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martedì 24 gennaio 2017

IL CONFLITTO IN SIRIA VERSO UNA IMMINENTE CONCLUSIONE. LA RUSSIA NUOVO PROTAGONISTA DI PRIMO PIANO IN MEDIO ORIENTE. di Giuseppe Angiuli




                 

                          


IL CONFLITTO IN SIRIA VERSO UNA IMMINENTE CONCLUSIONE. 
LA RUSSIA NUOVO PROTAGONISTA DI PRIMO PIANO IN MEDIO ORIENTE.

di Giuseppe Angiuli



Alla fine del 2016, il sanguinoso conflitto che da quasi sei anni investe la Siria è parso essere giunto ad una svolta decisiva con la completa liberazione di Aleppo da parte dell’Esercito Arabo Siriano, che ha costretto alla resa gli ultimi componenti del vasto arcipelago jihadista da tempo asserragliati nella zona orientale di quella città che, fino allo scoppio della guerra, era il polmone industriale del Paese.
La probabile imminente fine di questa guerra, che sta vivendo il suo momento culminante anche in conseguenza della recente affermazione di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, ci impone di provare a fare un po’ di chiarezza sui reali contorni di questa importante vicenda geopolitica, tenendo conto che, come ammoniva George Orwell, ogniqualvolta scoppia una guerra, la prima vittima a morire è sempre la verità.
In questi ultimi sei anni, la nazione siriana, da tanti decenni bastione del nazionalismo laico-socialista all’interno del mondo arabo, ha subito un’aggressione politico-militare di proporzioni mastodontiche, che ha visto coinvolti, quali attori protagonisti ancorchè recitanti solo da dietro le quinte, i principali governi dell’occidente, a cominciare da quello degli Stati Uniti d’America, oltre alle petromonarchie del Golfo ed alla Turchia.
Com’è noto, la fase di destabilizzazione della Siria è iniziata nel febbraio del 2011 con la cosiddetta operazione delle “Primavere arabe”, una strategia elaborata dall’amministrazione Obama ma con l’appoggio e la condivisione anche dei settori neocons dell’establishment nordamericano.
E’ bene essere tutti consapevoli di come tale operazione, nonostante sia stata descritta dai massmedia occidentali e da Al Jazeera come una rivolta popolare spontanea, in realtà era stata concepita fin dal principio all’interno di ben determinati centri strategici occidentali come una larga operazione di destabilizzazione del medio oriente.
Alla fine dell’estate del 2015, dopo 4 anni e mezzo di intensi combattimenti sul campo, il legittimo Governo siriano guidato dal leader baathista moderato Bashar al Assad si è reso consapevole dell’impossibilità per il suo esercito di tenere testa al vasto arcipelago di gruppi di miliziani islamisti radicali che avevano invaso il territorio della nazione araba fin dal 2011 su mandato dei governi di U.S.A., Francia, Gran Bretagna, Turchia, Qatar e Arabia Saudita e con un malcelato appoggio da parte di Israele.
Le ragioni di tale perdurante impossibilità, per l’Esercito Arabo Siriano, di riuscire a fronteggiare da solo le milizie islamiste, sono state essenzialmente due: in primo luogo, il numero massiccio degli insorti, pari a molte decine di migliaia di unità (mai esattamente stimate, data la natura irregolare o “coperta” delle stesse milizie islamiste) e reclutati da un gran numero di Paesi stranieri tra cui Libia, Tunisia, Yemen, Arabia Saudita, Kossovo, Afghanistan, Pakistan, Cecenia; in secondo luogo, la indubbia capacità degli islamisti di impegnare l’esercito di Damasco contemporaneamente su più fronti, quale conseguenza del fatto che essi sono riusciti per un lungo tempo ad infiltrarsi nel territorio siriano da più parti, dal confine giordano a quello libanese, da quello turco a quello con l’Iraq.
Dopo un lungo periodo di grandi difficoltà per l’esercito di Assad, le sorti della guerra sono mutate di 180 gradi soltanto nel settembre 2015, allorquando il governo russo, su richiesta del governo di Damasco, ha preso la decisione di intervenire direttamente nel conflitto con massicci bombardamenti dai cieli su tutte le postazioni delle formazioni islamiste, a cominciare dall’ISIS e dal Fronte Jabath al Nusra.
Il dispiegamento militare di Mosca nel conflitto siriano, che non ha precedenti per intensità nella storia di questi ultimi 30 anni, unito ad un’opera di abile tessitura politico-diplomatica da parte di Putin, ha ribaltato clamorosamente le sorti del conflitto a tutto vantaggio delle truppe regolari siriane ed ha permesso ai russi di ripresentarsi sullo scenario globale con un ruolo di inedito protagonismo geopolitico, costringendo l’occidente ed il mondo intero, per la prima volta dal 1991, a dovere fare seriamente i conti con loro.





Si è detto che nel mese di dicembre 2016, con la completa liberazione di Aleppo, la guerra è sembrata essere giunta finalmente ad una svolta decisiva, consentendo al governo di Assad di recuperare il controllo sulla seconda città più importante della nazione, la cui zona orientale per circa 4 anni era finita sotto l’egida di milizie islamiste ben decise ad imporre la legge della sharìa islamica a tutta la popolazione, nonostante che ad Aleppo sia da 2.000 anni fiorente una cospicua comunità cristiana.
La reale natura del conflitto siriano quale atto proditorio di aggressione ad uno Stato-nazione sovrano non ha potuto più essere negata allorquando il 16 dicembre 2016, nelle fasi culminanti della liberazione di Aleppo, è stato scoperto un centro di comando, allestito segretamente in un bunker-scantinato nella parte est della città, al cui interno sono stati sorpresi ufficiali della NATO e diversi membri di forze speciali di nazionalità statunitense, turca, israeliana, giordana e saudita, tutti aventi funzione di consiglieri militari coperti per i miliziani islamisti assedianti il territorio siriano[1].
Non si può altresì negare che, a favorire tanto il cessate il fuoco ad Aleppo quanto la conseguente ed assai probabile stabilizzazione pacifica in tutto il Paese, ha senz’altro contribuito la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali nordamericane del 9 novembre 2016: il neo-eletto Presidente U.S.A., infatti, dopo avere accusato apertamente Hillary Clinton di avere armato e finanziato l’ISIS e le altre formazioni legate ad Al Qaeda, appare oggi assai deciso nella sua volontà di mutare di 180 gradi la politica estera del suo predecessore Obama, a cominciare da un inesorabile ritiro di Washington dalla regione medio-orientale e da una distensione negoziata con la Russia su tutti i dossier principali aperti in agenda, senza escludere il possibile ritiro delle sanzioni verso Mosca a cui tutta l’Unione Europea, su diktat di Obama, si era placidamente allineata.
Pertanto, volendo provare a tirare le somme sulla complessa vicenda siriana da un punto di vista geopolitico, va detto che la prossima, probabile ed imminente conclusione della guerra vedrà come assoluto protagonista vincente Vladimir Putin, il quale, oltre ad avere avuto la meglio da un punto di vista militare in un difficile ed intricato conflitto regionale, è altresì riuscito nell’impresa di fare assurgere la Russia al ruolo inedito di attore protagonista di primo piano in tutto il medio oriente.
Tale ruolo di Mosca sarà sancito dall’imminente svolgimento dei negoziati di pace in programma il prossimo 23 gennaio ad Astana, in Kazakistan, che vedranno la partecipazione del governo siriano e delle opposizioni che hanno accettato di aderire al cessate il fuoco, il tutto sotto il patrocinio dei governi di Mosca, Ankara e Teheran.
Volendo elencare i recenti successi geopolitici di Mosca, andando nell’ordine, Putin ha avuto la meglio anzitutto per avere saputo creare un’efficiente struttura di informazione e coordinamento militare nelle operazioni in Siria, insediata a Baghdad nel settembre 2015, a cui hanno preso parte i governi dell’Iraq, dell’Iran e della stessa Siria, oltre ai responsabili del movimento politico-militare sciita libanese Hezbollah, anch’essi protagonisti attivi sul campo a sostegno del governo e dell’esercito di Assad: l’ottimo funzionamento di tale struttura di comando integrato, unito alla qualità tecnologica degli armamenti russi, sembra avere posto le basi per una futura e solida alleanza politico-militare tra il governo russo e le suddette entità, senza trascurare che, da ultimo, anche l’Egitto del maresciallo Al Sisi ha manifestato il suo interesse ad una sempre maggiore cooperazione politico-militare con Mosca.
In secondo luogo, va evidenziato che Putin è riuscito a convincere con toni fermi il recalcitrante Benjamin Netanyahu a non interferire con le operazioni russe nel territorio siriano, di fatto costringendo Israele a riconoscere la supremazia della Russia nell’intera regione del vicino oriente.
Ma il più grosso capolavoro politico-diplomatico Putin lo ha compiuto con il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, già sponsor in prima fila dell’ISIS e degli aggressori islamisti della Siria: resosi conto che il suo appoggio all’islamismo wahabita avrebbe potuto ritorcersi in futuro contro la stessa Turchia e reso edotto dei piani nordamericani tesi a favorire la nascita di un nuovo Stato curdo indipendente nei territori a cavallo tra Siria e Turchia, Erdogan ha improvvisamente mutato di 180 gradi il suo orientamento in politica estera, innescando un clamoroso disallineamento del suo Paese dalle direttive dell’alleanza atlantica.
Infine, per ammansire la monarchia assoluta del Qatar, Putin ha offerto al governo del piccolo Stato del Golfo Persico una proposta a cui non si poteva rinunciare: in cambio della sua cessazione dell’appoggio ai miliziani islamisti attivi in Siria, la petromonarchia del Qatar ha recentemente accettato di acquisire la quota di un quinto delle azioni della Rosneft, la grande compagnia energetica controllata dal governo russo.
Nel contesto descritto, se il neo-eletto Presidente americano Donald Trump dovesse effettivamente confermare le sue ventilate idee circa un ordinato ritiro statunitense dal medio oriente e, più in generale, di una netta riduzione della proiezione di Washington al di fuori dei propri confini nazionali, si profilerebbe una inedita fase geopolitica in cui sarà la Russia di Putin a vedere sempre più in ascesa la sua influenza in una regione, quella medio-orientale, il cui controllo risulta da tempo decisivo per le sorti del mondo.

L’allora segretario del PD Pierluigi Bersani nel 2012 ad una manifestazione a sostegno delle fazioni islamiste operanti in Siria


In tutto ciò, stupiscono non poco la passività, la miopia politica e l’assenza di lungimiranza dell’attuale classe dirigente governativa italiana, specie di quella legata al Partito Democratico, che fin dalle prime fasi della crisi siriana, al solo fine di compiacere Obama, ha sposato una discutibilissima ed incauta linea di appoggio acritico ed incondizionato a tutte le fazioni del ribellismo islamista ossia a quelle fazioni che, in assenza dell’intervento russo nel conflitto, avrebbero rischiato di trasformare la Siria, una delle più antiche e gloriose civiltà del mondo, culla del cristianesimo, in un califfato medievale basato sulle leggi della sharìa.
Risorgimento Socialista, da questo punto di vista, auspica che l’Italia possa il prima possibile riscoprire la sua nobile tradizione di soggetto mediatore ed attento interlocutore dei vari attori in politica estera, specie nell’area mediterranea a noi prossima, riprendendo quel ruolo autorevole che il nostro Paese aveva  in tempi ormai non più vicini, in cui a dominare la scena vi erano statisti del calibro di Enrico Mattei, Aldo Moro e Bettino Craxi.




Giuseppe Angiuli
Responsabile Esteri per Risorgimento Socialista



                                                                                        
                                                                                             

          

[1] Fonte: http://www.voltairenet.org/article194622.html.

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