RIFLESSIONI DAL SOTTOSUOLO
di
Norberto Fragiacomo
Malgrado l’appoggio di Romano Prodi, Bersani ha fatto la figura dell’Occhetto, perdendo persino nella sua Bettola. Tra le paradossali sentenze emesse da queste elezioni invernali, una si presenta come autentica contraddizione in termini: si può incorrere in un’irrimediabile disfatta anche prendendo più voti degli altri partiti/coalizioni sia alla Camera che al Senato. Altri verdetti, in ordine di importanza: Grillo ha trionfato; Berlusconi, che speravamo scomparso, è invece vivo e vegeto; Monti potrebbe aver raggiunto il suo obiettivo; l’astensionismo è aumentato, ma di poco (dal 20% scarso del 2008 al 25 di ieri); alcuni protagonisti della politica degli ultimi decenni sono svaniti nel nulla. Fini, Di Pietro: missing in action. Scordato qualcosa, nel rapido sommario? Sì: il risultato delle sinistre, forse secondario nel contesto generale, ma che stava a cuore a chi scrive. Sul tema scribacchierò due parole (amarissime) in conclusione.
Procediamo con ordine: l’alleanza di centrosinistra è naufragata nelle urne. Un deludentissimo 29,54% - il centrodestra segue a un’incollatura - è sufficiente alla Camera per conquistare l’ambito premio di maggioranza, ma la risicata vittoria al Senato non serve a nulla, perché le regioni più “grasse” (Lombardia, Sicilia, Campania; perfino la Puglia, che era considerata appannaggio del duo Bersani-Vendola) se le aggiudica nettamente Berlusconi. Il PD si ferma al 25%, battuto al fotofinish dal M5S (Camera dei deputati), e il giornalista tedesco Gumpel – quello biondo ed educato; l’altro “alemanno” ospite fisso dei talk show è il sarcastico Piller[1] – suggerisce giustamente a Bersani di dimettersi. Il silenzioso Renzi è ad portas, ma la debacle piddina ha lasciato i dirigenti senza fiato: si susseguono dichiarazioni confuse, imbarazzate e imbarazzanti. Il nipote di Letta esterna in politichese, giusto per prendere tempo, e tutti paiono chiedersi: ma dov’è finito quel 5-6% in più che i sondaggi ci attribuivano? A Grillo, indubitabilmente: e sono voti di sinistra. Oltre a non sfondare al centro, i democratici si mangiano una quota di elettorato tradizionalmente fedele: è il prezzo del sostegno a Monti, delle reiterate rassicurazioni ai mercati, delle interviste ai giornali della finanza con l’intervistato (non il giornalista) in ginocchio. Tutta l’Italia era al corrente che, comunque andassero le elezioni, Bersani era intenzionato a consegnare lo scettro a Super Mario, vale a dire ai mercati: molti sostenitori, schifati, hanno detto basta. Quel po’ di futuro che resta è nelle mani del sindaco di Firenze, che però non finge neppure di essere “di sinistra”, e pertanto difficilmente convincerà i fuggitivi a riprendere la via di casa.
Beppe Grillo è andato al di là di ogni più rosea aspettativa: oltrepassa la soglia del 25%, è primo (!) alla Camera, manda in Parlamento un’armata di 162 eletti. E’ un successo di portata storica, che atterrisce la Germania, i mercati ed anche Krugman: personalmente, sospendo il giudizio. Il M5S è ancora un oggetto misterioso: mentre fioccavano i primi instant poll, la sua giovane portavoce, Marta Grande, rispondeva con espressione assente – da Borg, appunto - alle domande del giornalista di Rai3, ma poi, in serata, sfoderava teneri sorrisi da bimba che ha appena ricevuto un regalo. Ritengo che i “grillini” si atterranno al programma, ritagliandosi il ruolo di controllori in Parlamento (e questo è un bene): sono consci che, spread permettendo, il tempo gioca a loro favore, e che impelagarsi in alleanze con i partiti “morti” non conviene. Sicuramente difettano di esperienza, e questo potrà farli scivolare in qualche tranello; ma sono numerosi, combattivi, immagino compatti, e soprattutto consapevoli che devono tutto a Grillo e all’ansia di cambiamento espressa dai cittadini. Sono appunto i Borg: se si smarcano individualmente, ritornano ad essere nessuno (v. Favia).
Capitolo Berlusconi: non soccombe, perché il suo zoccolo duro non l’abbandona. Mai. La sorpresa, quasi lo smarrimento che si leggeva sul viso di Quagliariello (e anche su quello del cinico Ferrara) dopo la diffusione delle proiezioni che davano il centrodestra in vantaggio sono significativi: i capetti pidiellini non si attendevano di essere ancora in gara. “Berlusconi ha sbagliato tutto”, sghignazzava Cicciopotamo, e invece no: sparate, promesse farlocche e messaggi in bottiglia funzionano ancora. Larghi strati di popolazione (1 votante su 5) perseverano a fidarsi di lui: questa gente non la sentiamo discutere di politica in pubblico, ma non perché si vergogni della scelta – perché non è in grado, vista la modestia intellettuale e culturale, di articolare un ragionamento logico. Le vecchiette e i frequentatori di centri commerciali che tifano Silvio sono irrecuperabili: non possono cambiare idea, perché non ne hanno alcuna. Berlusconi li conosce, li ha plasmati lui: perciò, a differenza dei suoi tremebondi colonnelli, restava ottimista. Non sono sicuro che, alle 16 e qualcosa, abbia gongolato come Quagliarello nel paese delle meraviglie: la prospettiva di governare, e di trovarsi sotto il fuoco di fila dei mercati con l’IMU sul groppone, non doveva attrarlo granché. Puntava al pareggio, e pareggio è stato: la sua posizione contrattuale è nuovamente forte, e credo che l’ipotesi di una Grosse Koalition gli riesca gradita. Se l’inciucissimo si farà, Silvio potrebbe veder risolte in un lampo le sue incomprensioni con i mercati e la giustizia italiana.
Ha un potenziale alleato, un lucky loser di nome Mario Monti. Parecchi commentatori lo danno per battuto, ma non credo lui si senta tale: quel 9,13% di preferenze al Senato (10,5 alla Camera, coi rimasugli di Casini e il fantasma di Gianfranco Fini, Libertà senza Futuro) è un tesoretto da valorizzare, in una situazione drammaticamente confusa. Primo dato: il centro è lui, i citati comprimari sono stati messi alla porta dagli elettori. Secondo: né Berlusconi né lo sfiduciato Bersani sono candidabili alla guida di un governo di ammucchiata. Ci vuole un premier di raccordo, che goda della fiducia dei mercati, della UE e degli americani – e Mario Draghi non è a disposizione. Terzo: le borse europee annaspano (ma il titolo Mediaset sale!), e lo spread si rizza come un cobra infuriato (348 punti, poi 330). “Ce lo chiedono i mercati”, “rischiamo di finire coma la Grecia!”, “l’Europa ci guarda”: queste tre frasette, opportunamente mescolate, potrebbero fornire un ritornello alla canzonaccia “unità nazionale”. Brutta figura, senso di responsabilità, solidarietà europea ecc.: non c’è penuria di argomenti per un Monti bis, tutt’altro che sgradito ad un Napolitano del cui mandato qualcuno già ieri auspicava la proroga. Super Mario non è affatto fuorigioco: sospetto, anzi, che l’ingovernabilità non gli dispiaccia (in fondo, se è “salito” in politica è stato proprio per evitare un risultato chiaro e netto). Non va sottovalutato il fatto che una longeva Grosse Koalition eterodiretta dai manager della Finanza transnazionale e dai loro tirapiedi UE lascerebbe al M5S un’Italia in pezzi, irrecuperabile – e che Grillo, unico faro del movimento in mancanza di un’ideologia sedimentata, veleggia ormai verso i 70 anni.
Giunto fin qui, dovrei spendere qualche parola sull’astensionismo – molto ridotto, peraltro, rispetto alle previsioni – ma preferisco analizzare sommariamente il risultato delle sinistre, che notoriamente non comprendono il PD. Diciamo le cose come stanno: è stata una disfatta. Alla Camera, Rivoluzione Civile ha preso la metà dei voti necessari, al Senato non ha manco sfiorato il 2%[2]: Antonio Ingroia, che ci ha messo coraggiosamente la faccia, prova a riempire di giustificazioni il bicchiere vuoto, ma la delusione è immensa. Affidiamoci alla schiettezza dei numeri: nel 2006, dunque prima dell’esplodere della crisi, in un’Italia meno depressa e impoverita di oggi, i quattro partiti dell’attuale (fino a quando?) coalizione ingroiana misero insieme il 12,4% di voti (PRC: 5,8; PdCI: 2,3; IdV: 2,3; Verdi: 2). Quel patrimonio è evaporato: tra RC e SeL, oggi, la sinistra c.d. radicale si ferma al 5,4%, molto meno della metà. A battaglia persa, tutte le critiche rivolte al progetto potrebbero sembrare corrette: il cantiere è stato avviato troppo tardi, alcuni soggetti politici (IdV, PdCI) hanno aderito solo per mancanza di alternative, il programma era confuso e frutto di troppe mediazioni ecc. Verissimo, ma che altro si poteva fare? A lungo le proposte del PRC di Ferrero di costituire un’alleanza sono state rispedite al mittente, e quanto alla predominanza dei partiti, lamentata dai professori di Cambiare si può, è agevole replicare: come sarebbe andata, senza le formazioni organizzate? Secondo me addirittura peggio, e cito un dato: l’1% raccolto da Fermare il declino, la squadra di professori liberisti capitanata dall’ingenuo Oscar Giannino. Da un certo punto di vista, CSP e FARE si assomigliavano, erano due immagini speculari – e penso che avrebbero condiviso lo stesso destino. Perché il problema dalla sinistra sta a monte: l’elettorato non la prende in considerazione, ne fa signorilmente a meno. Non conta neppure la collocazione: Nichi Vendola ha sposato una linea governista, eppure SeL si è dovuta accontentare delle briciole (3,2% alla Camera, meno del 3 al Senato), e l’affermazione apparentemente trionfalistica “missione compiuta!” va tradotta in un meno assurdo “abbiamo limitato i danni”.
Insomma, nonostante la crisi – che in tutta l’Europa mediterranea rinvigorisce le “estreme” -, la sinistra partitica italiana è defunta: il posto di Syriza e dell’Izquierda spagnola l’ha occupato Beppe Grillo, e non lo cederà spontaneamente. Forse sarebbe stato saggio “saltare un giro”, come suggeriva qualcuno; invece si è tentato, e gli esiti avviliscono quanti, cocciutamente, hanno fatto una scommessa rivelatasi perdente.
Onore delle armi ad Ingroia, Paolo Ferrero e a noi, poveri illusi – ma uscire dalle sabbie mobili sarà difficile, forse impossibile. Abbandonata ogni velleità elettoralistica dovremo forse focalizzare la nostra attenzione sui movimenti, sulle piazze, e provare – lontani dai palazzi del potere – a costruire qualcosa di interessante per le masse (ma quali masse? Esistono davvero? Magari si desteranno nei prossimi mesi, ma è un’ulteriore scommessa).
Nel frattempo, teniamo d’occhio Grillo, e vediamo che cosa combina: è innegabile che un’infinità di italiani di sinistra gli abbia dato credito, e non è con la supponenza che possiamo sperare di riconquistarli.
Concludo con una notarella positiva, tra il serio e il faceto: in un Kellerderby degli opposti, il PCL di Marco Ferrando ha superato i fascisti di Forza Nuova con 138 voti di scarto. Le percentuali sono le medesime: 0,26% alla Camera (i comunisti vanno un po’ meglio al Senato). Anche questo piccolissimo dato ci dice che l’Italia non è la Grecia: fa storia a sé.
Passo e chiudo, dopo aver riposto lo spadino di legno adoperato, in un mondo virtuale, per duellare con qualche compagno di SeL, incapace di avvedersi, al pari del sottoscritto, che lo scontro reale infuriava altrove.
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