CALCIO
FUORI CONTROLLO: SINDROME
CINESE
O SINTOMO DI UNA PESTILENZA GLOBALE?
di
Norberto
Fragiacomo
La
notizia è che il governo cinese pare averne abbastanza delle
“follie” delle società calcistiche locali: l’invito perentorio
è a darsi una regolata, perché starebbero “bruciando denaro”.
Visti
le circostanze e il mittente è probabile che l’invito venga
raccolto, anche perché di fuoriclasse o presunti tali da coprire
d’oro in giro ne sono rimasti pochini, e le due o tre stelle di
prima grandezza appaiono insensibili alle lusinghe orientali:
Cristiano Ronaldo, in procinto di rivincere il Pallone d’oro, ha
detto no a uno stipendio annuo di 100 milioni, e anche Messi sembra
preferire il calcio europeo a questa sua inverosimile imitazione in
salsa kitsch.
La
questione però è un’altra: siamo di fronte a una patologia
localizzata oppure no? Cioè: i cinesi sono vittime di un’ubriacatura
da euro facili o queste operazioni hanno un senso, per quanto possano
disgustare l’osservatore?
A
prima vista la tesi dell’impazzimento sembra fondata: creare una
superlega in un Paese senza tradizione calcistica, confinato a sua
volta in un continente dove al massimo si può vincere una coppetta
di latta battendo iraniani e kuwaitiani è sportivamente un nonsenso.
A considerare l’evoluzione storica, però, le certezze si
incrinano: Eric Hobsbawn ci racconta che, negli anni ‘20, i
calciatori professionisti guadagnavano in Inghilterra poco più di un
operaio specializzato, ma già nei primi anni ‘50, in un’Italia
alla vigilia del boom e ancora poverissima, Achille Lauro paga 150
milioni per assicurarsi le prestazioni dello svedese Jeppson, che
sarà perciò soprannominato ‘o Banco ‘e Napule, e trent’anni
dopo saranno gli ingaggi faraonici versati dalle società a garantire
un decennio di incontrastata supremazia in Europa al calcio italiano.
I compensi diverranno stratosferici col nuovo secolo, grazie
all’impegno delle pay tv e di magnati ben più danarosi di
Berlusconi che restituiranno appeal e prestigio al campionato
inglese, oltre che – naturalmente – alle grandi di Spagna. Tutti
folli allora, non solamente i cinesi… pazzi Lauro, Berlusconi, gli
emiri, i miliardari russi – pazzi senza manco l’attenuante della
passione, poiché nel monotono calcio odierno è impossibile
l’exploit di una provinciale in Europa (si pensi allo Slovan
Bratislava vincitore della Coppe delle Coppe del ‘69, o anche al
Porto dei primi anni ‘80), viste le siderali differenze di budget
tra le squadre davvero ricche e quelle di seconda fascia, che sono
poi tutte le altre. Oggi Barcellona-Celtic 7-0 è un risultato
normale,
che rispecchia il divario fra i due club: una Tipo non può lasciarsi
alle spalle una Ferrari.
Lo
scopo di questo apparente scialo non è quello di migliorare lo
spettacolo, anzi dello spettacolo non frega più niente a nessuno,
finanziatori in testa: ovunque gli stadi si svuotano e le partite in
tv non attirano più spettatori di un tempo, anche perché – in
tempi di crisi e stipendi a picco – non tutti possono permettersi
il lusso di costosi abbonamenti. Eppure si spende e si spande, anche
se non con la prodigalità dei cinesi: come mai? Banalmente perché
investire nel mondo del calcio conviene:
il pallone è un prodotto
civetta
che serve a vendere un’infinità di altri beni e servizi. Cristiano
Ronaldo non è solo una formidabile ala: è un brand
associabile a profumi, calzature, vestiario, articoli di lusso. Se
CR7 introita 79,6 milioni di euro l’anno (questi i suoi guadagni
complessivi nel 2014 – fonte Wikipedia) significa che a chi lo paga
assicura un giro d’affari grandemente superiore alla sua quota di
spettanza. A leggere determinate cifre ci indigniamo, ma reagendo
così precipitiamo in un equivoco: al pari di un macchinario o di una
procedura innovativa CRT è una risorsa produttiva – che si tratti
di una “risorsa umana” è di poco rilievo, del suo mondo
interiore (ammesso che ne abbia uno) agli sponsor non importa un fico
secco.
In
realtà, il quotidiano richiamo al concetto di produttività
(individuale, collettiva ecc.), autentico imperativo categorico del
presente, ci ricorda che siamo tutti risorse: a determinare i nostri
proventi sono l’utilità che ci assegna il mercato, la nostra
fungibilità o (relativa) infungibilità. Nel loro ruolo di
testimonial (non di calciatori) CR7 e Lionel Messi sono più o meno
insostituibili a livello globale1,
ed hanno pertanto un invidiabile potere contrattuale – il giovane
laureato no, e quindi può essere pagato con i voucher e licenziato
tramite mail. Adamo Smith, il profeta del libero mercato, asserendo
che il salario andrebbe parametrato, fra l’altro, al grado
raggiunto negli studi si dimostrava a ben vedere un utopista: se in
un dato momento al Capitale servisse uno spazzino sarebbe disposto a
pagarlo dieci volte di più dello stipendio di un magistrato o di un
medico generico.
Lo
spirito dei tempi è colto senza buonismi e ipocrisie in una recente
sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione (sent. 25201 del 7
dicembre scorso), che testualmente afferma: “Ai
fini
della
legittimità del licenziamento
individuale intimato per giustificato motivo oggettivo, l'andamento
economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto
fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare
ed il giudice accertare, essendo
sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed
all'organizzazione del lavoro,
tra
le quali non è possibile escludere
quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un
incremento della redditività dell'impresa,
determinino
un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo
attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.
Intendiamoci,
si tratta di un verdetto obbrobrioso che, dal punto di vista
strettamente giuridico, denota scarsa conoscenza dei principi
costituzionali: l’iniziativa privata è tendenzialmente “libera”
(art. 41) ma condizionata e in fondo strumentale, e le esigenze di
profitto dell’imprenditore mai possono prevalere sul diritto al
lavoro, su cui si fonda la Repubblica democratica (art. 1) –
tuttavia, esso fotografa la mentalità e i rapporti di forza
esistenti nella società odierna. La logica delle “risorse umane”,
che in passato ho paragonato agli instrumenta
vocalia
ciceroniani (gli schiavi), degrada noi tutti a strumenti
intercambiabili e accantonabili a piacimento, e gli strumenti –
dovremmo saperlo – non vantano diritti. Attenzione, neppure il
bolso Tevez, che intascherà 38 milioni l’anno2
a Shanghai per qualche assist, vanta dei “diritti”: la cifra
esorbitante è nient’altro che il corrispettivo per l’utilità
economica che egli sarà presumibilmente in grado di apportare a chi
scuce i soldi. Può darsi che il calcolo si riveli errato, ma sempre
di calcolo si tratta…
La
mia conclusione è che laggiù nessuno è impazzito: business
is business,
ciascuno di noi ha un prezzo di mercato, una redditività valutabile
secondo schemi prestabiliti. Il problema non è tanto il “prezzo”,
bensì
il mercato in sé,
che persino ai più fortunati nega la dignità di esseri umani. Non
possiamo stupirci se, in questa temperie economico-culturale, interi
Paesi (v. la Grecia) vengono spolpati senza pietà e i diritti di
miliardi di uomini e donne calpestati e distrutti: gli esiti sono
perfettamente coerenti con le premesse.
Il
Capitalismo è un’ideologia fondata sulla predazione più brutale,
sul cinismo e la totale assenza di etica: l’idea di riformarlo
facendo ricorso a meccanismi di persuasione è tanto sensata quanto
quella di convertire i leoni al veganesimo.
Quella
che scambiamo per follia è soltanto sovrano disprezzo per un’umanità
ridotta a numeri e, di conseguenza, messa freddamente a bilancio.
1 A
suo tempo lo era perfino Beckham, centrocampista di qualità non
eccelse ma dalla faccia da attore.
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