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lunedì 11 febbraio 2013

LA SCONFITTA DELL'IDEA EUROPEA E L'INUTILE PAVONEGGIAMENTO DI MONTI di Riccardo Achilli



LA SCONFITTA DELL'IDEA EUROPEA
E L'INUTILE PAVONEGGIAMENTO DI MONTI
di Riccardo Achilli


L'accordo politico fra i 27 leader della Ue su ammontare e destinazione del bilancio europeo per il settennato 2014-2020 si è appena chiuso. Normalmente, l'accordo fra i capi di Stato e di Governo chiude i giochi, con il Parlamento Europeo, organismo più che altro rappresentativo di una utopia di democrazia europea, più che di una vera rappresentatività democratica, nonostante le varie riforme intercorse, che controfirma la decisione. 
In questo caso, però, il Presidente del Parlamento Europeo Schultz minaccia fuoco e fiamme, ed addirittura la clamorosa possibilità di non ratificare il bilancio, respingendolo. La scusa "ufficiale" risiede nella differenza fra il tetto massimo degli impegni (ovvero degli obblighi di spesa giuridicamente vincolanti) che nella proposta di nuovo bilancio possono essere assunti, pari a circa 960 miliardi, ed il tetto massimo dei pagamenti, ovvero della liquidità disponibile, pari a 908 miliardi. Tale differenza può generare un deficit da coprire con l'aumento del debito, che in nome di una buona gestione delle finanze europee Schultz respinge. 
Ma questa è una giustificazione tecnica, non politica. La vera partita, e lo si capisce anche dalle dichiarazioni, oltre che di Schultz, anche del vice presidente Pittella e di altri europarlamentari di spessore, è però che tale bilancio segnala un regresso pesante della stessa idea di unificazione europea, proprio nel momento di più profonda crisi sociale dell'Europa, che ne evidenzia l'avvio inevitabile di un declino strutturale ed inarrestabile della sua posizione semi-egemone di principale collaboratore degli USA nella divisione imperialistica del mondo. Declino che significherà un lento ed inarrestabile calo del livello di sviluppo quantitativo conseguito dall'Europa, e quindi un parallelo inarrestabile processo di destrutturazione del suo modello sociale. Perché è chiaro che la divisione internazionale del lavoro emersa gradualmente a partire dalla fine degli anni Sessanta, in cui all'economia europea veniva consegnato un ruolo terziario e finanziario, quindi sostanzialmente improduttivo e parassitario, ed alle economie emergenti veniva destinata l'attività industriale, inizialmente con forme di delocalizzazione produttiva controllata dall'europa, cui rimanevano i centri decisionali e di progettazione, con modalità di tipo neoimperialista, ma poi, in alcuni Paesi (i BRICS), in grado di evolversi in una capacità industriale nazionale sempre più competitiva sui mercati globali, recava in sè dei nodi che prima o poi avrebbero dovuto venire al pettine. La crisi attuale è proprio lo snodo attraverso il quale lo squilibrio fra un Nord del mondo sempre più ricco ed improduttivo ed un Sud povero e sempre più industrializzato doveva risolversi. Il capitalismo, inteso come sistema globale, non può permettersi di sostenere a lungo uno squilibrio come quello descritto: comporta una sottoutilizzazione di risorse, nelle economie mature e parassitarie, con conseguenti effetti negativi sul tasso di profitto potenziale, e al tempo stesso genera frizioni, fra crescita economica e benessere sociale, potenzialmente esplosive nelle economie emergenti.
Quindi l'Europa, proprio attraverso la crisi, è avviata su una dolorosa strada di progressivo "riallineamento" del suo livello di sviluppo alla sua competitività produttiva reale, indebolita da decenni di deindustrializzazione e di aumento del costo del lavoro per unità di prodotto conseguito nella sua fase welfaristica (ed in tal senso, è corretto affermare, come fanno numerosi economisti marxisti, che la crisi attuale nasce agli inizi degli anni Settanta, quando il modello welfaristico inizia progressivamente ad essere rimesso in discussione, inizialmente a livello teorico ed accademico, con la rinascita di teorie economiche neoclassiche in forma attualizzata, come la Nuova Macroeconomia Classica o le teorie del "Real Business Cycle",  e poi nella pratica, con gli esperimenti della Thatcher e di Reagan agli inizi degli anni Ottanta, accelerando dopo la caduta del muro di Berlino). 
L'unico modo di rallentare significativamente il ritmo di questo processo di declino, che non può essere comunque invertito, sarebbe quello di una progressiva integrazione politica ed economica europea, attuata sotto i canoni di un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello neoliberista predicato dai Paesi nordici egemoni (Germania in primis) e che possa, da un lato, riportare a sostenibilità il debito pubblico europeo, mutualizzando la gestione dei debiti nazionali a livello centrale, e dall'altro rilanciare una politica industriale pubblica, basata sulla programmazione di un'economia ben più vasta di quelle nazionali, oramai singolarmente sempre più incapaci di reggere all'urto della crisi (basti pensare al rapido peggioramento degli indici congiunturali della stessa economia tedesca, che è l'economia leader del continente, a partire dalla fine del 2012, e in modo ancor più grave nei mesi a venire) su campioni europei, con la massa critica utile per competere su scala globale, e con un mercato interno opportunamente rivitalizzato da politiche di sostegno della domanda e dell'occupazione. Oppure, forse in modo ancor più lungimirante, impostando una decrecita economica controllata, che punti ad ottimizzare l'equità distributiva, in modo da rendere socialmente sostenibile, redistribuendolo, il sacrificio del calo generalizzato dei nostri livelli di benessere, ed a impostare la cultura delle nostre società su parametri diversi da quelli quantitativi e consumistici. 
Tutto ciò però richiede una crescente integrazione europea, perché nessun Paese, da solo, può realizzare tale radicale cambiamento di paradigma, perché nessuna comunità nazionale, da sola, ha la forza di contrastare gli orientamenti del capitalismo finanziarizzato, che stanno andando in direzione di una ricostruzione delle condizioni pre-crisi di ripresa di una incontrollabile crescita degli investimenti finanziari più speculativi. In questa fase di svolta drammatica della sua storia, quando lo spettro del declino appare in modo evidente, e ricorda lo sprofondamento nella violenza, nel caos e nell'oscurantismo culturale che l'Europa subì con la fine dell'impero romano e l'inizio del Medio Evo, il vecchio continente avrebbe un imminente bisogno di uno straordinario scatto di reni in direzione di una maggiore coesione ed unità. Il bilancio del prossimo settennio appena approvato dal Consiglio europeo (che saranno anni in cui si giocherà una partita determinante in direzione del riassetto degli equilibri geo-economici e geo-politici globali in risposta alla crisi) evidenzia però, nel modo più drammatico, l'incapacità cronica di uscire da logiche nazionalistiche perdenti (comuni a tutti gli Stati membri, e che trovano l'espressione più clamorosa nel rifiuto britannico di rinegoziare iniqui ed ingiustificati rimborsi di parte dei contributi al bilancio europeo strappati addirittura ai tempi della Thatcher, ma anche nell'ossessione francese per il sostegno assistenziale alla sua agricoltura, tramite la PAC, così come in fondo anche l'ossessione italiana per la difesa della politica di coesione a favore delle regioni del Mezzogiorno, ed in tutti i partner l'ossessione per la minimizzazione del proprio contributo netto al bilancio dell'Unione, scaricando i maggiori costi sugli altri partner). Ma tale proposta di bilancio riflette anche l'incapacità cronica di uscire da logiche neoliberiste, che transitano attraverso la Germania (e la corona di Paesi nordici ad essa alleati - il Benelux, la Finlandia, ecc.), il cui Governo e la cui opinione pubblica sono dominati dall'influenza nefasta (anche per la Germania stessa, nel medio periodo) di un malinteso calvinismo economico, che trova espressione nell'ortodossia monetarista della Bundesbank, vero soggetto culturalmente egemone nella società tedesca. 
Il combinato disposto di generalizzati nazionalismi tenaci e di un logica neoliberista dura a morire nel Paese economicamente leader (e maggior contributore al bilancio della Ue, quindi con maggiore potere negoziale) porta al risultato paradossale che, proprio nel momento in cui la crisi economica morde in modo più profondo gli assetti del modello sociale europeo, per la prima volta nella storia della Ue, si avrà un bilancio di valore inferiore a quello precedente: rispetto al bilancio 2007-2013, infatti, la proposta di bilancio 2014-2020 prevede un taglio complessivo di 34 miliardi di euro, che in sostanza riduce, anziché espanderla, come sarebbe logico, la capacità dell'Europa di intervenire sull'economia, per rivitalizzarla. Inoltre, non solo esce un bilancio finanziariamente ridimensionato, ma anche un bilancio molto meno europeo e molto più nazionale. Infatti, le voci di bilancio che hanno un impatto diretto sugli assetti delle singole economie nazionali, quindi legati a specifici interessi nazionali, non solo non vengono tagliati, ma vengono accresciuti. La PAC, su pressione francese, cresce di 1,25 miliardi, per mantenere assistenzialisticamente un comparto agricolo sovradimensionato rispetto alla domanda alimentare del mercato interno, e per continuare ad impedire alle agricolture dei Paesi extracomunitari di penetrare su tale mercato. La politica di coesione per le Regioni a ritardo di sviluppo all'interno dei singoli Paesi cresce di 4,66 miliardi. Viceversa, i fondi per le politiche di livello europeo, quindi per gli interventi sovranazionali, vengono tagliati con la scure: i fondi per le infrastrutture strategiche calano di 11 miliardi (e forse questo è un bene, visto che tali fondi hanno generato la TAV, ma è anche un male, poiché tal ifondi servono anche per la relaizzazione di infrastrutture energetiche, quindi per lo sviluppo della green economy su scala europea), quelli per le politiche europee per la R&S (condotte con logiche transnazionali tramite i Programmi Quadro) scendono di 2,8 miliardi. I fondi per la politica estera europea scendono di 2 miliardi. Quelli per la macchina amministrativa comunitaria di un miliardo. 
Esce fuori quindi un bilancio "nazionalizzato" in base alle specifiche esigenze dei singoli Stati membri, ed in cui la componente comune viene fortemente depotenziata. Di fronte a ciò, le poche innovazioni positive (la previsione di un fondo speciale per trasferimenti alle regioni in difficoltà economica, che è un meccanismo fondamentale per costruire un'area valutaria ottimale, la previsione di un fondo specifico per combattere la disoccupazione giovanile, l'assegnazione di 2,1 miliardi ad un fondo per le politiche sociali per i cittadini europei in maggiore difficoltà, il timido rilancio dello sviluppo locale nelle politiche di coesione, specie in materia di politiche sociali) finiscono per risultare del tutto secondarie. Questa impostazione non potrà che accelerare, anziché cotnrastare, il declino economico, sociale e culturale complessivo dell'Europa. E' una Waterloo che giustifica la reazione durissima dei principali esponenti del Parlamento Europeo, che è l'unico organo comunitario avente una qualche forma di connessione diretta con i popoli europei stessi. Più in generale, la condotta tenuta dagli Stati membri durante il lungo negoziato evidenzia come l'Europa sia incapace strutturalmente di fare il salto in avanti verso una maggiore integrazione politica ed economica: nonostante la profonda crisi dell'intero edificio europeo, i governanti presenti al tavolo si sono comportati esattamente come ai tempi di De Gaulle e della Thatcher, ovvero con un sostanziale, anche se ben celato nelle dichiarazioni ufficiali, euroscetticismo. L'Europa non matura, nemmeno se pressata da una crisi senza precedenti, e se non matura adesso, allora non lo farà mai, e la catastrofe (che apre anche a inquietanti scenari di geurre economiche e forse anche militari in futuro) non può essere evitata.
Di fronte a tale disastro, Monti ottiene per l'Italia alcune importanti concessioni, non certo perché, come dice lui, con il suo governo l'Italia sia diventata più autorevole nello scenario globale, ma soltanto perché i poteri forti del capitalismo finanziario, raccolti attorno alla Trojka, hanno interesse a fargli delle concessioni per aiutarlo ad ottenere un risultato elettorale favorevole fra venti giorni. risultato elettorale favorevole che ovviamente si convertirà in un altro quinquennio di macelleria sociale er il nostro Paese. Quindi, i pochi benefici ottenuti da Monti oggi (e che si sintetizzano in una riduzione del contributo netto italiano, dai 4,5 miliardi della media del 2007-2013, a 3,8 miliardi, con un impatto finanziario favorevole per il nostro Paese per circa 5 miliardi di euro nell'arco dell'intero settennio, cui contribuiscono i 3,5 miliardi in più ottenuti a valere sulla politica di coesione, sulla PAC, sui fondi speciali per le regioni in crisi e la disoccupazione giovanile, nonché una riduzione degli apporti dovuta al calo dell'incidenza del PIL italiano rispetto a quello europeo) saranno più che compensati dai maggiori sacrifici finanziari imposti dalla partecipazione di Monti al Governo di centrosinistra prossimo venturo, che appare inevitabile alla luce degli ultimi sondaggi, che naturalmente l'Europa ha aiutato con questa "generosità", a ben vedere molto pelosa. Monti ha davvero molto poco da pavoneggiarsi per l'esito di questo negoziato. Dovrebbe piuttosto vergognarsi: pur professando un europeismo di facciata, mettendo la firma su tale proposta ha soltanto dimostrato di essere un esponente degli interessi dei mercati finanziari, non di quelli dei popoli europei.        

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