialismo in atto” del nostro essere socialisti “in progress”, in itinere, della volontà di camminare insieme mano nella mano.
Dobbiamo dare una risposta adeguata ed urgente ad ampi settori maggioritari della società che ormai sono già preda della disperazione, in certi casi persino dell'autodistruzione, e del ribellismo populista.
Possiamo farcela, facendo nascere ciò che il 21 gennaio del 2012 è stato seriamente ma anche gioiosamente concepito.
Una gravidanza umana dura circa nove mesi, considerando quindi le nostre future scadenze politiche ed elettorali, direi di assumere questo lasso di tempo concretamente come quello che è necessario anche per la nostra “gestazione”, di più sarà troppo tardi, di meno credo che sia troppo presto.
Non vedremo un fiocchettino azzurro alla fine e nemmeno uno rosa, ma uno bello rosso c'è da augurarselo davvero.
Auguri quindi a tutti, compagni, di buona gravidanza, quella che, volenti o nolenti che siate, sta crescendo dentro ognuno di noi.
Venceremos!
C.F.


domenica 22 gennaio 2012

I principi del Partito Comunista d'Italia




91 anni fa a Livorno, nasceva il nostro partito, ricordiamo i suoi principi, dai quali gli ultimi dirigenti di "sinistra" sono ormai distanti anche più di 91 anni...

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Il Partito Comunista d’Italia (Sezione della Internazionale Comunista) è costituito sulla base dei seguenti principi:

1) Nell’attuale regime sociale capitalista si sviluppa un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine alla antitesi di interessi ed alla lotta di classe fra il proletariato e la borghesia dominante.

2) Gli attuali rapporti di produzione sono protetti e difesi dal potere dello Stato borghese che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo della difesa degli interessi della classe capitalistica.

3) Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese.

4) L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe. Il Partito Comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato. Il Partito ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali di azione e di dirigere, nello svolgimento della lotta, il proletariato.

5) La guerra mondiale, causata dalle intime, insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.

6) Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato di stato borghese e con l’instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze dello Stato sulla base produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.

7) La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio della Rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.

8) La necessaria difesa dello Stato proletario contro tutti i tentativi controrivoluzionari può essere assicurata solo col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica e con la organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.

9) Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare tutte quelle successive misure di intervento nei rapporti della economia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.

10) Per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutta l’attività della vita sociale eliminata la divisione della società in classi, andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane.

Livorno 21 gennaio 1921

venerdì 20 gennaio 2012

Le liberalizzazioni illiberali, di Riccardo Achilli





di Riccardo Achilli




Introduzione

Il modello di mercato storicamente esistente comporta conseguenze sociali molto rilevanti sulla collettività. Ogni fase del capitalismo ha il suo modello dominante, ed in questa fase il ruolo crescente della concentrazione oligopolistica conduce a spacciare per liberalizzazioni, ovvero per provvedimenti mirati ad aumentare il grado di competizione sui mercati, interventi che in realtà sono puramente mirati ad estendere ulteriormente il ruolo dell'oligopolio, ed al contempo per fornire una utile cornice ideologica e mediatica per smantellare i vecchi monopoli pubblici, che garantivano l'accessibilità a servizi e beni essenziali anche ai cittadini più poveri ed emarginati. In tale articolo, illustrerò come con il pacchetto-liberalizzazioni recentemente approvato, Monti stia in realtà allontanandosi significativamente da un modello concorrenziale, al contempo smantellando i residui monopoli pubblici. Il tutto accompagnato dai gravi danni alla collettività derivanti dall'espansione dell'oligopolio, in luogo dei tanto sbandierati benefici da liberalizzazioni, che nel migliore dei casi saranno modesti e solo di breve periodo.
La fondamentale intuizione di Rudolf Hilferding è che “la borghesia fu - un tempo - in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. (In un secondo momento dello sviluppo del capitalismo, nda) le esigenze del capitale finanziario favorirono la nascita e la diffusione di...una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest'ultima è però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della concorrenza e promuove l'organizzazione”.
In sostanza, Hilferding intuì come la finanziarizzazione del capitalismo avrebbe condotto non ad una esaltazione dei principi liberali classici, quanto piuttosto ad uno sviluppo degli oligopoli, riducendo per questa via il benessere complessivo della società. Di fatto, l'emergere del potere finanziario mette a disposizione quantità crescenti di capitale monetario iniziale per gli investimenti, accelerando l'accumulazione. Tutto ciò, lungi dal favorire la realizzazione dell'ideale liberale di concorrenza perfetta, finisce, in presenza di una curva di domanda spezzata (grande scoperta empirica fatta da Sweezy, Hall e Hitch) per favorire la rigidità dei prezzi (perché con curve di domanda spezzate l'impresa non può aumentare i prezzi, senza perdere la sua clientela, né ridurlo, perché l'aumento di domanda tenderebbe progressivamente ad azzerarsi). La rigidità del prezzo a sua volta finisce per impedire quegli aggiustamenti tipici del modello di concorrenza perfetta.
Quindi, la crescita del capitale finanziario e della concentrazione in sede di accumulazione, e la presenza di curve di domanda angolari, conducono non al paradiso del liberale, ma all'inferno dell'oligopolio, dei poteri forti, delle intese collusive, dei cartelli, e di sistemi politici sempre più legati agli interessi dei poteri imprenditoriali oligopolistici. Per una analisi dei processi di concentrazione oligopolistica in Italia, cfr. un altro mio scritto Processi di crescita dimensionale e concentrazione oligopolistica nell'economia italiana.


I modelli di mercato capitalistico esistenti


Prima di addentrarsi nell’esame del pacchetto-liberalizzazioni di Monti, è però necessaria una breve esposizione teorica dei principali modelli di mercato che il capitalismo propone: la concorrenza perfetta, l’oligopolio, con la sua variante denominata “concorrenza monopolistica”, ed il monopolio, specie quello pubblico. Senza un minimo di esposizione teorica delle forme di mercato, è infatti impossibile capire quali siano gli obiettivi reali del pacchetto-Monti, e si rischia di rimanere intrappolati nella gabbia mediatica che ci fa apparire le liberalizzazioni come una manna per l’economia e per il benessere del singolo cittadino.
Iniziamo a paragonare il modello di concorrenza perfetta con quello di oligopolio. Nel graf.1, il punto di equilibrio su un mercato perfettamente concorrenziale è rappresentato da N. In tale punto, infatti, la concorrenza perfetta fra imprese spinge il prezzo ad un livello di equilibrio, che eguaglia esattamente il ricavo marginale (che in concorrenza perfetta coincide con la retta orizzontale Rcp) con il costo marginale (curva Cmg (A)). Qualsiasi prezzo superiore a tale livello di equilibrio indurrebbe un profitto, e quindi un incentivo all'aumento dell'offerta, fino a che il prezzo scenderebbe fino al suo livello di equilibrio. Similmente, un prezzo inferiore all'equilibrio comporterebbe una perdita (cioè ricavi marginali inferiori ai costi marginali) e quindi una riduzione dei livelli di produzione ed offerta, fino a far risalire il prezzo al livello di equilibrio. In concorrenza perfetta, quindi, si produrrà la quantità di equilibrio Q del bene, venduta al prezzo di equilibrio P. La remunerazione dei fattori avviene in base al loro rendimento marginale, per cui il capitale è remunerato sulla base del suo effettivo apporto alla produzione (trascuriamo, perché allargherebbe troppo il discorso, l’ovvia obiezione marxista, per cui anche il capitale è in realtà frutto di lavoro indiretto). L'assenza di extra-profitti (ovvero aggiuntivi rispetto al rendimento marginale del capitale) è l’aspetto socialmente più positivo del modello perfettamente concorrenziale, cui si contrappongono i classici costi sociali derivanti da fallimenti del mercato (sia sulla quantità che sul prezzo).
In condizioni di oligopolio, però, la curva dei ricavi medi, e della domanda, diviene la curva Rm. Infatti, in oligopolio le imprese hanno la possibilità di influenzare il prezzo di mercato (mentre in concorrenza perfetta il prezzo di mercato è un dato esogeno alle imprese). Ciò significa che la curva di domanda, che in concorrenza perfetta è una retta orizzontale, in oligopolio diviene decrescente, e quindi il ricavo marginale, che è la sua derivata prima, non è più una costante, ma una retta decrescente. Ne consegue che l'equilibrio su un mercato oligopolistico non viene più realizzato in coincidenza con il punto N, ma con un punto che dipenderà dalle interazioni competitive (che nel modello di Cournot, qui assunto come base, avvengono sulle quantità prodotte) fra le imprese partecipanti all'oligopolio. Supponendo per semplicità un duopolio (cioè due sole imprese, l'impresa A e la B) se l'impresa A presume che il concorrente B produrrà la quantità O-B, allora fisserà la sua produzione al livello B-E, in modo da eguagliare, al punto E, il suo costo marginale (Cmg(A)) alla sua curva di ricavo marginale (Rmg(A)). Ne consegue che l'intero mercato oligopolistico produrrà una quantità totale pari ad E, che corrisponde, in base alla curva di domanda Rm, ad un prezzo di equilibrio pari a Po.
Ne consegue che l'impresa oligopolistica A benefici di un extra-profitto, segnalato dall'area tratteggiata, che è dato dal prodotto fra la quantità che essa produce (B-E) ed il prezzo Po, superiore al prezzo P di concorrenza perfetta che garantirebbe l'assenza di extra-profitto. Similmente, il concorrente B godrà di un extra-profitto dato dal prodotto fra la sua quantità prodotta O-B ed il prezzo Po, più alto del prezzo che azzera l'extra-profitto. Mentre in concorrenza perfetta le imprese non realizzano profitti aggiuntivi, e quindi il capitale ed il lavoro che utilizzano vengono remunerati esattamente in base al loro rendimento marginale nel processo produttivo, in oligopolio le imprese realizzano profitti aggiuntivi. Tale extra-profitto viene pagato dalla collettività, in termini di un livello di produzione, e quindi di disponibilità sociale del bene, più basso rispetto a quello che si sarebbe realizzato in condizioni di concorrenza perfetta (infatti il livello di produzione E è, se misurato sull'asse delle ascisse, inferiore a quello che si realizza in condizioni di concorrenza perfetta, pari a Q) ed in termini di un prezzo più alto rispetto a quello di concorrenza perfetta (infatti, Po è più alto di P).

Graf. 1 – equilibrio di mercato in concorrenza perfetta ed in oligopolio




Una variante dell’oligopolio è il modello di concorrenza monopolistica, che è basato sulla differenziazione del prodotto, in modo da creare tante nicchie di mini-monopolio, o di mini-oligopolio, a favore di ciascuno degli operatori che differenziano la loro offerta, in una sovrastruttura di mercato che però a prima vista appare concorrenziale, perché vi sono molti operatori. La differenza fondamentale con l’oligopolio è che le barriere di accesso al mercato sono particolarmente basse (le imprese, in concorrenza monopolistica, non possono fare cartelli o colludere fra loro per impedire l’accesso di nuovi competitors). L’equilibrio di breve periodo dell’impresa in concorrenza monopolistica è identico a quello dell’impresa in oligopolio, per cui si rimanda al graf. 1.
Nel lungo periodo, però, in tale tipo di mercato l’esistenza di una rendita oligopolistica comporterà l’ingresso di nuovi concorrenti (a differenza dell’oligopolio, non vi sono significative barriere all’ingresso) portando quindi l’extra-profitto verso lo zero, come in un modello di concorrenza perfetta, ma, a differenza di quest’ultima, l’impresa in concorrenza monopolistica genererà esattamente gli stessi costi sociali a carico della collettività esaminati nel caso dell’oligopolio: anche nell’equilibrio di lungo periodo, quando cioè l’extra-profitto sarà scomparso, in tale mercato si produrrà una quantità di beni/servizi inferiore, ad un prezzo più alto, rispetto al modello di concorrenza perfetta. Questo perché anche nel lungo periodo, esisterà un certo potere di mercato (quindi, a differenza della concorrenza perfetta, il prezzo non è completamente esogeno per le imprese, che almeno in parte lo possono influenzare) e quindi la retta del ricavo medio non sarà orizzontale in coincidenza del prezzo esogenamente dato (come in concorrenza perfetta) ma, come nel caso dell’oligopolio, sarà inclinata verso il basso. Il graf. 2 evidenzia esattamente la minore quantità ed il maggiore prezzo di equilibrio di lungo periodo su un mercato in concorrenza monopolistica, rispetto alla situazione di concorrenza perfetta.

Graf. 2 – differenze nelle quantità e nei prezzi di equilibrio di lungo periodo fra concorrenza perfetta e concorrenza monopolistica





Nel caso del monopolio a gestione pubblica, è possibile, per finalità di politica economica e sociale, ad esempio, una volta determinato il punto di equilibrio al punto A (corrispondente alla quantità di equilibrio Q* ed al prezzo P*) che corrisponde al punto di massimizzazione del profitto di un monopolista privato, vendere la quantità di equilibrio Q* ad un prezzo P’' inferiore al prezzo di equilibrio, subendo una perdita di profitto pari all'area tratteggiata (graf. 3), e cioè pari a (Q* x P*) - (Q* x P''). Ciò ad esempio può essere fatto per realizzare una politica di prezzi sussidiati a favore dei consumatori più poveri, che ovviamente un monopolista privato non avrebbe l'incentivo a fare.

Graf. 3 – Monopolio pubblico che pratica una politica di sussidi sui prezzi


Analogamente, al prezzo P* di equilibrio, un monopolista pubblico potrebbe decidere di erogare una quantità superiore alla quantità di equilibrio Q*, ovvero una quantità Q’’ che si trova collocata a destra della curva di domanda, perché rappresenta una domanda economicamente non efficiente (nel senso che il suo soddisfacimento comporta costi marginali più alti dei ricavi marginali). Servendo tale domanda, il monopolista pubblico si carica l’onere di costi marginali superiori ai ricavi marginali, in una forbice negativa crescente, rappresentata dall’area tratteggiata nel graf. 3. tale scelta corrisponde, ad esempio, alla scelta di erogare un servizio essenziale anche a bacini di utenza marginali, caricandosi l’onere (che un privato ovviamente, sulla base di considerazioni aziendalistiche, non si caricherebbe mai) di una crescente inefficienza economica (ad es., per una azienda ferroviaria pubblica, ciò corrisponderebbe a tenere in esercizio linee ferroviarie in perdita, i c.d. rami morti, in modo da garantire l’accesso al servizio ferroviario a tutta la popolazione).

Graf. 4 – Monopolio pubblico che pratica una politica di aumento della produzione per gli utenti marginali



Naturalmente anche il monopolio pubblico è un modello che ha i suoi difetti, il principale dei quali è che, tramite il controllo statale della produzione, la sfera di potere e di influenza dello Stato si amplia, realizzando un blocco di potere politico/economico perfettamente funzionale alle esigenze della classe dominante. Infatti, il modello del monopolio pubblico è perfettamente funzionale al capitalismo, e ne connota una particolare fase evolutiva, che nei nostri Paesi ha dominato il secondo dopoguerra, e che in Italia ha iniziato il suo smantellamento a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con le prime privatizzazioni effettuate dall’allora Presidente dell’IRI, Romano Prodi.
Tale modello, in una fase particolare dello sviluppo capitalistico, è infatti perfettamente funzionale alle esigenze della borghesia, soprattutto perché garantisce una accelerazione nell’accumulazione, soprattutto in settori ad elevata composizione organica del capitale. Inoltre, come già detto, realizza una perfetta fusione fra potere economico e politico, che garantisce il massimo controllo capitalistico dell’intero sistema socio economico. Infine, in termini strettamente economici, il monopolio pubblico produce una tendenza quasi inarrestabile all’inefficienza gestionale ed economica, poiché, anche volendo escludere fenomeni degenerativi come l’appropriazione politica, e non meritocratica, dei vertici dirigenziali delle imprese pubbliche, è comunque teoricamente impossibile stabilire una frontiera entro la quale le perdite di esercizio del monopolista pubblico sono giustificabili in base ad obiettivi di politica sociale (prezzi sussidiati, mantenimento dei rami morti, ma anche, ad esempio, finalità di assorbimento occupazionale in aree territoriali particolarmente svantaggiate) ed oltre la quale sono frutto di pura inefficienza gestionale. Questo perché discriminare fra un’inefficienza giustificabile per fini sociali ed una ingiustificabile è operativamente quasi impossibile. Ecco perché in una determinata fase dello sviluppo capitalistico, quando la pressione competitiva globale aumenta, riducendo il tasso di crescita potenziale dell’economia al di sotto della soglia che garantisce la sopravvivenza del monopolio pubblico, la borghesia avverte la necessità di smantellarlo, non certo per fare spazio alla concorrenza libera, ma per ampliare l’area di influenza dell’oligopolio privato.
Riassumendo: l'avvento dell'oligopolio, e della sua variante (concorrenza monopolistica) tipico dell'attuale fase di evoluzione del capitalismo, produce extra-profitti per i poteri imprenditoriali forti, ai danni della collettività, penalizzata da quantità prodotte inferiori al valore potenziali, e da prezzi più alti. Tale costo sociale non esiste nel modello di concorrenza perfetta, che però non si è mai compiutamente diffuso (rimanendo confinato a pochi casi di studio) e che comunque produce esternalità negative, in termini di fallimenti del mercato. Il modello del monopolio pubblico consente di eliminare sia i fallimenti di mercato connessi al modello concorrenziale puro, sia le perdite di benessere sociale connesse all’oligopolio, ed è quindi il modello socialmente migliore fra quelli che il capitalismo offre, ma presenta una serie di inconvenienti economico-gestionali e costituisce, in una determinata fase, un potente strumento di controllo capitalistico sull’intero sistema socio-economico.


Il decreto-Monti

Tornando all’attualità, dopo il precedente excursus teorico, occorre premettere che è impensabile che un uomo come Monti possa fare una politica che avvicina il modello economico a quello della concorrenza perfetta. E' molto più ovvio che la sua politica tenda a favorire gli oligopoli, sia per la sua estrazione professionale (è un ex uomo della Goldman Sachs) sia, soprattutto, per quanto afferma Hilferding ad apertura del presente articolo, ovvero che la fase finanziaria ed oligopolistica del capitalismo richiede controllo e potere.
Intanto, lo schema di decreto sulle liberalizzazioni contiene disposizioni che niente hanno a che vedere con le liberalizzazioni stesse, ma che tradiscono chiaramente gli intenti degli estensori. Infatti, queste disposizioni sono in realtà mirate a favorire la crescita dimensionale, ovvero una ulteriore concentrazione. In questa chiave va letta la deroga all'art. 18 per le piccole imprese che si fondono fra loro per creare una unità più grande, oppure la definizione del criterio del price cap per le concessioni autostradali. Tale criterio, come è noto, incentiva l'adozione di misure per aumentare la produttività del concessionario, ed ovviamente privilegia i grandi operatori, che possono, tramite economie di scala ed investimenti adeguati, resi possibili da un grado di capitalizzazione più alto, ottenere incrementi significativi del fattore di produttività, in modo più incisivo di quanto possano fare i piccoli. Ciò si traduce in guadagni di redditività estratta dalle concessioni autostradali tendenzialmente crescenti al crescere della dimensione organizzativa e patrimoniale dei concessionari.
Dopodiché, nel dettaglio degli interventi, si prevede la liberalizzazione della possibilità, per gli esercizi commerciali, di praticare sconti, promozioni o vendite promozionali. Si tratta di un provvedimento mirato evidentemente a scatenare guerre commerciali sul prezzo, tali da indurre molti piccoli negozi ad abbandonare il mercato (perché ovviamente in una guerra di prezzi, gli esercizi della grande distribuzione organizzata, in virtù di una maggiore capitalizzazione, di una migliore possibilità di accedere al credito bancario, di una maggiore forza contrattuale con i fornitori, possono resistere un giorno in più rispetto ai piccoli negozi). Il risultato probabile sarà quello di incrementare il peso della GDO. Se nel breve periodo i consumatori avranno dei benefici dalla lotta sul prezzo, nel medio periodo si accentuerà il processo già in atto di concentrazione del commercio su un limitato numero di grandi superfici, rafforzando quindi i meccanismi oligopolistici. Quando la guerra dei prezzi sarà finita, i pochi oligopolisti della GDO che si saranno conquistati gli spazi di mercato abbandonati dalla piccola distribuzione (con la rovina economica di migliaia di famiglie piccolo borghesi) potranno, esattamente come succede negli Usa, che sono molto più avanti di noi nel processo di riorganizzazione oligopolistica della rete distributiva, spartirsi i bacini commerciali, ingaggiando quindi una competizione oligopolistica basata sulla quantità, simile al modello di Cournot che, come è noto, conduce ad un equilibrio-Nash nel quale si verificano gli stessi costi sociali del modello oligopolistico generale studiato sopra: i costi di acquisto dai fornitori primari saranno più bassi per la GDO, mentre solo in parte i prezzi di vendita finali beneficeranno del risparmio conseguito a monte nei confronti dei fornitori. Ne conseguirà che la catena complessiva del valore, nelle filiere, si sposterà a favore delle grandi superfici di vendita, ai danni dei fornitori (quindi anche di migliaia di piccoli agricoltori) e dei consumatori finali. La progressiva scomparsa del piccolo negozio di vicinato comporterà un aumento della congestione nei grandi centri commerciali, con tutti i costi ambientali (traffico, inquinamento, poiché non sarà più possibile, per molti, fare la spesa senza prendere l'auto per recarsi ad un centro commerciale non di rado lontano dalla propria abitazione) e sociali che ne conseguono.
Un ragionamento non molto dissimile riguarda il tema della cancellazione delle tariffe minime e massime per i servizi professionali. In questo caso, la competizione di prezzo che ne deriverà favorirà i grandi studi professionali, che per le loro dimensioni possono fruire di economie di scala ed offrire sconti alla clientela. Se questa ne beneficerà in un primo momento, nel medio periodo si verificherà una riduzione della concorrenza, perché i grandi studi professionali fagociteranno i piccoli, e con ciò stesso i prezzi e le tariffe saranno nuovamente rialzati, erodendo il guadagno iniziale ottenuto dai consumatori (d'altra parte, anche il limite superiore alle tariffe, oggi vigente a beneficio dei clienti, sarà scomparso). Alternativamente, potrà anche verificarsi che gli studi professionali in oligopolio tengano relativamente basso il prezzo dei loro servizi, applicando il criterio del prezzo di esclusione studiato nei modelli oligopolistici di Sylos Labini (ovvero un prezzo sufficientemente basso da scoraggiare l'ingresso di nuovi competitors sul mercato). Ma in questo caso, se è vero che il consumatore di servizi professionali continuerebbe a godere di tariffe più basse di quelle attuali, verrebbe sconfessato un altro degli obiettivi sociali dichiarati nel decreto-Monti, ovvero l'incremento dell'occupazione nel settore dei servizi professionali. Infatti, il meccanismo del prezzo di esclusione impedirebbe a nuovi professionisti di entrare nel mercato, se non come dipendenti dei grandi studi già affermati, con livelli salariali modesti (il meccanismo del prezzo di esclusione regge se i costi sono bassi). Si ripeterebbe cioè il meccanismo estremamente competitivo tipico dei servizi professionali negli Usa, dove i dipendenti sono sottopagati e costretti a lavorare molto duramente, nella speranza (per moltissimi del tutto vana) di divenire, un giorno, soci dello studio. In ogni caso, quindi, che il prezzo salga o rimanga basso, il consolidamento di un sistema oligopolistico nel settore dei servizi professionali non sembra produrre rilevanti benefici sociali alla collettività nel suo insieme (sia questa quella dei consumatori di tali servizi, oppure dei giovani che ambiscono ad una carriera come professionisti).
Rispetto alla liberalizzazione delle farmacie e dei distributori di carburante, il problema è che l'oligopolio, in tali settori, è a monte, fra i fornitori, per cui l'aumento del numero di farmacie o la possibilità di rifornirsi da fornitori di carburante diversi da quello dell'insegna non comporterà alcuna significativa riduzione del prezzo (se non per alcuni prodotti parafarmaceutici, ma in questo caso ci sono già le parafarmacie). In questo caso, la valenza del provvedimento è solo in un limitato aumento dell'occupazione di nuovi farmacisti. Nel settore dei distributori di benzina, la possibilità concessa di aprire rivendite alimentari, di giornali, tabacchi ecc. crea di fatto barriere all'entrata simili al modello di Bain. Come è noto, in tale modello la barriera all'ingresso di nuovi competitors sul mercato non è basata su un prezzo di esclusione, come in Sylos Labini, ma sulla possibilità di effettuare investimenti per diversificare l'offerta aziendale, arricchire la gamma, innovare. Ovviamente solo i più grandi e capitalizzati possono effettuare tali investimenti, possono ottenere dalle banche il credito necessario, ecc. Di fatto, quindi, la possibilità di diversificare l'offerta, dalla vendita di soli carburanti a quella di altri generi merceologici, pressoché infinita, come appare dalla bozza di decreto, finirà per favorire gli imprenditori più capitalizzati, espellendo dal mercato quelli che non possono effettuare investimenti simili, o che sono posizionati in aree dove la diversificazione merceologica non è conveniente, o che hanno una superficie di vendita troppo piccola, e non facilmente ampliabile (si pensi ad es. ai distributori di carburante localizzati nei centri storici delle città). Come già si verifica in molti Paesi europei che hanno adottato questo modello, l'offerta di combustibili si concentrerà su un numero ristretto di esercizi, veri e propri “drugstore” all'americana, generalmente posti alle periferie delle città, non si avrà un significativo calo del prezzo della benzina (perché in buona misura determinato a monte dal prezzo internazionale del petrolio, che ovviamente è un dato per l'esercente che acquista il combustibile, e dal carico fiscale che lo Stato italiano impone sulla benzina; in pratica l'esercente potrà abbassare di qualche centesimo il suo profitto sul litro di combustibile erogato, compensandolo con quello degli altri generi di consumo che vende, ma si tratta di pochi spiccioli di risparmio per l'automobilista) mentre il disagio (ed il costo monetario) di raggiungere fisicamente con la propria auto un minor numero di punti di vendita di combustibile, generalmente collocati all'estrema periferia, o fuori città, peserà sulla clientela. Anche la possibilità, concessa dal decreto, di fare gruppi di acquisto per ridurre prezzo di vendita all'ingrosso del carburante, sembra più che altro acqua fresca rispetto alle tasche ed alla qualità della vita del consumatore finale.
Il capitolo sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, poi, è semplicemente scandaloso. La possibilità di mantenere diritti di esclusiva o la proprietà pubblica per i servizi da parte degli enti locali, dovrà essere sottoposta alla verifica dell'Autorità per la concorrenza che, c'è da giurarci, si pronuncerà sempre negativamente, spingendo per la vendita ai privati. D'altro canto, si abbassa da 900.000 a 200.000 euro il limite del valore del servizio locale entro il quale è possibile continuare a gestire in house, di fatto obbligando gli enti pubblici a privatizzare tutto. Infine, gli stessi enti locali, sottoposti ai rigidi vincoli del patto di stabilità interno, vengono ulteriormente ricattati: la condizione per essere considerato “ente virtuoso”, e quindi per evitare in parte i tagli di spesa derivanti dal patto di stabilità interno, risiede nel privatizzare i propri servizi. Questa spinta alla privatizzazione dei servizi pubblici locali comporta evidenti problematiche, che rivengono dalla sostituzione di un monopolista pubblico con un modello di tipo oligopolistico: non essendovi più un monopolista pubblico, non sarà più possibile né praticare politiche di prezzi sovvenzionati, né politiche di erogazione del servizio agli utenti marginali. I “rami morti”, ovvero i bacini di utenza non più economicamente redditizi, saranno tagliati via dalla fruizione di servizi essenziali, ed inoltre, con l'avvento dei privati, è quasi sicuro che i prezzi dei servizi saranno più alti per coprire costi di investimento e di manutenzione, precedentemente fiscalizzati sull'intera collettività, quando la proprietà era pubblica. D'altra parte, tale settore è già oggi, a livello internazionale, dominato da pochissime imprese di multiutility che operano su scala transnazionale, che si spartiranno, con criteri oligopolistici, il mercato “liberalizzato” dei servizi pubblici locali italiani, senza quindi creare alcuna significativa ricaduta in termini di sviluppo economico per il nostro Paese, e generando tutti i costi sociali dell'oligopolio, associati alle esternalità negative tipiche dei modelli concorrenziali.
La spinta a privatizzare i servizi pubblici locali va di pari passo con quella di due servizi pubblici nazionali essenziali: il servizio postale e quello ferroviario. La privatizzazione di tali servizi comporterà gli stessi fallimenti di mercato già descritti per i servizi pubblici locali (taglio dei rami morti del servizio, rialzo dei prezzi a carico dell'utenza), senza di fatto avere, in cambio, la possibilità di creare mercati realmente concorrenziali. Nel settore ferroviario ed in quello delle Poste, infatti, gli investimenti iniziali per entrare nel mercato sono così alti, che solo pochissimi operatori molto grandi e patrimonializzati, opportunamente sostenuti dalle banche, potranno effettivamente avviare una loro attività. Questi pochissimi operatori potranno quindi creare meccanismi di concorrenza monopolistica, con tutti i costi sociali che tale modello comporta, e che son ostati analizzati in precedenza. Ad esempio, nel settore ferroviario, Montezemolo diverrà monopolista delle singole tratte in cui otterrà la concessione, poiché è impensabile che due operatori possano spartirsi, in modo economicamente redditizio, una singola tratta, per quanto affollata.
In sostanza, il pacchetto-liberalizzazioni di Monti, scritto evidentemente su dettatura dei grandi operatori oligopolistici, non fa che rafforzare le potenzialità di espansione dell'oligopolio in settori quali i servizi pubblici locali e nazionali, sostituendo il modello del monopolista pubblico con quello, ben più dannoso socialmente, della concorrenza monopolistica. Un discorso analogo vale per la liberalizzazione degli esercizi commerciali, che non farà altro che realizzare una concentrazione del settore su poche grandi superfici di vendita, con rendite oligopolistiche ai danni della collettività. La liberalizzazione delle professioni creerà oligopoli che sacrificheranno o l'utenza finale, con un successivo incremento delle tariffe (posto che nel decreto-Monti anche quelle massima son ostate cancellate) oppure gli obiettivi di garantire nuova occupazione decente e ben pagata nel settore dei servizi professionali. Il verificarsi dell'uno o dell'altro dei due possibili costi sociali dipenderà dalle strategie oligopolistiche che i grandi studi commerciali adotteranno: se utilizzeranno o meno il prezzo di esclusione per dissuadere i potenziali neo-entranti sul mercato.
Nel migliore dei casi, come nel caso dei distributori di carburante e delle farmacie, il pacchetto-Monti non “liberalizzerà” un bel niente, perché le condizioni oligopolistiche, in tali settori, si riscontrano a monte, fra i fornitori. Al contrario, ad esempio tramite la previsione di autorizzare i benzinai a vendere altri prodotti (possibilità che solo quelli che partono da condizioni iniziali più favorevoli potranno sfruttare), creerà condizioni oligopolistiche anche nell'unico anello della filiera che è in condizioni concorrenziali, ovvero quello della vendita finale del prodotto.
Di fatto, sembra che le uniche due categorie aperte ad una effettiva maggiore concorrenza, saranno quelle dei tassisti e dei notai. Davvero un risultato modesto per chi, come Monti, si autoproclama un “liberale”. Adam Smith si rivolterebbe nella tomba, caro professore. Sarebbe più dignitoso ammettere onestamente che si stanno servendo gli interessi del capitale oligopolistico e finanziario.


mercoledì 18 gennaio 2012

Sale il forcone dal Sud



di Carlo Felici


In questi giorni, anche se i media di regime stanno accuratamente cercando di occultare gli eventi, in Sicilia è partita una vera e propria rivoluzione civile e culturale. Sappiamo tutti che le recenti politiche messe in atto già da governi con componenti palesemente nordiste, razziste e antimeridionaliste hanno tagliato preziose risorse al Meridione e dirottato anche  i fondi destinati ad esso al Nord.
L'attuale governo non ha espresso in alcun modo alcuna inversione di tendenza rispetto a quello precedente, anzi, con ulteriori aggravi fiscali destinati non a chi si è arricchito con speculazioni ed evasioni fiscali, ma alle masse popolari, a partire dai beni di prima necessità e d'uso come la casa di abitazione, ha aggravato una situazione già al limite della sopportabilità
Si sta rimettendo in discussione anche la conquista referendaria, si nega ormai ogni possibilità che un referendum possa cancellare una legge definita dai suoi stessi artefici “porcata”.
La democrazia è palesemente violentata e uccisa.
Ed il Sud che ha sempre pagato più degli altri, per 150 anni e nonostante fosse lo Stato preunitario più ricco e industrializzato, dopo essere stato saccheggiato, stuprato, vilipeso e umiliato e costretto ad una migrazione di proporzioni bibliche, ora viene indotto ancora una volta e di più, a condizioni di immiserimento di fronte alle quali la politica dei palazzi arrogantemente autoreferenziali, tace.
Il Movimento dei Forconi è nato come un'Associazione di agricoltori, pastori, allevatori stanchi del disinteresse quando non del maltrattamento da parte delle istituzioni.
Esso si sta rapidamente estendendo e già si segnalano in altre regioni del Meridione, sotto lo stesso segno, movimenti spontanei organizzati analoghi che seguono l'esempio siciliano.
Qualcuno nelle stanze dei palazzi sta già temendo che arrivi a Roma.
E per questo sta seminando zizzania specialmente nel web associandolo a mafia, estrema destra e qualunquismo antipolitico.
Ma sta miseramente fallendo in questo meschino intento.
Perché le persone interpellate nei presidi effettuati in questi giorni, e in certi casi persino le forze dell'ordine, salutano i cittadini di questo movimento del Sud in rivolta con entusiasmo, solidarietà e incoraggiamento.
Alcuni suoi esponenti, intervistati, rifiutano categoricamente di essere assimilati in alcun modo a partiti di destra, sinistra o di centro, ribadendo che tali orientamenti servono solo ormai per orientarsi nel traffico stradale.
Solo due nomi sono stati fatti con coraggio ed orgoglio: i nomi di due autentici partigiani del Sud e di un'Italia migliore, più giusta e trasparente: Falcone e Borsellino.
“La Rivoluzione parte dalla Sicilia - recita il manifesto del Movimento dei Forconi -. Agricoltori, Commercianti, Artigiani, Operai, Autotrasportatori, Braccianti agricoli  e quanti vogliono decidere le sorti di questa terra e dei loro figli. Siete tutti invitati a mobilitarvi”. E precisano “Non una guerra tra poveri, ma contro questa classe dirigente che vuole farci pagare il conto. Vogliamo scrivere una pagina di storia e la scriveremo. Siamo siciliani veri ed invendibili”.
Si è parlato di capibastone e di autonomismo spinto e strumentale, ma tra i sostenitori di tale movimento ci sono dei convinti repubblicani che pensano che lo Stato italiano non sia nato 150 anni fa, bensì soltanto il 2 Giugno del 1946.
In ogni movimento, in ogni caso, gli infiltrati e coloro che strumentalmente cercano di diffamarlo sono sempre serviti da sponda ai regimi repressivi, il compito di chi vuole vincere davvero è isolarli e sbugiardare anche certe strumentalizzazioni infami. Un albero però si vede sempre dai suoi frutti, e per ora lo si sta ancora innaffiando. Ma con milioni di persone esso può anche crescere e fruttificare.
Attenzione dunque ai cappelli e ai cappellai..la Sicilia è sempre stata, dal Risorgimento al dopoguerra, il motore di moti insurrezionali molto contagiosi. E' evidente quindi il tentativo di frenare L' “epidemia” sul nascere e di etichettarla ed emarginarla nel ghetto dell'antipolitica. Specialmente se un movimento di protesta non si fa assimilare e condurre o bolscevizzare con le notorie categorie di certa politica affondata miseramente nel tribalismo autoreferenziale.
Si deve contare a questo punto su un sano ed autentico spirito popolare di condivisione che sappia agganciarsi alle migliori istanze della società civile e dei suoi movimenti, rigettando le cupole e i loro scherani, in tutte le loro variegate forme.
Il governo teme quel che sta accadendo, altrimenti non avrebbe, come sempre, blaterato per l'ennesima volta in maniera strumentale e preventiva sul Sud come leva dello sviluppo. Una leva che invece ha cercato di spezzare con misure infami, già in atto da tempo con la complicità del leghismo razzista del nord, componente organica nel precedente governo, rispetto al quale questo è solo il subdolo amplificatore.
Il movimento dei forconi ha una grande responsabilità, non solo verso il Sud ma anche verso tutta quell'Italia che vuole un vero riscatto che parta dalla risoluzione autentica del primo e fondamentale nodo gordiano. Il lavoro.
Un lavoro che sia con tutti e per tutti, senza servi né padroni, e tanto meno padrini.


C.F.

martedì 17 gennaio 2012

LONGVIEW: UN DANNO A UNO È UN DANNO A TUTTI




Traduzione a cura di PonSinMor



Caro/i amico/i e compagno/i

Stiamo scrivendo per informarvi su un scontro di classe molto grave che va sviluppandosi sulla costa nord-occidentale degli Stati Uniti, a Longview (stato di Washington).
In questa piccola città, un'azienda internazionale di cereali, la EGT, posseduta congiuntamente dalle tre aziende (la statunitense Bunge Nord America, la Itochu con base in Giappone e la STX Pan Ocean con base in Corea), ha speso 200 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo terminale per il carico e scarico dei cereali a regola d’arte.
Mentre la costruzione era ancora in corso, la EGT ha reso noto che intendeva continuare a impiegare i 225 membri della Local 21 della ILWU a Longview, in armonia con la sindacalizzazione dei porti della West Coast Americana, compatta dal 1930 da parte della ILWU (International Longshore Union).
Invece, quando la costruzione è stata completata, la EGT si è rivolta ad un sindacato «canaglia», la Local 701 della General Construction and Operating Engineers, con l'intenzione di rimpiazzare la ILWU per salvare l'azienda con un contratto da «fidanzata» (secondo le sue stime) di 1 milione di dollari all'anno in costi di manodopera.
La rottura della Local 21 sarà senza dubbio un preludio a ulteriori attacchi alla ILWU lungo la costa occidentale, con l'automazione di un altro ariete. Chiaramente, i boss e lo stato stanno opponendo i lavoratori della ILWU contro i militanti del movimento Occupy al fine di isolare e indebolire entrambi. Essi riconoscono e temono il potere dimostrato dall’azione congiunta Occupy/ILWU.
Malgrado tale minaccia, la ILWU International ha chiesto di limitare la protesta alla EGT e a Longview e di non bloccare altri porti. Diranno ai portuali di attraversare le linee di picchetto di Occupy ovunque eccetto a Longview. Il 6 gennaio, teppisti della ILWU hanno attaccato un’assemblea di Occupy Seattle che stava progettando azioni di solidarietà con Longview.
Gli oppositori della Local 10, tra cui ex dirigenti e membri della base, dichiarano che bloccheranno il porto di Oakland se la nave tenta di attraccare. In realtà, i teppisti che hanno attaccato il 6 gennaio l’assemblea di Occupy Seattle hanno agito così solo quando gli scaricatori del porto di Oakland si sono ritirati e il leader dell'opposizione Local 10, Jack Heyman, ha detto all’assemblea che la base della ILWU a Oakland, Portland e Seattle aveva votato con i piedi per onorare le linee di picchetto di Occupy e chiudere questi porti il 12 dicembre, giorno del blocco dei porti della costa occidentale da parte del movimento Occupy, e che lo faranno di nuovo quando la nave dei cereali attraccherà a Longview. Se questo accadrà o meno, contro l'intensa pressione portata avanti dallo stato e dai boss, con la complicità della ILWU International e di diversi presidenti locali, resta tutto da vedere.
Dopo mesi di stallo, il 7 settembre dello scorso anno, la polizia anti-sommossa scortò un treno al terminal della EGT, arrestando 19 persone. La mattina dell'8 settembre, centinaia di scaricatori del porto entrarono nel terminal e impedirono la consegna dei cereali. Più tardi dello stesso giorno, gli scaricatori nei cinque porti vicini, tra cui Seattle (Washington) e Portland (Oregon) entrarono in sciopero a gatto selvaggio  in solidarietà con Longview.
Dopo tale scontro di inizio settembre, sono stati arrestati 220 dei 225 membri del Local 21. Il dirigente locale è stato arrestato sei volte e il suo braccio spezzato dalla polizia. Teppisti privati e polizia hanno creato a Longview un'atmosfera che ricorda le guerre di concorrenza del carbone degli anni 1920. I teppisti vanno aggredendo gli scaricatori sulla strada e la polizia va trascinando i membri del sindacato dalle loro case nel cuore della notte.
È previsto l'arrivo a Longview di una nuova nave per caricare una spedizione di cereali nel corso delle prossime due settimane. Essa sarà scortata dalle navi della guardia costiera degli Stati Uniti, nonché da elicotteri; ancora una volta, polizia e gorilla privati saranno presenti a militarizzare la città. Secondo la nuova legislazione securitaria nazionale, firmata dal Presidente Obama alla vigilia di Capodanno, il National Defense Authorization Act (NDAA), chiunque commette un «atto bellicoso» contro gli Stati Uniti può essere imprigionato indefinitamente senza accusa o processo su ordine del Presidente. I porti degli Stati Uniti sono già semi-militarizzati dalla «Homeland Security», con gli scaricatori tenuti a mostrare non meno di tre «smart card» elettroniche IDs  per entrare sul loro posto di lavoro ogni giorno, e sono soggette a controlli preventivi di sicurezza. Una cosa del genere non necessita di un salto di immaginazione per intravedere la possibilità di collegamento tra l’azione militante dei lavoratori e il «terrorismo».
È essenziale che questo attacco ai lavoratori sulla costa occidentale degli Stati Uniti riceva la massima attenzione e la solidarietà attiva internazionale. Mentre la data di arrivo della nave è ancora un segreto, le forze del movimento Occupy nell’Area della Baia di San Francisco, Portland e Seattle stanno organizzando cortei per una convergenza su Longview quando sarà nota la data. Altrove, negli Stati Uniti, Occupy sta organizzando dimostrazioni presso gli Uffici della Guardia Costiera e presso gli uffici delle tre società che possiedono congiuntamente la EGT.

Il sostegno internazionale, a partire dai lavoratori portuali in Europa, Asia, Africa e Sud America, è anche esso essenziale. Nel 2001, cinque scaricatori neri a Charleston (South Carolina) affrontarono anni di carcere con accuse inventate dopo che polizia aveva attaccato la loro linea di picchetto. Una volta che i lavoratori portuali in Europa annunciarono che non avrebbero trattato le navi che andavano a (o che venivano da) Charleston, tutte le accuse contro i «5 di Charleston» vennero accantonate.
Qualcosa di simile, su scala ancora più grande, è necessario oggi.
Insurgent Notes invita tutti coloro che ricevono questo rapporto ad unirsi alla lotta, sia preparandosi a unirsi alla convergenza su Longview, sia partecipando alle azioni più vicine a loro contro la guardia costiera o contro Bunge, Itochu e STX Pan Ocean.
Lo sconto di Longview sarà il test più difficile e più recente, ad oggi, della capacità delle forze che stanno bloccando i porti della costa occidentale dal 2 novembre e 12 dicembre per continuare a mobilitare il supporto di massa. Chiave del suo successo sarà una vasta alleanza a livello di classe dei lavoratori portuali della base, i numeri molto più grandi dei camionisti non sindacalizzati nei porti e la massa precarizzata che forma l'ala radicale del movimento Occupy. Trasformare questa lotta difensiva in una offensiva ora!

Insurgent Notes ( www.insurgentnotes.com )

* Se desideri contribuire in denaro per la convergenza su Longview, vai ahttp://occupyoakland.org/donate/
e vai a <donate specifically="" to="" west="" coast="" port="" shutdown="">.</donate>



lunedì 16 gennaio 2012

L’ASSEDIO D’EUROPA E UNA SINISTRA IN FRANTUMI



di Norberto Fragiacomo



La recente bocciatura, da parte di S&P, di economie prestigiose quali l’Austria e (soprattutto) la Francia, e l’ennesimo declassamento del nostro Paese – ormai rassegnatamente sulle piste di Portogallo e Grecia – hanno ravvivato il dibattito tra economisti e commentatori. Su “Il Fatto Quotidiano”, Vladimiro Giacché fa notare che è la stessa società di rating ad imputare la perdita del segno più dietro l’ultima “A” rimastaci all’assenza di misure per la crescita dell’economia; in un’intervista a “Il Piccolo” di Trieste (15 gennaio), Loretta Napoleoni va oltre, e bacchetta severamente il Governo Monti: “L’austerità non convince i mercati. La riforma del lavoro va fatta, ma senza cancellare i diritti. Qui bisogna riformare tutta l’economia italiana con un’ampia redistribuzione del reddito invece di tagliare i salari. Perché non si è fatta la patrimoniale? L’Europa è il malato del mondo e i mercati pensano che sarà l’Italia a far deflagrare il sistema Euro”. Sottoscriviamo con convinzione l’appello dell’illustre studiosa, non le sue conclusioni: ritenere che i “mercati” ci puniscano per il taglio delle pensioni e l’aumento dell’IVA equivale a confondere il lupo cattivo con un grazioso pechinese. Monti, e Berlusconi prima di lui, hanno seguito alla lettera le indicazioni della BCE, che prevedono, tra l’altro, la cancellazione dei diritti e il taglio dei salari (pubblici); non ci consta, invece, che nella famigerata missiva agostana si caldeggiassero patrimoniali o francescane distribuzioni di ricchezza. Se si considera che BCE e FMI vanno ovunque d’amore e d’accordo, e che gli esponenti di punta delle due istituzioni risultano variamente collegati al mondo della finanza e delle banche d’affari (in cui le tre sorelle del rating nascono e si sviluppano), tocca concludere che la “frugalità” è l’unica ricetta che ai finanzieri piace prescrivere. Che poi essa funzioni o meno è un altro paio di maniche - intanto, indebolisce il malato, e lo pone alla mercé di specialisti che, sospettiamo, neppure auspicano un pieno ristabilimento. Prima di dar credito all’interessata menzogna della “saggezza” o addirittura della “benevolenza” dei merca(n)ti, conviene ricordarsi di quante volte, in periodi precedenti alla crisi, le borse abbiano reagito con ripugnante esultanza alla notizia di una nuova ondata di licenziamenti. Com’è noto, le motivazioni si lasciano scrivere: se, per assurdo, Monti avesse varato una manovra equa e non recessiva, altre (magari opposte) ragioni sarebbero state addotte per giustificare il voto negativo. Al gioco delle tre carte il popolo “sovrano” perde sempre. Nel caso di specie, perde pure l’Europa, oramai irrimediabilmente spaccata: la sottrazione della tripla A ha sprofondato la Francia nella depressione, e il giudizio “incauto” di Angela Merkel è un pieno di benzina gettato sul fuoco. Quel “ce l’aspettavamo” ha doppio uso, esterno ed interno: da un lato, si rimarca la distanza siderale tra la santa Germania – che ha conservato la tripla A – e i Paesi europei spendaccioni; dall’altro, si manda un messaggio chiaro all’elettorato tedesco, che non ha nessuna voglia di sacrificarsi per i greci, gli italiani e (in prospettiva) i francesi. Almeno nel breve periodo, la strategia della Lehrerin venuta dall’est appare vincente: dopo un’interminabile serie di batoste alle amministrative, la CDU è tornata prepotentemente a crescere, e gli ultimi sondaggi assegnano alla coalizione al governo il 41% dei suffragi, contro il misero 26% della SPD europeista. Frau Nein rischia però di regnare sulle macerie: la rottura dell’asse con Parigi implica il crollo del traballante edificio europeo e, in via generale, il disimpegno germanico produrrà astio e legittimo risentimento verso il popolo che più di ogni altro ha tratto beneficio dall’introduzione, dieci anni fa, della moneta unica. Per quanto l’Unione monetaria sia un aborto, essa ha favorito, indirettamente, il formarsi di legami di amicizia e “simpatia” tra i popoli del Vecchio Continente: il regresso ad un clima di contrapposizione, sospetti e rivendicazioni reciproche spianerebbe la strada a soluzioni di tipo ungherese, e forse, addirittura, ad una balcanizzazione dell’Europa. In condizioni di diffusa povertà e frustrazione, non sarebbe impossibile a demagoghi senza scrupoli riattizzare un focherello, quello del nazionalismo, che cova sotto la cenere di una pace raggiunta a caro prezzo. Cui prodest? Agli europei no di certo… Va soggiunto che l’intransigenza della cancelliera, oltre a suscitare spiacevoli sentimenti antitedeschi, potrebbe nuocere, a lungo andare, alla stessa Repubblica Federale che, orbata dei mercati di sbocco, precipiterebbe, buona ultima, in una crisi non meno devastante di quelle greca od italiana. Venerdì prossimo, a Roma, è in programma un vertice tra Monti, Sarkozy e la Merkel: potrebbe essere l’occasione per una ricucitura, o per un strappo definitivo, anche se appare maggiormente plausibile un nulla di fatto. La prognosi per il grande “malato del mondo” è dunque infausta: al pericolo di un’implosione e di un impoverimento generalizzato delle classi subalterne si aggiungono le preoccupazioni relative ad una possibile recrudescenza dei nazionalismi (magari “straccioni”, come quello ungherese). Il crollo della SPD nelle intenzioni di voto è indice di un’oggettiva difficoltà della sinistra a livello europeo: da una parte, essa paga la propria “ragionevolezza” – poco apprezzata in periodi di isteria – dall’altra, il costante ondeggiare tra proposte più o meno forti di regolamentazione dei mercati e la sconsolata accettazione del modello liberista, un compagno che, passato l’innamoramento, non si ha comunque il coraggio di lasciare. In Italia va anche peggio, perché il campo progressista è irrimediabilmente lacerato in una miriade di partitini l’un contro l’altro armati. Il PD è ascrivibile al campo della sinistra solo in ragione delle sue origini (parzialmente) comuniste – in verità, è nave senza nocchiere in gran tempesta che, pur puntando vagamente al centro, si accontenta oggi come oggi di galleggiare, nella speranza che, prima o dopo, il vento cali. Che in un movimento vi siano posizioni e sensibilità differenti è fisiologico, ma il Partito Democratico è all’opposizione di se stesso su ogni questione significativa, dal diktat della BCE all’articolo 18, dalla materia dei diritti civili alla scelta delle alleanze. L’anima di sinistra, impersonata da Fassina, Cofferati, Orfini e pochi altri (ma, verisimilmente, dalla maggioranza degli elettori), è sopportata a fatica da moderati di ogni provenienza, impegnati quotidianamente a bisticciare tra loro per ragioni personali prima ancora che politiche. Mandato momentaneamente a casa Berlusconi (da altri), il segretario Bersani prova a non esporsi e a sopire le snervanti polemiche, ma la sua linea politica a zigzag scontenta tutti. La sensazione che il partito trasmette è d’impotenza, e la rinnovata intesa tra Berlusconi e Bossi potrebbe viepiù indebolire la già scarsa influenza del PD sulle politiche governative. La nascita di SeL e, più tardi, la cavalcata primaverile nei sondaggi suscitarono entusiasmi tosto spentisi: difficilmente Sinistra Ecologia e Libertà potrà ambire, in una ipotetica coalizione di centro-sinistra, ad un ruolo paragonabile a quello (bene o male) giocato, nel decennio 1996-2006, da Rifondazione Comunista. Non è solo questione di seguito elettorale. “Straripante” oratore, Nichi Vendola non è stato in grado di elaborare un progetto politico chiaro e convincente, accontentandosi, infine, di coprire a sinistra uno schieramento centrista tutto da inventare. Partito con l’(apparente) ambizione di unificare la sinistra, il Presidente pugliese ha ostentatamente rifiutato il dialogo con i comunisti, bollandoli come “sinistra radicale”, e – sfoggiando il suo riformismo nuovo di zecca - ha cercato contatti con le forze moderate. Raramente alle parole son seguiti i fatti: la volontà, sbandierata innumerevoli volte, di aderire al PSE è finora rimasta tale, e la contrarietà espressa alle misure varate da Monti stenta a tradursi in una critica al PD, che viene anzi blandito. Manca una precisa visione del futuro, sostituita dalla ricorrente richiesta di elezioni precedute da primarie di coalizione (il tempo non lavora per una candidatura Vendola) – in buona sostanza, non si tiene conto dell’eccezionalità dell’emergenza, e si affronta la crisi a colpi di endecasillabi. Secondo L’Espresso, ultimamente la condotta di Nichi avrebbe suscitato malumori nel “padre nobile” Fausto Bertinotti e in taluni dirigenti (Alfonso Gianni, la Sentinelli ecc.) propensi, invece, ad un’apertura alle forze della sinistra c.d. massimalista: certo, per raggiungere l’autosufficienza non basta il 5-6% del voto popolare. La funzione aggregatrice inizialmente rivendicata da SeL potrebbe, forse, venire ereditata dalla Federazione della Sinistra – che però, nonostante i proclami, non esiste ancora. Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani mantengono la loro individualità e, soprattutto, paiono avere obiettivi parzialmente diversi. Il PdCI preme per la ricostituzione di un partito comunista unitario, disponibile ad alleanze sul modello ulivista; Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, guarda con interesse ai movimenti sorti spontaneamente nel 2011, e immagina una saldatura di forze politiche, sindacali e sociali in un fronte anticapitalista. Persuaso – come noi – che la situazione stia precipitando, non si attende la salvezza da future elezioni. Va riconosciuto che entrambi i partiti si sono mostrati aperti al dialogo (se quello con Vendola non è mai partito, la responsabilità è del governatore), ed hanno contribuito più di altri all’organizzazione di iniziative contro la dittatura della finanza, culminate nella sfortunata manifestazione del 15 ottobre a Roma. Il piccolo Partito Socialista, pungolato dalla combattiva sinistra interna, sembra essere passato dal sostegno totale (“casiniano”) all’esecutivo Monti ad una posizione velatamente critica: dopo aver domandato invano equità e patrimoniale, Riccardo Nencini, al principio di dicembre, ha addirittura ventilato la possibilità che l’unico parlamentare socialista dicesse no alla manovra “Salva Italia”. Tanto tuonò, che non piovve: alla fine, Vizzini ha votato sì, insieme agli ex “compagni” del PDL. Le scuse sono quelle solite: senso di responsabilità ecc. ecc. Prospettive? Ben che vada, la sopravvivenza e una manciata di poltrone. Invero, l’opposizione più efficace a Monti viene dall’interno del sindacato CGIL, e segnatamente dalla FIOM e dai pensionati. I metalmeccanici, in particolare, sono stati tra i protagonisti delle dimostrazioni autunnali, e vantano leader capaci e popolari, primi fra tutti Maurizio Landini e Giorgio Cremaschi. Attualmente, mentre Landini si limita a fare (benissimo) il sindacalista, il Presidente della FIOM sta tentando di dar vita ad un’opposizione di sistema attraverso il Comitato NO DEBITO cui aderiscono, oltre a varie realtà organizzate della sinistra italiana, personalità di spicco dell’economia e della cultura. La scommessa è quella di superare il frazionamento esistente. Non facciamo pronostici sulla riuscita, ma approviamo il percorso scelto – anche perché mancano alternative valide. Attenzione: lo scopo non è, e non può essere un cartello elettorale, una Sinistra Arcobaleno riveduta e corretta; l’unione (o il patto federativo) non serve a tornare in parlamento, o ad inserire qualche punto e virgola nel programma del PD – serve a suscitare, in chi si oppone ai sacrifici, un senso di appartenenza, una coscienza comune da spendere in piazza. A tal fine è indispensabile un progetto di ristrutturazione della società, che sia chiaro, comprensibile e condiviso – non le fantasticherie di una setta, ma soluzioni ragionevoli ai problemi più scottanti. Opiniamo che i cinque punti individuati dal Comitato NO DEBITO (moratoria e/o dilazione del pagamento del debito, riduzione delle spese militari, tutela dei beni comuni minacciati, difesa ed ampliamento dei diritti dei lavoratori, valorizzazione degli istituti democratici) siano una buona base di partenza. In fondo, più che di cattivarsi le segreterie, si tratta di persuadere le masse consapevoli che l’unica alternativa alla servitù finanziaria è la mobilitazione – perché, come ci insegna Eric Hobsbawm, il capitalismo scende a patti solo quando ha “paura”. Spetta agli europei alzare tutti insieme la testa: non saremo la “seconda potenza mondiale” (figurarsi!), ma un’azione decisa e ben coordinata potrebbe anche permetterci di superare l’inverno. 


Trieste, Lunedì 16 Gennaio 2012

domenica 15 gennaio 2012

Il “de profundis” della democrazia italiana





di Carlo Felici



Se il giorno in cui è stato nominato Monti abbiamo assistito alla fase terminale della lunga agonia di una democrazia già per altro duramente provata ed in stato comatoso, per la mancanza di rappresentatività di un Parlamento in gran parte costituito da yes men e yes women, adesso, con la sentenza che non consente l'ammissibilità del referendum che avrebbe cancellato quella che i suoi stessi artefici hanno sempre definito “legge porcata” (dimostrando così palesemente di avere bisogno di “porcate” per governare), siamo arrivati al “de profundis”, alla lapide tombale ed alla fine del funerale della democrazia italiana.
Un sussulto di dignità c'era stato con le vittorie referendarie, ma è stato ben presto vanificato dalle dichiarazioni successive dei vari membri di questo governo, fino all'ultima, di questi giorni, con cui proprio il sottosegretario all'economia (praticamente il vice di Monti) ha definito tali referendum sui servizi di importanza vitale per i cittadini, “un imbroglio”
Un imbroglio piuttosto ci appare questo governo che solo una seria ed autorevole agenzia di “pompe funebri” della nostra democrazia avrebbe potuto allestire tanto bene e così in fretta, ma soprattutto così efficientemente. Una agenzia, dati i primi provvedimenti e le solite tasse imposte sempre e comunque alle solite categorie di noti “gonzi senza via d'uscita”, che potremmo, senza tema di smentita, considerare alquanto esosa.
Non pare che però le prefiche di tale funerale siano molto numerose, i pianti infatti non si sprecano, anzi, più d'uno manifesta senza nasconderla una certa allegria, una contentezza dovuta al fatto che finalmente un buon “becchino” si dimostra più serio di un "clown" con il perdurante ruolo di “placebo” al capezzale di un moribondo.
Non sono poche le persone che credono che una compagine di esperti (di che poi se i provvedimenti che hanno preso avrebbe potuto metterli in atto anche un semplice ragioniere appena diplomato) tecnocrati possa governare meglio di tanti politici cortigiani e impaludati con poteri occulti o criminali.
Si consolano con l'aglietto, pur sapendo che quella che ci stiamo sorbendo è una vera e propria cicuta, e dicono, in buona sostanza: “meglio quella che l'arsenico e la lingerie dei merletti del novello duce postribolare”.
A questo siamo ridotti. L'euro avrebbe dovuto portarci a servizi, stipendi e sistema politico di tipo europeo, ma, piuttosto, ci troviamo oggi, dopo innumerevoli e perduranti sacrifici di ogni tipo, a fare le giravolte nel fango di un Paese in cui si suicida una persona al giorno, tra dipendenti e imprenditori, per disperazione da perdita o mancanza di lavoro, in cui gli stipendi sono quasi la metà di quelli europei, l'evasione fiscale è la seconda per ampiezza e il sistema politico è tra i più inefficienti, corrotti ed esosi.
Allora, forse saremmo quasi tentati di approvare la gioia dei monatti di questo sistema, se non fosse che il sistema non è morto ma in piena vitalità zombistica.
Eh già, perché a morire è solo la nostra democrazia, mentre l'apparato politico italiano, noto in tutto il mondo per la sua inettitudine, il suo parassitismo e i suoi costi esorbitanti, sopravvive alla grande ad ogni crisi, rimane indefessamente in piedi nonostante sia “morto da tempo” come un cadavere ambulante e per altro sempre più feroce.
E la cosa bella è che ha inventato pure la parola “antipolitica” per stigmatizzare i suoi detrattori sul nascere, come se la vera politica fosse davvero quella degli zombies che, mentre tutta l'Italia stringe la cinghia fino a non trovarsi più nemmeno una vitina da vespa (da non confondersi con quella di chi gestisce da sempre il salotto preferito dell'happening zombistico), vanno allegramente a festeggiare alle Seychelles..così, tanto per essere più abbronzati della solita faccia di bronzo che continuamente sfoggiano nelle aule parlamentari.
Adesso, vanificata la speranza referendaria, qualcuno rimpiange il fatto di non avere sostenuto il referendum Passigli, con l'illusione e la speranza che almeno con quello qualcosa avremmo ottenuto.
Pia illusione, la Consulta avrebbe bocciato pure quello, ormai gli organi costituzionali infatti seguono purtroppo la sorte di una Costituzione del tutto svuotata di contenuto che resta in piedi solo come “puntello formale” di un sistema profondamente diverso e conflittuale rispetto ai suoi principi il quale non attende altro che l'opinione pubblica finalmente si stufi anche di una carta inutile e, a questo punto, anche beffarda, la quale ci ricorda in continuazione ciò che avremmo potuto essere ma non siamo mai stati e non saremo mai.
La sovranità nazionale, nell'Europa degli oligopoli e degli apparati speculativi, è un optional sempre più pericoloso, eversivo e conseguentente lo è anche la possibilità che il popolo possa esercitarla con un libero voto.
Non illudetevi, cari nemici della perfida Albione, che la Merkel sulla tobin tax faccia sul serio, perché se fosse stata davvero seria si sarebbe già data concretamente da fare per metterla in pratica da tempo, invece si sta solo arrabattando come può per arginare l'emorragia di consensi in libera uscita dal suo partito. Se la Merkel dovesse di nuovo vincere le elezioni, statene certi, la tobin tax la vedremmo con il telescopio elettronico forse in una galassia a parecchi anni luce da noi, in un pianeta ripopolato solo da qualche fuoriuscito dalla DDR, ma molto di nascosto, e su un razzo sconosciuto persino ai sovietici.
Vinceranno i socialisti francesi? Quelli tedeschi, tra questo e l'anno prossimo?
Forse..magari!
Ma per noi non credo che cambierà molto..zombies abbiamo e zombies continueremo ad avere al governo e in un Parlamento quasi sicuramente rieletto con "lex ad porcum" il quale, a sua volta, eleggerà un altro di loro a presiederci tutti..
Quindi, cari estimatori della Repubblica dei governati “esperti”, non gongolate troppo, quella che abbiamo oggi non assomiglia nemmeno lontanamente alla Politeia di Platone, ma è solo un novello regime, non di trenta, ma di trecento e più tiranni (magari fossero solo trenta, ci costerebbero di meno). Certo, se aveste (se avessimo) il coraggio di cacciarli tutti e di far restare al loro posto solo i tecnocrati che ora ci dobbiamo comunque sorbire, ne avremmo solo pochi da mantenere e con un risparmio notevole. Ma come si fa? Se in primo luogo essi garantiscono seriamente i loro interessi e la loro impunità dal redde rationem elettorale?
Il funerale è finito, ma non c'è stato un necrologio e nemmeno una prece, pare che anche il vescovo abbia preferito una vacanza alle Seychelles, e il prete mandato all'ultimo momento si è dato malato.
Oggi dunque appare solo un cartello sbiadito con su scritto:

QUI GIACE LA DEMOCRAZIA ITALIANA

sconfitta dal popolo pecora

ne danno annuncio i pochi che l'hanno sempre amata invano, e senza essere mai corrisposti.

C.F.


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