L’ASIENTO
NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di
Norberto
Fragiacomo
Ho letto, di
recente, un agile e appassionante libro di Ryszard Kapuściński, scritto nel
1976 e dedicato all’ormai dimenticata guerra in Angola, che il grande reporter
polacco raccontò per la PAP. Si intitola Ancora
un giorno, ed è molto più di una cronaca: le pagine traboccano di odori,
suoni, afa, persone. Come d’abitudine, l’autore non si acquatta sullo sfondo:
vive la Storia da protagonista, affrontando disagi e pericoli, e si concede il
gusto della riflessione - mai banale, sempre intelligente (proprio perché il
nostro è capace di intus legere).
Molte sue frasi
si imprimono nella memoria, ma un passaggio in particolare mi ha incuriosito:
non perché sia più profondo, suggestivo o commovente di altri, semplicemente
perché misura l’abisso temporale che ci separa dal 1975 (che in fondo è l’altro
ieri: il sottoscritto aveva tre anni, allora).
Annota Kapuściński, a pagina
100[1]: “Chi nasce oggi, tra
venticinque anni vedrà il 2000. (…) Della razza
bianca non resteranno che vestigia. Solo il tredici per cento degli
abitanti della terra avrà la pelle bianca. Solo il due per cento saranno biondi naturali. I biondi: un fenomeno
sempre più eccezionale, una vera rarità. Che cosa è meglio: pensare al futuro o
non pensarci affatto?”
Lo scrittore non
si straccia le vesti: fa una constatazione, venata – questo sì – di una
malinconia tipicamente polacca. D’altra parte pan Ryszard era innamorato dell’Africa e degli africani ed era –
almeno negli anni in cui pubblicò il libro – un comunista convinto, sincero
assertore della fratellanza tra i
popoli. Ciò non toglie che alcune parole qui riportate susciterebbero oggi uno
scalpore e un’indignazione che, quattro decenni or sono, nessuno dei lettori si
sognò di provare. “Razza bianca”!: come ha osato utilizzare un termine del
genere, si sa che le razze non
esistono, che siamo tutti uguali… uno che parla di razza bianca è evidentemente
un razzista! – concluderebbero i
portabandiera della sinistra liberista e della sinistra-sinistra, per una volta
(una sola volta?) concordi. Il recente pubblico linciaggio della deputata dem Prestipino avvalora il mio assunto:
è vero che la parlamentare ha parlato di “razza italiana” (che esisteva solo
per Preziosi e i propagandisti littori…), ma il concetto, pur vago, di razza
bianca suonerebbe oggidì ancor più intollerabile a certi orecchi. Siamo di
fronte a un autentico tabù, costruito in pochi decenni. Il riferimento ai
capelli biondi, poi, verrebbe giudicato un affronto, una provocazione: razzismo
puro, se non nazismo dissimulato. L’ho sperimentato su Facebook: il mero
accenno alla diffusione fra i soli popoli di origine europea di iridi azzurre,
grigie e verdi è stato interpretato da certa utenza come una confessione di
disprezzo (razziale?) verso chi ha gli occhi scuri.
Ai guardiani del
politicamente corretto non importa se e quando gli europei e gli occhi chiari
spariranno fisicamente: cioè che
conta è che idee come “differenza” ed “europei” (sono solo due esempi) scompaiano
definitivamente dalle coscienze. Perché? Perché l’omologazione deve aver luogo anzitutto nelle menti: capture their mind… Bisogna riconoscere
che l’indottrinamento sta funzionando: chiunque di questi tempi si azzardi a
pronunciare, anche per sbaglio, il vocabolo razza viene immediatamente gelato
da una battuta di Einstein. Se lo dice Einstein… anche la garbata presa in giro
di un funzionario dell’immigrazione troppo solerte può innalzarsi a verità
assoluta, incontestabile. Visto che gli esseri umani appartengono all’unica
specie del genere Homo, le “razze”
non possono esistere: coloro che stesero l’articolo 3 della nostra Costituzione
(guarda caso, quello dove si parla di uguaglianza formale e sostanziale,
entrambe oramai evanescenti) vanno dunque severamente biasimati. Un simile
rimprovero andrebbe però rivolto anche ai cinofili: il cane domestico (Canis canis) appartiene come noialtri a
un unico genere e a un’unica specie, pertanto se qualcuno vi chiede di che
razza sia il vostro cane, coerenza vuole che rispondiate, offesi: canina! Insomma: chi afferma di
possedere un levriero o un cocker è un potenziale razzista.
Ovviamente le c.d.
razze esistono, indipendentemente dall’indiscussa appartenenza degli uomini a
un’unica species, e sono
caratterizzate ciascuna da peculiarità fisiche e comportamentali attestate
nella generalità (non nella totalità!) degli individui. Queste differenziazioni
sono il prodotto dell’adattamento all’ambiente (non ci hanno sempre insegnato
che l’uomo è l’animale più adattabile?),
ed interessano assai più l’etnologo che il naturalista. Mi si potrà obiettare
che il termine razza è stato ostracizzato per nobilissime ragioni, cioè per
estirpare il “razzismo” e le ideologie su di esso basate. D’accordo, ma le
credenze razziste (cioè la convinzione che esistano popoli naturalmente
superiori ed altri inferiori, e che i primi abbiano il sacrosanto diritto di
servirsi dei secondi a piacimento[2]) sgorgano dall’animo
umano, non dal vocabolario - cui semmai si aggrappano come l’edera si avvinghia
all’albero, finendo per impoverirlo. In fondo, “razza” è una parola innocua e vilipesa
in un mondo, l’attuale, in cui troppe sue consorelle – geneticamente modificate
– diventano armi.
Le
scomuniche di sapore “antirazzista” sono quindi destinate non tanto ai razzisti
dichiarati (che, in fondo, fanno gioco al sistema), quanto a coloro che,
valorizzando le diversità come fattori di arricchimento, esprimono dubbi sulla
bontà di un progetto che mira a cancellarle in nome di una presunta
eguaglianza, che è piuttosto una forma di omogeneizzazione coatta.
Ignobili
finalità di dominio e sfruttamento si ammantano dell’ideologia del
“politicamente corretto” che, sebbene abbracciata da larghi strati della
sinistra (per così dire) ufficiale, è produzione sovrastrutturale del capitalismo
odierno, del tutto funzionale ai suoi scopi[3]: la
messa al bando, in Occidente, di simbologie tradizionali e festività religiose
va inquadrata in un vasto disegno di sradicamento delle popolazioni e
desertificazione culturale dei territori, in modo da creare un “uomo nuovo” cui
è stato tolto tutto (passato, diritti, conoscenza, persino il sesso, sostituito
dal concetto artificiale di gender/genere) ma non – naturalmente – la
possibilità di recarsi al “mercato” per adorarvi l’omonimo dio.
La percepibile
diffidenza nei confronti dei colori chiari (di pelle, occhi e capigliatura),
spudorate eccezioni alla regola dell’uniformità a tutti i costi, si inserisce
appieno in questa logica. Riflettete: oggigiorno va di moda esaltare
(giustamente) la prestanza fisica degli atleti di colore, e manifestare
predilezione per le tinte scure è considerato politicamente correttissimo; al
contrario, dichiararsi attratti da carnagioni e caratteristiche nordiche espone
a larvati sospetti di razzismo. Tutta colpa di Hitler (che peraltro era bruno e
di statura media), chioserà qualcuno. Può darsi, ma questa tendenza, anzi:
questo riflesso pavloviano è stato inculcato nelle persone molti lustri dopo la
caduta del Reich decennale, e si pone in netta antitesi rispetto a una
tradizione culturale che affonda le sue radici nella storia e nell’epos
europei. Qualche esempio: i principi e gli eroi achei cantati da Omero, Achille
in primis, sono invariabilmente alti e biondi, gli occhi degli dei greci
sono azzurri… epica razzista? Evidentemente no, perché i nemici asiatici – i
troiani: mori – sono tenuti dal poeta in gran conto, benché siano destinati
alla sconfitta. Circa mille anni dopo, Lucio Cornelio Silla interpretò come un
segno divino (a lui favorevole) il fatto di essere biondo, cioè “bello”: che si
trattasse di un personaggio spietato è indiscutibile, ma che disprezzasse i
popoli asiatici con cui venne in contatto non risulta. Proto-nazisti anche i
fiorentini medievali che, secondo le cronache del tempo, accolgono con ammirazione
i cavalieri germanici – maestosi, di bell’aspetto e biondi – che, al
seguito di qualche imperatore, transitano per le vie cittadine? Se così fosse,
l’accusa andrebbe estesa a padre Dante, che descrive lo sventurato Manfredi
come biondo, bello e di gentile aspetto (praticamente un’endiadi). Tralasciamo
le suggestioni provenienti dall’antica poesia scandinavo-germanica, che agli
empi e sfortunati sovrani burgundi affibbia capelli neri (in contrapposizione
alla solarità di Sigfrido, l’eroe dal cuore puro), per passare direttamente
alle diffusione, già in ambito medievale, di una nuova immagine del Cristo, che
inizia a sfoggiare poco plausibili chiome dorate e occhi cerulei. Tutto ciò col
razzismo non c’entra nulla, se non altro perché quest’aberrazione è
figlia dell’Ottocento: si tratta semplicemente di un aspetto dell’immaginario
europeo, che associa le tinte chiare e vivaci alla luce (idest al bene,
alla nobiltà d'animo e di lignaggio), quelle opache all’oscurità[4].
Così
è stato per secoli... ma il suddito di domani sarà invariabilmente bruno, per
cui è opportuno ribaltare la dicotomia con continui messaggi a livello del
subcosciente: un gocciolio ininterrotto scava la pietra più dura, e se i nostri
discendenti non saranno più in grado di figurarsi Achille o Silla poco male…
tanto nelle “scuole” saranno addestrati a fare ben altro. In quel futuro
dell’Europa residuerà solamente un nome stampato sulle pagine in disfacimento
di volumi condannati al macero.
Il
“politicamente corretto” si sta rivelando un efficacissimo strumento per
rimodellare le nostre società secondo i desideri dell’elite. Per intorbidare il reale si serve di termini/formule senza
senso (pensiamo alla locuzione “diversamente abili”: lo siamo tutti, sì o no?),
di neologismi superflui ma d’impatto (femminicidio,
ad es.), di parole dal significato capovolto[5], di
razzismo al contrario[6], di
palesi mistificazioni, di un manicheismo indecente e, da ultimo, si esprime nello
stomachevole “buonismo” che permea oggi la comunicazione. “Sono nostre vittime, accogliamoli tutti”, esorta il buonista di
fronte all’esodo di migranti: ma è un buonismo a senso unico, che non si
applica alle classi disagiate del c.d. Occidente (v. il caso Brexit e la
colpevolizzazione del Popolo greco in blocco) o a chi si azzarda a protestare
contro quella che ritiene, a ragione o a torto, un’invasione. Sarei tentato di
dire (e, già che ci sono, lo dico!) che questa melassa dal retrogusto acido sta
all’internazionalismo proletario, alla fratellanza socialista – che mai si è
proposta di sopprimere l’identità dei singoli popoli/etnie – come le lusinghe
di un consumato don Giovanni stanno al rapporto d’amore fra Romeo e Giulietta. Che
oggi, lo ripeto, gran parte della “Sinistra radicale” si attenga
scrupolosamente al galateo buonista prova che essa – anche quando si dimena e
fa fuoco e fiamme – resta comunque all’interno del perimetro tracciato dal
liberalcapistalismo: è un suo animale domestico.
Non casualmente
ho fatto cenno ai migranti: si tratta, se non dell’emergenza più grave che dovremmo affrontare, di quella cui i
media danno maggiore enfasi. Il caso, esploso in questi giorni, della Jugend Rettet riporta in primo piano la
questione delle ONG, sollevata alcuni mesi fa dal procuratore di Catania
Zuccaro. Di fronte a ipotesi – cautamente formulate dal magistrato, e poi da
altri - di “intelligenza” con gli scafisti (che nel caso della Juventa
sembrerebbe provata) mezza sinistra aveva ostentato indignazione e sbandierato
il proprio appoggio acritico ad organizzazioni sante a prescindere; altri sostenitori,
più sottili nel loro ragionare, avevano sentenziato che è inverosimile che una
ONG sia “complice” degli scafisti. In effetti, l’inverosimiglianza di tale
ricostruzione aveva acquietato l’opinione pubblica, convincendola che quelle
sulle organizzazioni non governative fossero soltanto voci calunniose: ancora
una volta siamo di fronte ad un capovolgimento di prospettiva attuato ad arte.
Non ha realizzato nessuno che la vicenda poteva essere letta anche al
contrario, cioè ipotizzando che fossero
gli scafisti ad essere complici delle ONG?
Certo,
si tratterebbe di un’interpretazione assai più inquietante, ma molto meno
strampalata della precedente… per darle corpo toccherebbe però individuare il
movente delle organizzazioni ovvero, come si ripete in questo torrido fine
settimana d’agosto con riferimento alla Jugend
Rettet, il loro “fine ideologico”.
Nel
suo Ancora un giorno Kapuściński ci ricorda qualcosa che vorremmo rimuovere, e che
tantissimi semplicemente non sanno: tra la fine del XV e il XVIII secolo intere
regioni africane sono state letteralmente spopolate dai bianchi, a caccia di
schiavi da spedire soprattutto nelle Americhe. La più grande tratta di uomini,
donne e bambini mai vista sulla terra (e sui mari) è passata alla Storia sotto
il nome di Asiento. Raramente però i
futuri schiavi venivano catturati all’interno dell’Africa da spagnoli e
portoghesi: a consegnarli ai bianchi, previo versamento di un prezzo, erano
quasi sempre capitribù e mercanti africani (talvolta arabi). Dopo la consegna
venivano caricati sulle navi negriere e trasportati nel continente americano. La
similitudine balza agli occhi, per cui pongo al lettore un’unica domanda: era
l’europeo ad essere complice del capotribù che lo riforniva, o viceversa?
Le motivazioni
economiche della tratta erano e sono evidenti: occorreva manodopera a
bassissimo costo per miniere e piantagioni; inoltre, secondo gli spagnoli, i
neri erano molto più resistenti alla fatica dei nativi americani, inizialmente
impiegati nel lavoro coatto. Più resistenti, probabilmente… ma, di sicuro, a
differenza dei secondi, del tutto spaesati in una terra che non conoscevano,
quindi più docili e infinitamente più controllabili.
Nel mio saggio L’ultima Carta contro la
barbarie cito alcuni dati forniti dal compianto Tzvetan Todorov: nel corso
del ‘500, sotto il tallone iberico, la popolazione indigena d’America passò da
80 a 10 milioni di individui. Fu un genocidio per certi versi programmato, cui
seguì uno stravolgimento del quadro etnico, cioè un ricambio di popolazioni – quello stesso ricambio che paiono
augurarsi per la nostra Europa personaggi indiscutibilmente buoni(sti) come il
preteso filantropo George Soros[7] e la Presidente della
Camera Laura Boldrini[8].
Siamo alle prese
con un nuovo Asiento? A giudicare
dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle ONG parrebbe di no: descrivono un
paese delle meraviglie, retto da solidarietà, altruismo e buoni sentimenti. Ci
è stato insegnato, però, che verba volant:
atteniamoci ai crudi fatti. L’esodo da quello che un tempo veniva definito
Terzo Mondo sarebbe imputabile a guerre, fame e sovrappopolazione. Le guerre
non mancano (ringraziamo gli Stati Uniti e i loro vassalli, Italia compresa),
le carestie neppure, ma entrambi i fenomeni rappresentano una costante da ben
prima che io nascessi: ricordo di aver assistito, da bimbo, a sconvolgenti
documentari sulla fame in Etiopia. Eppure allora non ci furono ondate
migratorie… accusiamo allora il riscaldamento globale, che in questi giorni
sperimentiamo sulla nostra pelle, ma non prima di esserci posti una domanda:
sicuri che l’esodo non sia in qualche maniera incentivato, che il desiderio di
emigrare non sia istillato – o perlomeno rafforzato – da “agenti” presenti in loco? In fondo, le Open Societies del magnate George Soros
sono attive anche in Africa e in Asia, e il nostro buon “filantropo” (philantropist sta scritto anche sulla
tomba di Robert Owen, ma nell’800 le parole avevano ancora un significato…) si
gloria di aver stanziato 500 milioni di dollari per soccorrere i migranti[9].
Mettiamola così:
il ruolo dei vecchi capitribù è stato assunto da cacciatori di teste meno
brutali e più suadenti, oltre che da scafisti che trasportano la “merce” via
terra e via mare. E le navi negriere? Non attraccano più al porto, ma aspettano
il carico a poche miglia dalla costa. Non ho elementi per affermare che tutte
le ONG siano colluse, mi limito a interpretare ciò che sento e vedo. A quanto
pare, l’inchiesta si sta estendendo a Medici senza frontiere: venerdì sera un
rappresentante dell’organizzazione ha negato con sdegno, su La7, qualsiasi
contatto col magnate Soros. Posso anche credergli, ma rilevo – dopo aver dato
un’occhiata al sito internet della ONG – che il bilancio di quest’ultima è in
costante crescita, e che fra i partner dichiarati figurano gruppi
internazionali come American Express e IKEA. Ne saranno lieti, immagino, i
dipendenti di quest’ultima società, trattati in maniera principesca, e i
fornitori dell’area isontina… Il nome di Soros viene accostato anche a MOAS,
che non pubblica i nomi dei finanziatori e – comunque – ha prontamente aderito
al protocollo d’intesa ministeriale. Scomodare il filantropo per eccellenza è
forse in questo caso inutile: alla guida della giovanissima ONG[10] c’è un finanziere
americano di nome Christopher Catrambone, classe 1981, che dopo essersi
rapidamente arricchito grazie alle assicurazioni ha d’improvviso scoperto di
essere affetto da altruismo[11]. Lodevole, anche se gli
affari conclusi in Iraq e Afghanistan e il fatto che la sua società Tangiers
operi nel settore dell’intelligence[12] inducono a guardare con qualche sospetto questo “benefattore” e la
sua bella moglie Regina. Che George (Premio Terzani, non dimentichiamolo!) abbia
fatto scuola?
Naturalmente
tutti costoro giurano che il loro scopo è salvare vite umane (pure i Conquistadores del ‘500 affermavano di
voler convertire gli idolatri…): avessimo ancora cinque anni – quelli che
dimostra certa “sinistra” – potremmo anche prestar loro fede. Modestamente però
ritengo che il famoso fine ideologico
sia un altro: quale?
Ho già trattato
l’argomento ne L’ultima Carta contro la
barbarie: rimpolpare l’esercito di riserva è oggi una priorità[13], ma non l’unica, anche
perché quello di trovarsi un lavoro non sembra per molti migranti un imperativo
categorico[14].
Un altro ruolo che potranno interpretare è quello dei capri espiatori (anziché
contro chi li affama, le popolazioni autoctone si rivolteranno contro i nuovi
venuti), ma c’è dell’altro, e a svelarcelo è la già menzionata madame Boldrini:
il da lei auspicato afflusso di 3-400 mila migranti l’anno (si badi bene: nella
sola Italia!) altererebbe, come mai è avvenuto in passato[15], la composizione etnica
della penisola.
Il fine ideologico di Soros e dei suoi
epigoni è dunque un gigantesco travaso/rimescolamento di popolazioni che,
ibridandosi, darebbero vita a una razza umana effettivamente indifferenziata,
senza radici né bussole per orientarsi: una manovalanza sovranazionale
totalmente asservita ad un’elite anch’essa sovranazionale. La non-Europa che
intendono costruire sarà una distesa di bidonville abitata da un’umanità
abbrutita e priva di elementari diritti, che sprecherà il poco tempo libero a
disposizione comprando prodotti superflui (dato che quelli necessari non
saranno disponibili), guardata a vista da polizie private che faranno capo a
un’aristocrazia finanziaria asserragliata in ville murate. Può darsi che, per
distinguersi da masse cenciose, debilitate e spremute, gli ottimati di domani
ricorreranno alle trovate della genetica[16], ma è aspetto di scarsa
importanza: mi preme piuttosto rammentare alle anime belle diffuse nella
sinistra italiana che è per questa oscena distopia che si stanno battendo,
oltre che per il diritto delle nuove navi negriere a solcare trionfanti il mare.
Esiste
un’alternativa a questo scenario apocalittico? Chi non è ubriaco di ideologie apprese
dai bignami sa che la stragrande maggioranza degli esseri umani preferirebbe
vivere e morire a casa propria, ma “aiutare a casa loro” africani, afghani,
pakistani ecc. sarebbe un’opzione praticabile soltanto per un governo europeo socialista, cioè per un continente
finalmente affrancatosi dalle velenose logiche del mercato. Ad oggi il famoso
cambio di paradigma è utopia, fantapolitica.
Non mi
dilungherò sul “che fare”: altri hanno proposto ricette intelligenti e
argomentate, presto demolite a colpi di slogan d’accatto. Per chi non si
rassegna forse un’alternativa c’è: il riscaldamento globale sta sciogliendo i
ghiacci dell’immensa Groenlandia, restituendole quel colore verde che ispirò i
vichinghi.
Potremmo
trasferire là la vecchia Europa.
[1] Ed. Universale Economica Feltrinelli, 2008.
[2] Sebbene ci venga quotidianamente ripetuto il
contrario, la semplice paura del “diverso” in quanto tale nulla ha a che vedere
con il razzismo, sempre che non sfoci in un rabbioso e cosciente senso di
superiorità.
[3] Non per caso il
politically correct si afferma negli USA nell’ultimo quarto del XX
secolo e di lì si diffonde nel mondo occidentale.
[4] Questa visione tradizionale, consolidatasi nei
secoli, è mirabilmente ripresa e vivificata da J.R.R. Tolkien ne “Il Signore
degli anelli”.
[5] Gli americani assediano dal mare la Corea del Nord,
ma sono i lanci dissuasivi dei coreani ad essere etichettati come
“provocazioni”.
[6] Mi riferisco, a titolo esemplificativo, al celebre
caso di Fermo: con la fattiva complicità del PRC locale, gli esiti tragici di
una lite fra balordi assursero a condanna senza appello di un’intera città.
[10] Fondata dopo il naufragio di Lampedusa.
[11] Duemila anni fa ci volle l’intervento miracoloso di un
Dio per convertire un solo duro di cuore, oggigiorno sfruttatori e pescecani si
convertono a frotte, senza manco bisogno di inviti dall’esterno: viviamo
davvero nel migliore dei mondi possibili (anzi: in quello delle fiabe)!
[12] Non è un’illazione: a confessarcelo
è lui stesso (http://www.christophercatrambone.com/biography),/
[13] Che gente con contratti-immondizia possa un domani
pagarci le pensioni è una barzelletta degna di Bramieri (che fa rima con
Boeri), che l’assenza di pretese e aspettative di diritti piaccia al padronato
è una certezza.
[14] L’impressione, del tutto soggettiva, è che molti di
loro siano giovani avventurieri in cerca di “fortuna”, sedotti dalle sirene cui
facevo cenno in precedenza (so già che quest’asserzione mi costerà qualche
insulto, ma poco me ne cale: raglio d’asino non sale al cielo!).
[15] In epoche remote fummo invasi da Goti, Longobardi,
Arabi, Normanni ecc., ma si trattava di relativamente pochi individui, che
inizialmente fecero gruppo a sé e poi si fusero con le popolazioni locali.
Padre Zanotelli, in tv, parlava di centinaia di milioni di persone pronte a
partire dall’Africa: siamo alle prese con qualcosa di mai sperimentato prima.
[16] Dalla lettura di alcuni settimanali risulta che già da
tempo, negli USA, famiglie benestanti “programmino” l’aspetto dei futuri figli,
optando di solito – in barba al politically
correct – per occhi celesti e capelli biondi.
1 commento:
Mi risulta che il termine razza derivi dal francese antico haraz o haras (allevamento di cavalli); per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza. Altrimenti si ritiene che la parola razza derivi dall'arabo ras: origine, stirpe e viene utilizzato in quello che modernamente si definisce ambito zootecnico. In ogni caso, tralasciando l'uso del vocabolario e restando anche all'uso corrente del termine, notiamo che esso compare associato alla possibilità non tanto di accomunare varie specie animali in una unica specie, per esempio, quella canina. Ma piuttosto, quando si interviene per modificare artificialmente le loro caratterisctiche con incroci coatti. Forse un tempo, quando le famiglie erano eteroformate ed eterodirette, sia da esigenze di mantenimento del potere che del patrimonio, potevamo anche, ma in ambiti ristretti, ricorrere al termine "razza" per altro sostituito dal più nobile ed altisonante "casata". Ma oggi, quando per un occidentale, in particolare, è già molto difficile riprodursi, ipotizzarlo con incroci artificiali, diventa persino ridicolo. Efettivamente qualcuno con tanto di baffetti ci ha provato..ma con risultati deludenti..gli incroci spontanei da allora sono diventati ancora più eterogeneri e numerosi, tanto da rendere quasi impossibile una nuova "difesa della razza"..se non altro perché la Groelandia, come l'Africa, è già qui da tempo anche senza bisogno che ci si trasferisca.
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