di Riccardo Achilli
Questo breve articolo
nasce da una interessante contrapposizione, sul web, fra chi
intravede nel rapido precipitare della protesta di piazza nel nostro
Paese, non solo limitato ai Forconi, una opportunità per la sinistra
di classe, e chi invece ritiene che tale evoluzione sia sterile, in
assenza di politiche fatte dentro le istituzioni. Ed ha ovviamente un
riflesso immediato per l’unico partito di sinistra democratica
ancora rimasto in piedi nel nostro Paese, ovvero SEL. Di seguito
riporto alcune mie riflessioni che, ovviamente, impegnano solo la
responsabilità di chi scrive, e non la redazione di BRIM.
Perché non serve più
la piazza
Per capire quali
implicazioni abbia la protesta di piazza, occorre avere un’idea
delle evoluzioni del capitalismo moderno, in direzione del
capitalismo cognitivo del general intellect. Il general intellect è
una categoria marxiana, è stata definita nel frammento sulle
macchine dei Grundrisse, e si riferisce ad una evoluzione del
capitalismo in cui i tradizionali fattori di produzione si
smaterializzano, per cui il fattore produttivo di base diviene
l’informazione, la conoscenza ed il suo modo di trasmettersi. Anche
in questo, quindi, Marx ha indovinato nel prevedere le evoluzioni
cognitive che il capitalismo avrebbe avuto nella sua fase
post-industrialistica. Tuttavia, l’errore è stato quello di
pensare che tale evoluzione, con la formazione di un lavoratore
cooperativo collettivo associato, inevitabilmente coalizzantesi con
il proletariato industriale, avrebbe accelerato il superamento del
capitalismo stesso.
In realtà il capitalismo
cognitivo ha assunto modalità di organizzazione produttiva, sul
piano strutturale, e di stratificazione culturale, su quello
sovrastrutturale, tali da diluire, da un lato, e segmentare,
dall’altro, le classi sociali otto/novecentesche, talché, oggi,
per parlare in termini leninisti, non esistono più le condizioni
soggettive, di passaggio dalla classe in sé a quella per sé, per
immaginare un passaggio rivoluzionario, o di piazza, in grado di
introdurre il socialismo. Dirò di più: manca anche una delle
condizioni oggettive descritte da Lenin, ovvero la perdita, da parte
delle classi dominanti, del controllo politico sulle istituzioni e
sul Paese. In Italia, tale situazione è aggravata anche dall’assenza
totale di qualsiasi élite rivoluzionaria, stante la mediocrità
delle classi dirigenti di sinistra, ma tali questioni si
ripropongono, identiche, anche al di fuori dell’Italia.
Persino in Grecia, che
secondo alcuni sarebbe in condizioni pre-rivoluzionarie, nonostante
il fatto che il Governo Samaras, pur con le sue debolezze, è ancora
saldamente “in control”, violando quindi una delle condizoni
oggettive di una rivoluzione secondo Lenin, chi sostiene Tsipras sa
benissimo che la sua crescita elettorale va di pari passo con una
piattaforma politico/programmatica via via sempre più moderata
(tanto da creare una frattura con la componente comunista all’ultimo
congresso di Syriza). E sappiamo che, se si andasse domani alle urne,
Tsipras arriverebbe primo, ma per governare il Paese sarebbe comunque
costretto a cercare un accordo politico con segmenti di Sinistra
Democratica e persino del PASOK.
Le condizioni del
socialismo latino americano non sono esportabili da noi, perché
parliamo di un socialismo che attecchisce in Paesi dove persiste,
nelle opinioni pubbliche, un potentissimo substrato antimperialista,
e quindi anti-USA, che da noi non esiste, per ragioni storiche, dove
il capitalismo locale è rimasto ancora allo stato iniziale, in Paesi
ancora agrari come la Bolivia o il Paraguay, oppure allo stato della
prima industrializzazione di massa, come il Brasile. In stadi in cui,
quindi, si sta consolidando, o si è consolidata, una classe operaia,
insieme ad ampie masse contadine diseredate, tali da supportare un
socialismo con forti caratteristiche rivoluzionarie, anticapitaliste
ed antimperialiste. Peccato che da noi queste condizioni sociali
siano state superate, e che persino nei Paesi latinoamericani a
capitalismo più maturo, come l’Argentina, il Cile o l’Uruguay,
il socialismo al potere ha caratteristiche socialdemocratiche e
liberali, ed addirittura non disdegna di allearsi con componenti
moderate piccolo-borghesi, come nel caso del FA uruguayano. E tutto
ciò senza menzionare la questione indigena, che rappresenta un
ulteriore elemento di differenziazione fra Europa ed America Latina.
Siamo quindi in una
situazione in cui la perdita di coscienza di classe non è
reversibile nel breve e medio periodo, perché è un dato
strutturale, immanente alla stessa organizzazione produttiva del
capitalismo cognitivo. Chi conosce gli scritti di Negri e Vercellone
su tale tema sa benissimo che lo sfruttamento del lavoratore
cognitivo assume forme completamente diverse da quello del
tradizionale proletario industriale in catena di montaggio, forme che
devono necessariamente assumere, per stimolare l’estrazione di
plusvalore intellettuale e creativo, modalità orizzontali, di rete,
de-gerarchizzanti, recuperando la disciplina lavorativa tramite la
precarizzazione del rapporto di lavoro, in sostituzione della
tradizionale stabilità del rapporto con i mezzi di produzione
dell’operaio fordista. Tutto ciò segmenta la domanda sociale in
mille rivoli diversi, distorce l’autorappresentazione sociale dei
lavoratori del general intellect, indotti ,anche artificiosamente, a
contrapporsi al tradizionale proletariato di cui pure fanno parte, e
quindi induce oggettive difficoltà di conduzione di un progetto
rivoluzionario, anche solo nell’unificare le diverse piazze con
parole d’ordine comuni. Perché attenzione: unificare sotto la
bandiera del contrasto all’euro ed all’Europa liberista e
tecnocratica conduce, a seconda della piattaforma ideologica, o a
conclusioni di tipo sovranista e nazionalista, quindi di destra, o a
conclusioni di tipo socialdemocratico, quindi comunque non
rivoluzionarie. Unificare sotto la bandiera antiliberista, del
welfare, della sicurezza del posto di lavoro, conduce ancora una
volta a posizioni socialdemocratiche, non rivoluzionarie. Unificare
sotto la bandiera della rivolta fiscale porta dritti dritti in bocca
alla Destra sociale, come visto con i Forconi. Unificare sotto una
generica bandiera anticapitalista conduce a numeri da prefisso
telefonico, indicativi di assenza di radicamento sociale, proprio in
ragione dei suddetti impatti che il capitalismo cognitivo ha avuto
sulla coscienza di classe1.
A meno che l’anticapitalismo non sia una foglia di fico per
nascondere una identità socialdemocratica, come avviene per la
maggioranza filo-Tsipras di Syriza, che anticapitalista non è, dal
momento che rifiuta la nazionalizzazione delle banche o accetta la
permanenza nell’euro.
In queste condizioni,
dunque, il ricorso alla piazza può sfociare soltanto in
rivendicazioni socialdemocratiche, che però, per loro stessa natura,
richiedono la presenza di una sinistra politica dentro le istituzioni
democratiche, oppure in rivendicazioni di tipo fascistoide,
nazionalista, sovranista, neocorporativo ed antidemocratiche. In
questo brodo di coltura, se dovesse sorgere, dal basso, un Masaniello
abbastanza furbo da non farsi vedere mentre gira in Jaguar, la
frittata sarebbe fatta: il Paese degraderebbe verso l’autoritarismo
ed il neofascismo. Non c’è spazio per credere di poter dirigere da
sinistra la piazza. C’è solo, ed è doveroso che ci sia, lo spazio
per colloquiare con la piazza da sinistra. Ma per colloquiare occorre
avere gli argomenti, cioè le proposte politiche.
Cosa rimane, allora?
Rimane ciò che con grande chiarezza e lucidità dice il compagno
Renato Gatti, e che riporto testualmente: “dobbiamo sostenere le
istituzioni in quanto tali, sostenere la democrazia come atto di
riconoscimento di chi è votato, proporre, e questa è la cosa più
difficile e impegnativa, soluzioni sincere, impegnative, responsabili
alle vittime della crisi del capitalismo, che non di trasformino in
complici di golpe di destra. Ritengo che si debba agire con la
consapevolezza dei rapporti di forza, con intelligenza e insinuandosi
nelle pieghe della società , non credo che quella che viviamo sia
lotta di classe di una classe consapevole del suo stato”.
Quali implicazioni per
SEL?
Tutto ciò significa
saper avere cultura politica, saper coltivare il compromesso, saper
distinguere fra contrapposizione di idee e progetti politica e
sterile e dannosa contrapposizione personale. In soldoni: è del
tutto evidente che il vertice del principale partito di sinistra che
esiste sulla scena politica italiana, ovvero SEL, stia pensando ad
una riproposizione di un accordo politico con il PD renziano. Una
prima parte, sperimentale, di tale accordo, è già in atto. Landini,
che oltre ad essere segretario della Fiom, è anche iscritto a SEL e
vicinissimo a Vendola, sta discutendo con Renzi su temi come la
rappresentatività sindacale e la partecipazione dei lavoratori alla
gestione aziendale. I dirigenti più vicini a Vendola, quasi
quotidianamente, lanciano messaggi di disponibilità al confronto.
Chi scrive ha la più profonda disistima, politica e personale, per
Renzi. Però, d’altra parte, la personalizzazione del confronto, in
politica come sul lavoro, è nociva, e d’altra parte, anche se in
condizioni storiche del tutto diverse e non comparabili con quelle
attuali, se un PSI molto più a sinistra di quello craxiano seppe
fare un compromesso di Governo, fecondo di conquiste sociali e
welfaristiche per i lavoratori, con Aldo Moro, vorrei capire che
scandalo ci sia a fare un accordo, ovviamente di competizione e sfida
sui temi e le questioni programmatiche, con Renzi! Mi riesce
difficile, nonostante tutto, pensare che Renzi sia più a destra di
Aldo Moro. Ovviamente le condizioni storiche sono del tutto diverse,
non è pensabile che SEL possa riaprire una fase welfaristica come
quella del centrosinistra degli anni'60, ma è possibile che possa
ergersi in una funzione di resistenza contro la deriva neoliberista,
inserendo alcuni sassi dentro il meccanismo, cosa che solo da una
postazione di potere, e non certo di minoritaria testimonianza,
potrebbe fare.
Vorrei anche
sommessamente ricordare che l’adesione al PSE, richiesta sia da SEL
che dal PD, ove andasse a buon fine, comporterebbe un’alleanza
politica su scala europea, sia pur basata su posizioni diverse, di
maggiore o minore critica nei confronti dell’impostazione delle
politiche europee, di maggiore o minore radicalismo, ma pur sempre
dentro un alveo politico comune! Ha mio avviso poco senso pensare che
SEL possa stare dentro il PSE, ma senza supportarne, sia pur in
termini critici e di “pungolo” continuo, il candidato ufficiale,
ovvero Shultz, navigando dentro una presunta “terza posizione”.
Questi giochini non sono molto tollerati in sede europea. Fanno parte
della cultura politica italiana, che non è delle più apprezzate
fuori dai patrii confini.
Dentro il corpo
elettorale e dei militanti di base del Partito Democratico ci sono
molte persone che hanno una cultura vagamente progressista, ben
diversa da quella dei quadri intermedi e dei vertici del partito2,
le conosco personalmente, ed a riprova di quanto affermo vi sono i
risultati più rappresentativi, quelli delle primarie degli iscritti
che, a differenza delle primarie del secondo turno, non sono
inquinate da milioni di voti di elettori di centro-destra (il più
noto dei quali è Gustavo Selva, fotografato mentre votava). In
questo turno, piattaforme programmatiche più a sinistra di quella di
Renzi hanno avuto, complessivamente, il 54,6% dei voti. In province
di tradizione progressista, come Livorno, Cuperlo, che al di là
dell’evidente apparentamento con D’Alema proponeva una mozione
molto più a sinistra di quella renziana, ha stracciato Renzi (stiamo
parlando del 51,4% per il primo, e del 39,3% per il secondo). Analogo
discorso nella provincia di Genova, infiammatasi per la protesta dei
ferrotranvieri del capoluogo. Non è minimamente pensabile una
ricostruzione di una sinistra di massa mettendosi in contrapposizione
con centinaia di migliaia di elettori progressisti che stanno dentro
il PD. A meno di coltivare una vocazione minoritaria che non serve a
niente. E che con una legge elettorale come quella proposta dal PD,
di tipo prettamente maggioritario, comporterebbe la sparizione di ciò
che resta della sinistra dalle istituzioni. E’ bene chiarirlo: un
sistema elettorale alla spagnola e con alte soglie di sbarramento,
come quello proposto da Violante e Renzi, fa sopravvivere solo i
piccoli partiti con preminente radicamento regionale, e fa sparire
gli altri. Avremmo un Parlamento con dentro la Lega Nord e senza più
SEL. Resterebbe solo la piazza, ma per quanto sopra detto, la piazza
è inutile per la sinistra.
Qual è il vero problema,
allora? Il vero problema è che la dirigenza di SEL, per problemi
credo anche inerenti la cultura politica poco incline al confronto
con la base da parte dei suoi esponenti (cresciuti a pane e
centralismo democratico), non riesce a trasmettere in modo franco e
trasparente con i suoi militanti l’esigenza di realizzare un
accordo politico, ovviamente di tipo competitivo e sfidante sui temi,
con il PD, anche per paura di perdere la frangia meno disponibile ad
aperture. Se vi fosse tale franca comunicazione, anche a costo di
perdere qualche pezzo intransigente, sarebbe possibile stabilire, nel
dibattito congressuale, le condizioni ed il perimetro programmatico
di tale accordo, e presentare al PD tali condizioni con la massima
compattezza possibile, strappando quindi il massimo possibile di
concessioni a sinistra. Se invece il proposito, reso necessario dalle
condizioni, rimane dentro una nebulosa di indeterminatezza, di mezze
frasi, di dichiarazioni fatte e poi smentite, di congetture
tatticistiche, si presentano, nell’ordine, i seguenti effetti
controproducenti:
- Massimizzazione della confusione mentale di iscritti ed elettori, con conseguente perdita di tessere e voti;
- Comportamenti incoerenti e poco comprensibili nelle scelte politiche, che attirano critiche sia da destra che da sinistra;
- Persistenza di posizioni antitetiche e non conciliabili dentro il partito, che ne minano l’autorevolezza, e che giustificano una direzione centralizzata molto forte, come unico elemento aggregante;
- Debolezza intrinseca nel negoziare con il PD le condizioni di un accordo politico, che conduce inevitabilmente ad un indebolimento della posizione di SEL, con piattaforme programmatiche dove le rivendicazioni di SEL vengono semplicemente cancellata, come ad esempio il documento d’intenti di Italia Bene Comune, che sembrava in tutto e per tutto una mozione interna del PD;
- Processo di tâtonnement walrasiano nella ricerca di un accordo politico con il PD, che porta a “fughe in avanti” inopportune, come quella di Landini con Renzi, sia perché non sono state adeguatamente spiegate alla base, che giustamente si incazza, sia perché finiscono per mettere in difficoltà inutilmente chi le attua (infatti Renzi è stato lesto ad utilizzare il suo feeling con Landini per isolare ulteriormente la CGIL. Peccato però che la FIOM sia una componente della CGIL, e che quindi, a cascata, risenta degli stessi danni che la CGIL subirà);
- Impossibilità di dialogare con il disagio sociale espresso dalla piazza, perché, anziché fare le proposte di politica economica e sociale necessarie per fornire risposta, ci si perde in un tatticismo di posizionamento che non interessa più un Paese alla fame.
La conseguenza di tutto
ciò sarà che una SEL ulteriormente indebolita in termini di
credibilità ed elettorali finirà per consegnarsi senza condizioni
al PD renziano, finendone massacrata.
Conclusioni
In conclusione: il tempo
di una sinistra di rappresentanza è finito. La piazza, da sola, non
è più portatrice di una coscienza di classe sulla quale innestare
dinamiche antagonistiche efficaci, anche solo per ottenere
rivendicazioni minime e, nel deserto del panorama politico italiano,
rischia soltanto di dare spazio ad un Masaniello, in grado di dare un
collante di destra alle rivendicazioni. D’altro canto, l’evoluzione
leaderistica e plebiscitaristica delle nostre democrazia priva di
qualsiasi spazio di agibilità politica una sinistra intenzionata ad
uscire dal capitalismo per vie costituzionali e parlamentari.
Chi vuole continuare a
sognare di “nuovi modelli” può farlo, ovviamente, però sarà
una ricorsa persa per evitare ciò che accadrà, non fra venti o
dieci anni, ma probabilmente fra cinque: un’uscita dalla crisi di
tipo neo-medievale, con sistemi di potere di tipo oligarchico basati
su circuiti chiusi, spazi di agibilità politica dal basso pressoché
azzerati, sistemi sociali irrigiditi in blocchi magmatici ma privi di
mobilità ascendente, mercato del lavoro molto più competitivo,
precario e alienante. C’è ancora il tempo per sognare? Credo di
no.
1
Vorrei ricordare che i numeri da prefisso telefonico non riguardano
solo chi avrebbe, presuntamente, “tradito” la classe, ma anche
chi è rimasto fedelissimo alla linea, ed è assolutamente
inattaccabile sul piano della coerenza politica. Qualcosa vorrà pur
dire…
2 La
recentissima indagine di Questioni Primarie rivela infatti che il
30% dei votanti alle primarie degli iscritti del PD si sente di
sinistra, mentre solo uno dei delegati eletti per l'Assemblea
nazionale di quel partito si colloca in tale area.
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