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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 27 dicembre 2016

CONVERSAZIONI POLACCHE di Norberto Fragiacomo





CONVERSAZIONI POLACCHE

di

Norberto Fragiacomo





Varsavia, dicembre inoltrato.

Altro che “dormitorio”! Il distretto semiperiferico di Wilanów è zona residenziale di lusso: condomini nuovi di zecca con giardini interni e caseggiati ancora in costruzione dominano ampi viali, che si intersecano ad angolo retto. Il traffico è discreto, tutto tace. Negli appartamenti il livello delle finiture è di prim’ordine: le maniglie che ti restavano in mano e le porte refrattarie a chiudersi sono solamente un ricordo, il ricordo di un’epoca aborrita e rimossa. Inutile puntualizzare che i garage rigurgitano di BMW e suv orientali. Se poi dagli attici si scende in strada, complice un ascensore rapidissimo, le sorprese continuano: i negozi sono innumerevoli, quelli di specialità italiane espongono vini di nicchia (il Pignolo e lo Schioppettino, due pregevoli friulani che è raro trovare a Trieste!) e Sassicaia da 240 euro. C’è chi può permetterselo, evidentemente: non certo un dipendente pubblico italiano in viaggio, che pure guadagna molto di più del lavoratore polacco medio (1).


In questa Nowa Huta del regime capitalista non mancano tuttavia le ombre: una è quella gigantesca del centro commerciale (l’ennesimo) che sorgerà di fronte all’antica reggia di Jan Sobieski, nascondendola alla vista. Sono in molti a storcere giustamente il naso, ma è un segno dei tempi: ecco a voi la nuova “Europa” – quella delle lobby e della libera circolazione dei capitali – che sommerge e divora la vecchia. Gli stucchi del palazzo barocco, le effigi del grande sovrano circondato dai suoi ministri e la memoria degli ussari alati non incutono alcun rispetto alla plebaglia arricchita che misura ogni cosa col metro della produttività e del profitto.





Cantieri ovunque insomma, come da noi 40-50 anni fa (e in Spagna a fine secolo scorso), per il resto sembra di essere a casa: biondi ragazzini si ingobbiscono sullo smartphone rischiando di incespicare mentre camminano, donne vestite all’ultima moda sorseggiano un caffè al bar all’angolo. Contro l’orizzonte di questa borghesissima Varsavia si staglia la cupola fluorescente di un’immensa chiesa inaugurata nel 2014: mi par di intendere che si tratti di una specie di ex voto, una preghiera un tantino pretenziosa (ma tutt’altro che sgradevole alla vista) innalzata a un Dio che, da parte sua, ha il gravoso compito di proteggere la Polonia dalle brame russe. Visto che nei secoli trascorsi l’Altissimo si è spesso distratto, i polacchi hanno pensato bene di offrire la corona regale al Figliolo, che per il momento (a differenza di quanto avvenne nel deserto due millenni fa) non ha rifiutato né accettato. Singolare però che i più devoti fra i cattolici abbiano scelto, certo del tutto inconsciamente, di imitare il Nemico…


Il boom economico si appoggia sull’edilizia, dunque – quella privata, perché per realizzare le infrastrutture si aspettano i soldi di Bruxelles, da cambiare in sonanti zloty. Se non altro, però, la Polonia non è più un Paese a segmenti: dalla capitale si irradiano comode autostrade verso i quattro punti cardinali. Contrariamente alle aspettative, non fa manco freddo: il termometro danza intorno allo zero, come sul Carso, e i pochi fiocchi di neve si liquefano in una pioggia insistente e fastidiosa.


Uno sguardo, per quanto attento, non basta però a cogliere l’essenza di un Paese che muta velocemente: aiutano molto le conversazioni con persone amiche e con altre che possono diventarlo. Bisogna scendere sotto la superficie delle cose, scansare i giudizi stereotipati e le frasi di rito: una ragazza intelligente, nata in giorni di instabilità politica e sociale, ammette senza reticenze che il comunismo ha avuto parecchi meriti, tra cui quello di aprire ai figli di contadini miserabili le porte delle università. A sera discorro con un professore di scienze politiche, che traduce il suo nome pieno di consonanti in un desueto Cristoforo: è stato addetto culturale a Roma e si esprime in un italiano pressoché perfetto. Parliamo di Garibaldi e di Craxi, dell’eterna ingerenza delle grandi potenze nella vita di quelle piccole; alla fine la discussione (s)cade sul governo Renzi. Gli regalo una copia del mio saggio, magari la leggerà.


L’incontro clou, organizzato per tempo, è quello con i dirigenti di RAZEM (=Insieme), la nuova sinistra che dichiaratamente s’ispira agli spagnoli di Podemos. Ho letto un’intervista al suo leader, il quarantenne Zandberg: mi sono piaciuti alcuni giudizi sferzanti sull’Unione Europea e sui postcomunisti, che anche qui come in Italia si son dimostrati i più servili esecutori delle politiche neoliberiste; confido in un proficuo scambio di idee. La sede del neonato partito è in un’anonima via del centro di Varsavia, a poche decine di metri da quel parlamento che in questa stessa settimana sarà lungamente assediato da una folla di manifestanti ostili al PiS (il partito nazionalclericale al governo) in nome della difesa della libertà di stampa. Un format di successo, e perciò esportabile anche qui? L’impressione, a vedere le immagini in tv, è che i cittadini siano convinti della giustezza della loro causa; con il PiS del Kaczynski superstite, Jaroslaw, sta però la Polonia profonda, quella che sopravvive in cittadine avvilite dall’incuria o trae sostentamento dai campi e da lavori sottopagati.

Entriamo in quello che sembra un bivacco alpino, non fosse per i computer accesi ovunque: regna un disordine “creativo”, c’è persino un militante che – alle 2 del pomeriggio – si riposa in un sacco a pelo. Tutti giovani, però, come in Spagna e in Slovenia: la nuova sinistra europea ha un volto trentenne. Faccio un triste raffronto con le nostre assemblee, popolate da ammirevoli vecchi compagni, poi mi dico che anche SeL iniziò come questi qua, esibendo i ragazzini delle Fabbriche di Nichi – sappiamo com’è andata a finire, grandi chiacchiere sui diritti civili e strameritata irrilevanza. RAZEM, comunque, alle prime elezioni cui ha partecipato ha raggiunto un lusinghiero 3,5%, sfiorando l’ingresso al Sejm: è un fenomeno che merita attenzione e rispetto, insomma.






Ci accoglie Maciej Konieczny, il numero due del partito. Ha radi capelli brizzolati e occhi vivaci: gli do qualche anno più di me, pur immaginando che ne abbia di meno. Nel corso dell’intervista/conversazione (ovviamente in inglese) sarà raggiunto da un altro compagno, di nome Radosław, dall’eloquio scoppiettante e più vicino ai venti che ai trenta. Com’è la situazione in Polonia? - esordisco. Konieczny si premura di sfatare un mito: la Chiesa, pur potente, non domina affatto la società polacca, anche se il governo cerca di ingraziarsela accordando privilegi, proprietà ed esenzioni. Dinanzi alle esortazioni di Papa Francesco i prelati fanno orecchie di mercante: dei rifugiati non si parla per nulla (la popolazione in ogni caso non li vuole, sottolinea), i generici appelli alla giustizia sociale non si traducono in una critica al neoliberismo “che non si sente minacciato in Polonia”. Esiste ancora lo Stato sociale? – mi informo. I due esponenti di RAZEM, alternandosi, precisano che la sanità pubblica ancora esiste, ma è in costanti difficoltà finanziarie, per effetto dei tagli a ripetizione (ne sappiamo qualcosa anche noi). Il problema vero è l’assenza di sostegni ai disoccupati, cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione (solita questione delle pensioni). Chi un lavoro ce l’ha non sta granché meglio. I “contratti spazzatura” impazzano, condannando all’indigenza milioni di persone, e i ritmi lavorativi sono davvero insostenibili: la media è 42-43 ore a settimana, soltanto i greci (ma non erano fannulloni?) se la passano peggio. I sindacati (2), poi, sono presenti solo nel pubblico impiego: il lavoratore privato che vi aderisce rischia l’immediata perdita del lavoro grazie a riforme modellate sul Jobs act renziano. E’ vero che il tasso di disoccupazione è contenuto? Certo, rispondono, ma la componente-salari rispetto al GDP è percentualmente molto più bassa che nell’Europa occidentale: siamo a livelli di sfruttamento paragonabili a quelli di Russia o Messico. Il salario minimo esiste, ma 2.000 zloty (=476 euro ca.) lordi al mese sono sinonimo di miseria.


Perché stravince il PiS allora? Perché in queste condizioni i suoi premi a chi fa figli ecc. rappresentano un “huge benefit”, ammette Maciej. E gli altri partiti? Manca una sinistra (a parte loro): gli ex comunisti del SLD sono nient’altro che una forza neoliberale ed europeista, Piattaforma Civica (Tusk, oggi Schetyna: nome di cattivo augurio, direi) si occupa a tempo perso di diritti civili. Hanno provato, quelli di Platforma Obywatelska, a sostenere i diritti degli immigrati, ma vista l’ostilità della popolazione hanno subito fatto marcia indietro. Oggidì le opposizioni, indebolite, provano a creare un fronte comune: ne è espressione il KOD che, in nome della lotta contro l’autoritarismo, mobilita la classe media politicizzata in difesa dello status quo (sociale) (3). Udito che il PiS mescola “un grande cambiamento di prospettiva con visioni autoritarie”, domando provocatoriamente: chi è peggio, il PiS o PO? Per me senz’altro PO, i miei interlocutori sono di opposto avviso (lo sospettavo): Piattaforma è, se non altro, un movimento democratico.


A questo punto non resta che parlare di Unione Europea: provo a esplicitare il mio punto di vista, che scoprirò non essere il loro. Non condividono affatto quello che definiscono l’antieuropeismo delle sinistre occidentali: per loro l’UE è ancora una “forza progressiva”, anche se infettata dal neoliberismo, e in ogni caso è preferibile languire in un’Europa (mal) dominata dai tedeschi che essere alla mercé, come Polonia, di una Germania autonoma e di una Russia straripante. In ossequio alla logica del “male minore”, esprimono preoccupazione per la Brexit e addirittura per il trionfo del NO al referendum di dicembre: “non è stata una vittoria della destra?”, mi chiedono. Ribatto con un secco no: la vera destra da temere in Italia, oggi, è l’oligarchia che sta dietro le politiche (non solo) renziane, non qualche sparuto drappello fascisteggiante.


In ogni caso l’agenda europea non ci piace, ammettono, ma la UE “si può cambiare dall’interno”. “Come?”, chiedo con una punta di ironia. Lottando per l’affermarsi di governi di sinistra in tutta Europa… mi viene in mente una battuta di Abatantuono in Mediterraneo, ma rinuncio a tradurla. Loro in ogni caso con il SLD rifiutano qualsiasi contatto. Giusto, commento… ma a motivare la loro chiusura nei confronti del partito ex comunista non è la sua adesione acritica al neoliberismo, bensì il passato filo-sovietico. Come a dire: ci importa di quello che eravate, non di quello che siete… Nessuno stupore, dunque, per il fatto che la nostra lettura della crisi ucraina sia agli antipodi. Chi è più deleterio per voi tra Putin e Soros?, provoco. La risposta è secca: Putin. Secca, ma evidentemente sbagliata.


Tocca però considerare due aspetti. Il primo è che per i polacchi la Russia è un vicino storicamente scomodo, una minaccia incombente – anche se la loro mi pare una vera ossessione: sembrano essere tutti convinti che il primo pensiero di Vladimir Putin, al risveglio, sia come e quando invadere la Polonia. Il secondo è di ordine geografico: come evidenziato da Paolo Rumiz nel suo Come cavalli che dormono in piedi, il Paese affacciato sul Baltico è una sterminata pianura, priva a oriente e a occidente di catene montuose che fungano da barriere naturali. Ecco allora che affidarsi alla NATO (più che alla sua marionetta politica, la UE) può apparire una scelta assennata. Non comprendono l’ovvio, che cioè la presenza di truppe e missili americani al confine russo rappresenta non un deterrente, bensì un’intollerabile provocazione, e nemmeno che gli Stati Uniti perseguono esclusivamente i propri obiettivi, considerando la Polonia alla stregua di una pedina (sacrificabile). “Ma è possibile un accomodamento con la Russia?” Konieczny sorride senza allegria: sì, se ci si sottomette a loro.


Ferma restando l’importanza delle divergenze, colgo alcuni elementi positivi: la collaborazione con altre forze europee dall’ispirazione simile (ad esempio la promettente Združena Levica slovena di Luka Mesec) e la presenza capillare degli attivisti nelle piazze, che ha favorito mobilitazioni come la Black protest delle donne polacche contro la legge oscurantista sull’aborto. “A differenza del KOD noi ci sforziamo di mobilitare gli esclusi”, assicura l’esponente di RAZEM, in particolare le donne, “molto meno conservatrici degli uomini, qui in Polonia”. D’altra parte – soggiunge, e ha l’aria di essere una frecciata – fare politica consiste nel provare a cambiare il mondo, non nel limitarsi a interpretarlo (Marx docet).


Ringrazio i compagni di RAZEM per la disponibilità, e uscendo mi ripeto che la coscienza degli umani è il prodotto delle loro condizioni materiali, non viceversa: è normale che il polacco, circondato da potenze agguerrite, presti spasmodica attenzione alla propria sicurezza nazionale, così come non mi risulta incomprensibile quest’allergia all’autoritarismo, figlia di quarant’anni di regime e di un approdo molto più recente del nostro alla “democrazia” (formale), che quassù – a differenza che da noi - si è fin da subito presentata nei panni neoliberisti.

Varsavia non è più come ottant’anni fa baricentrica rispetto al Paese: il temuto confine orientale è a meno di 200 km. L’auto (a GPL) scivola su un’autostrada sgombra alla volta di Mielnik, che fu città reale al tempo degli Jagelloni e – distrutta durante la seconda guerra – si presenta oggi coma un invitante paese di campagna, “colonizzato” da abitanti della capitale che vi trascorrono le vacanze. Prima di giungere a destinazione, facciamo una sosta in un’anonima cittadina, stretta intorno a una piazza quadrata: presumo che la Polonia autentica assomigli molto di più a questo borgo dalle poche attrattive che non agli sfavillanti quartieri della capitale.


Mielnik infine, mentre già annotta (con un’ora di anticipo rispetto alle mie parti): le rovine di un castello e di una chiesa tardo medievale; tantissime casette di legno costruite a incastro, vecchie e nuove (queste ultime molto più spaziose delle prime). In una veniamo accolti dal nostro ospite. Piotr non ha nulla del “villico”: ha studiato all’Università di Mosca prima di rendersi conto che la sua passione per la fotografia poteva diventare una professione di notevole successo. Ora è in pensione, e divide il suo tempo tra Varsavia e questa bella regione orientale chiamata Podlaskie.





Familiarizzo subito con lui: parla un buon inglese, che mantiene in esercizio traducendo in polacco libri di argomento bellico – il fatto che sia appassionato di aerei da caccia me lo rende subito simpatico. Inoltre non è affetto da russofobia, anzi: ride di gusto della leggenda complottistica che vuole l’incidente aereo di Smolensk provocato da Putin, che agli occhi della maggioranza dei polacchi è un Belzebù alquanto più cattivo. Se proprio tocca evocare un demone, meglio l’ironico Voland de Il maestro e Margherita – Bulgakov è tra gli scrittori preferiti di Piotr, ma ovunque dagli scaffali spuntano titoli importanti. 

 


L’indomani ci conduce nella vicina Niemiròw, un incantevole paesello tutto in legno (a parte la chiesa): cammino lungo strade innevate, ammirando l’immensità dei campi che risalgono placidi le basse colline, respirando l’aria fresca dei boschi di conifere. Raggiungiamo la frontiera bielorussa, dominio del diffamato (ma non da Piotr) Lukashenko: ai nostri piedi il nastro argenteo del fiume Bug, che se non sbaglio è il protagonista di un’indimenticabile pagina di Guerra e pace. C’è ancora tempo per girare attorno a una chiesa ortodossa lignea, dipinta di azzurro, e per visitare un monastero egualmente ortodosso: sono attratto dal gran numero di croci, una delle quali fu portata da una nipote di Bulgakov a salvezza dell’anima del celebre congiunto. Non ne aveva bisogno, penso, lo scrittore che seppe descrivere con incomparabile umanità le angosce di Pilato. Cosa sono queste croci? Ex voto, come la monumentale basilica di Kaczynski: ringraziamenti a un Dio che in questo paesaggio incontaminato, rilassante sospetto debba sentirsi più a suo agio che fra i grattacieli.


La sera ceniamo con alcuni artisti polacchi e – sorpresa! - trovo persone con idee non troppo dissimili dalle mie. Una bionda signora di mezza età sfoggia volentieri il suo italiano, appreso in quindici anni trascorsi a Roma come governante: intona una canzone di Gino Paoli, ma poi riconosce con passione l’irriformabilità dell’Unione Europea, negazione dell’Europa stessa e meccanismo di sfruttamento ai danni di chi non appartiene all’élite. Mentre ci versiamo una vòdka Piotr pronuncia alcune frasi che mi restano impresse: “è vero, ai tempi del comunismo dovevo riconsegnare il mio passaporto, ad ogni rientro in patria. Ma ero più libero allora, perché la mia mente era libera. Adesso non è più così: il sistema condiziona le nostre menti, ci insegna cosa pensare e desiderare. Vale soprattutto per i giovani, che vogliono mantenere nell’ignoranza” – docili, e chini sui loro stupidi smartphone.

Un simposio, gente di ogni età che discute e si accalora: a mio modesto avviso, l’Europa è anzitutto questo.





1 Nelle industrie medie e grandi il salario medio si aggira sui 4.200 zloty, pari a circa 1.000 euro (lordi) al mese.

2 Che raggruppano il 12% dei lavoratori.


3 C’è poi il partito della rockstar Kukiz, “populista e contro la status quo”, cioè – come da noi – fustigatore della partitocrazia e dei privilegi della “casta” politica…




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