UNA PROPOSTA DI USCITA DALL'EURO-AUSTERITA'
di Riccardo
Achilli
Il professor Shumpei Takemori,
dell’Università di Tokio, si è chiesto, in un recentissimo convegno, come mai
il Giappone, con un rapporto fra debito pubblico e PIL pari a quasi il 240%,
non paghi lo stesso tasso di interesse che paga l’Italia, con un rapporto
debito/PIL pari a circa il 132%. Il
Giappone, infatti, sui titoli del debito pubblico decennali, nel 2013 ha pagato
interessi oscillanti fra un minimo dello 0,6% ed un massimo dello 0,85%, mentre
l’analogo tasso di interesse su scadenze decennali, per l’Italia, ha oscillato
fra un minimo del 4,15% ed un massimo del 7,2%.
E’ naturalmente ben noto che il
livello del tasso di interesse sui bond pubblici misura il livello di fiducia e
credibilità che i mercati assegnano al debito pubblico di un Paese, e che tassi
di interesse elevati generano un effetto “palla di neve”, aumentando la quota
capitale del debito per le esigenze di copertura degli stessi. Come mai il
Giappone, ben più indebitato dell’Italia, può permettersi tassi di interesse
più bassi sul suo debito pubblico?
La risposta del professor
Takemori è semplice: la presenza dell’euro fa sì che i mercati finanziari
europei siano completamente aperti. Non vi è alcun rischio di cambio nel
trasferire capitali da un Paese all’altro, nell’ambito di tale zona e,
peraltro, non esiste alcun controllo del movimento degli stessi. Basta un
minimo di differenziale di reputazione e credibilità fra un Paese dell’eurozona
e l’altro per indurre spostamenti di capitali che solo un più alto tasso di
interesse offerto ai creditori, da parte dello Stato meno credibile, può
frenare.
Se questa è la realtà, è chiaro
che per uscire dalla trappola ci sono solo quattro strade possibili.
Analizziamole:
1) La
deflazione interna tramite politiche di austerità finanziaria a carico dei
Paesi più indebitati, per portarne il livello di credibilità vis-à-vis dei
mercati su quello dei Paesi meno indebitati dell’area. E’ la strada imposta dai
trattati europei e dal fiscal compact. Essa mira a omogeneizzare i livelli di
credibilità imponendo allo Stato più indebitato politiche di controllo delle
proprie finanze pubbliche e di riduzione dei costi interni di produzione,
quindi dei prezzi, e dunque dei tassi di interesse, che sono correlati alla
struttura dei prezzi. Questa strada è ovviamente perdente: la deflazione
esercita tendenze al ribasso sui tassi di interesse solo a lungo termine,
nell’immediato aumenta il tasso di interesse reale (cioè il rapporto fra tasso
nominale ed inflazione) quindi l’onere reale a carico del Tesoro per sostenere
il debito pubblico, e, abbattendo i salari, comprime la crescita e quindi
aumenta il debito pubblico stesso, per il minor gettito fiscale e il maggior
ricorso agli stabilizzatori automatici. Inoltre, essa non azzera completamente
il differenziale di credibilità fra Stati più indebitati e Stati più “virtuosi”
nell’ambito dell’eurozona. In condizioni in cui le frontiere sono completamente
aperte, basta anche tale minimo differenziale di credibilità residuo per
generare amplissimi movimenti di capitale. Tale strada porta dritti al default;
2) L’uscita
immediata dall’euro, finalizzata a ripristinare la barriera valutaria ai
movimenti di capitale. Tale strada, se non concertata e unilaterale, è
catastrofica perché azzera la credibilità del Paese debitore presso i mercati,
comportando una fuga di capitali, porta ad una fiammata dei tassi di interesse
e impone al Paese debitore di pagare la quota del suo debito estero in euro,
acquistando gli euro con la valuta nazionale svalutata, il che si traduce in un
aumento del costo del rimborso del debito estero;
3) La
messa in comune dei debiti pubblici nazionali tramite un fondo di
mutualizzazione degli stessi, che azzera per definizione i differenziali
interni di credibilità fra i debiti nazionali, riportandoli ad unità, in un
unico debito garantito da un’entità politica superiore. Tale strada è
ovviamente politicamente impraticabile, per via dell’ostilità della Germania, e
perché sarebbe necessario un rapidissimo processo di integrazione politica
europea, per avere il soggetto istituzionale in grado di garantire il debito
comune. Un effetto analogo sarebbe legato all’eventuale concessione di licenza
bancaria all’ESM, che ne permetterebbe l’acquisto di titoli del debito pubblico
dei PIIGS, di fatto “monetizzandolo” e mettendolo così, per la parte
acquistata, in comune. Naturalmente la Germania è fortemente contraria anche
alla concessione della licenza bancaria all’ESM. Altre soluzioni, come una
parziale messa in comune del debito inferiore all’anno per effettuare
investimenti strategici, oppure un redemption fund sul solo servizio del
debito, accompagnato peraltro da severe condizionalità che renderebbero ancor
più dura l’austerità economica richiesta agli Stati iper-indebitati, sarebbero
insufficienti, se non addirittura dannose, posto che gli effetti recessivi
dell’austerità supererebbero il sollievo parziale sul pagamento degli interessi
del debito ;
4) La
messa in pista dell’unione bancaria europea, ovvero di un meccanismo comune di
sorveglianza bancaria che adotti gli stessi criteri sull’intero sistema
creditizio e finanziario europeo. Tale meccanismo azzererebbe i differenziali
di credibilità fra Stati, perché le regole di vigilanza comuni eviterebbero di
avere crack a livello nazionale di istituti bancari o finanziari motivati
dall’esigenza di assorbire titoli del debito pubblico nazionale considerati
“spazzatura”. La politica monetaria comune e la sorveglianza bancaria comune
consentirebbero di garantire ai mercati che ogni Stato membro, a prescindere
dal suo livello di debito pubblico, adotterebbe gli stessi comportamenti nella
gestione del debito stesso (ed in particolare nella quota che viene monetizzata
ed in quella che viene assorbita dalle banche nazionali).
La quarta soluzione, secondo il
professore di Tokio, dovrebbe quindi garantire il calo dello spread, fino ad un
suo virtuale azzeramento, senza bisogno di politiche di austerità, che
potrebbero quindi essere abbandonate, tornando a fare politiche di spesa per la
crescita delle economie e dell’occupazione.
Tutto qui?
Ovviamente no. Non vi è dubbio
che l’unione bancaria comporti benefici enormi soprattutto per quei PIIGS, come
l’Italia, il cui problema non è tanto quello di una fragilità del sistema
creditizio (che pure c’è, ma in misura minore rispetto alla Spagna) ma quello
di un debito pubblico astronomico. Però una unione bancaria con l’efficacia
descritta dal prof. Takemori dovrebbe avere perlomeno le seguenti
caratteristiche:
-
Essere omnicomprensiva. Al contrario, il
progetto di unione bancaria che si sta portando a compimento, su pressione
tedesca, riguarda solo le grandi banche di rilevanza sistemica, lasciando alle
Autorità nazionali la vigilanza sulle banche medio/piccole che, specie in Paesi
come la Germania, sono costituite da una rete di landesbanken notoriamente in
grande difficoltà patrimoniale e finanziaria;
-
Essere credibile. E’ però molto difficile
credere che gli stress test condotti su Kommerzbank saranno di egual severità
di quelli condotti su Unicredit, benché notoriamente Kommerzbank sia una banca
in forte difficoltà.
In alternativa, un’unione
bancaria che non possedesse i requisiti sopra descritti, per “unwillingness”
della Germania, potrebbe prevedere una soluzione di compromesso: un’unione
bancaria “debole”, come desiderano i tedeschi, accompagnata però da un
meccanismo comune di garanzia sul debito pubblico sovrano nazionale, da erogare
soltanto in caso di default nel rimborso delle quote di debito sovrano,
utilizzando 116 dei 650 miliardi di dotazione dell’ESM (corrispondenti al 17,9%, cioè alla percentuale che l’Italia ha
versato a detto fondo) come garanzia per l’eventuale default del debito sovrano
italiano, con norme molto restrittive di condizionalità nel caso in cui tale
garanzia fosse attivata anche solo in parte. Evidentemente, una garanzia
pubblica europea sul pagamento del nostro debito nazionale ridurrebbe
notevolmente il cosiddetto “rollover risk” per i creditori, e quindi
comporterebbe una riduzione del tasso di interesse, che è, come tutti sappiamo,
un premio per il rischio di investimento.
Detto questo,
servirebbe qualcos’altro per portarci fuori dal guado. Un’altra caratteristica
fondamentale del debito pubblico giapponese, che il prof. Takemori, non ha citato,
è che esso è quasi interamente detenuto da soggetti residenti (solo l’8% circa
è detenuto da stranieri), mentre in Italia viaggiamo attorno al 35%. Un debito
pubblico che è quasi interamente detenuto da soggetti residenti tarpa le ali,
in partenza, ad ogni possibile rischio di speculazione finanziaria, mantenendo
quindi bassi i tassi di interesse, e consentendo di adottare politiche
economiche espansive (mentre la monetizzazione del debito consentita dall’avere
una Banca Centrale nazionale è un argomento molto più debole, nella misura in
cui fra gennaio e settembre 2013 la crescita dell’offerta di massa monetaria M3
in Giappone è stata pari ad appena il 2%, in presenza però di una forte
deflazione nei primi cinque mesi dell’anno, che ovviamente andava combattuta
con un allentamento delle condizioni monetarie (peraltro piuttosto contenuto).
Ne segue che,
accanto ad un compromesso politico con la Germania, che preveda un’unione
bancaria parziale, che integri un compromesso sull’utilizzo della quota italiana
dell’ESM come garanzia pubblica accompagnata da eventuali penalizzazioni in
termini di condizionalità, per l’Italia
sarebbe necessario affiancare un intervento di riduzione del peso del debito
estero su quello pubblico totale.
Come già esprimevo in un articolo di qualche
tempo fa (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/08/il-punto-di-equilibrio-fra-rigore-e.html
). “Ciò che quindi occorre mettere in sicurezza, per uscire dagli attuali
livelli di spread generati dai dubbi dei mercati finanziari globali circa la
solvibilità del Tesoro italiano, è soltanto il 35% del debito pubblico totale.
Il debito interno è infatti gestibile, intanto, con politiche sul ciclo di stop
and go. In caso di emergenza, poi, il debito interno può essere gestito con
strumenti straordinari, come per esempio sistemi di prestito forzoso a carico
dei redditi piu' alti, o norme che impongono allungamenti delle scadenze a
parità di valore nominale (comportando quindi di fatto un haircut sul valore
attualizzato del debito). Tutte cose che
possono essere imposte per legge ai creditori interni, ma non certo a quelli
esteri.
Quindi,
intanto, un fiscal compact adeguato per il nostro Paese non dovrebbe prevedere,
come nella versione attuale, una riduzione di 71 e più punti di rapporto fra
debito pubblico e PIL in 20 anni, ma al massimo una riduzione di soli 46 punti
di tale rapporto sullo stesso arco di tempo (ovvero il valore del rapporto fra
quota di debito pubblico detenuto da soggetti esteri e PIL stimato per il
2013), con manovre finanziarie molto meno recessive, rispetto a quelle attuali.
Si tratterebbe (stimando un incremento medio annuo del PIL pari all’1,5% nei
prossimi 20 anni) di risparmiare 112 miliardi di maggiori tasse o minori spese
nell’arco dei prossimi 20 anni, ovvero di avere leggi di stabilità più leggere
per circa 5,6 miliardi all’anno.
Ma quanto
detto sopra è persino troppo conservativo: sarebbe possibile pagare ogni anno
una rata di debito estero pari a 19 miliardi di euro tramite un prelievo del 2%
sulle attività nette detenute dal 10% delle famiglie italiane più ricche (dato
Bankitalia) o addirittura, come suggerisce Renato Costanzo Gatti sulla base della
legge di Bowley, una patrimoniale più consistente associandovi, se le
condizioni politiche lo consentissero, una parziale sostituzione di debito
estero con maggiore debito interno. Anziché ripagare integralmente i 720
miliardi circa di debito pubblico estero tramite manovre finanziarie
restrittive, proprio perché il problema del debito pubblico è incentrato sulla
componente estera, si potrebbe aumentare, in parte, l'esposizione con soggetti
residenti, per rimborsare quelli non residenti, e quindi liberare risorse per
tornare a fare politiche economiche espansive, che a loro volta genereranno
ulteriori riduzioni di disavanzi e quindi di debito, tramite il conseguente
aumento di gettito fiscale. Ma naturalmente ciò comporterebbe l’eliminazione
del vincolo di pareggio di bilancio dalla Costituzione, o una sua consapevole
violazione perlomeno nei primi anni (perché nei primi anni il debito interno
“forzoso” costerebbe di più, in termini di tasso di interesse, del debito
estero che a scadenza si andrebbe a ripagare) e quindi il parziale superamento
dei trattati europei restrittivi.
La combinazione fra un’unione bancaria anche
debole, ma con strumenti di garanzia europea sul pagamento del debito pubblico
italiano, e di uno sforzo per estinguere la componente estera del nostro
debito, ci potrebbe quindi portare, gradualmente, nel giro di 4 o 5 anni, ad
una riduzione costante del servizio del debito, e, nell’immediato, ad una
liberazione di risorse per favorire la crescita, via via sempre più importante
e crescente negli anni (piccola nei primi anni, perché la liberazione di
risorse derivante dal pagamento del solo debito estero sarebbe in parte
compensata dai più alti tassi di interesse del debito interno di sostituzione).
Il tutto senza uscire dall’euro unilateralmente, e senza chiedere impossibili
mutualizzazioni del debito pubblico sovrano, che non sono politicamente
realizzabili, se non in minima parte.
L’attuazione
immediata del previsto fondo di riequilibrio degli scompensi macroeconomici
asimmetrici, già prevista in una bozza di comunicazione del Parlamento Europeo
alla Commissione ed al Consiglio Europeo (COM 690/2013), ma solo per il lungo
termine (e che quindi andrebbe anticipato) e dello scorporo dal Patto di
Stabilità, già previsto dall’accordo del 2012, di talune categorie di
investimenti pubblici nazionali (nella scuola, nella ricerca ed innovazione,
nelle infrastrutture strategiche, ad iniziare dalla banda larga)
completerebbero il quadro di un deciso rilancio al di fuori della crisi
economica, riavviando un percorso di crescita e, dunque, di riduzione del peso
del debito pubblico, che è endogeno al ciclo.
Nessun commento:
Posta un commento