UN’AGENDA DA NON SCORDARE
Nel suo ultimo libro Ugo Pierri ci racconta una Trieste più tetra che allegra
di Norberto Fragiacomo
Il titolo sembra figlio (o figliastro) dei nostri tempi sciagurati, ma “L’agenda” che tengo fra le mani ha poco in comune con quella funesta del professor Monti, se non altro per il fatto che, anziché dell’elite padronale, raccoglie le confidenze di lavoratori, di pensionati, degli ultimi - quasi tutti comunisti, tra parentesi. Non è comunque un documento politico: è “solo” un libro di racconti, quello scritto e illustrato dal concittadino Ugo Pierri, ma le sue 102 pagine sono dense di riflessione, umanità, rabbia e speranza – e anche questa, in fondo, è Politica. Dell’autore posso dirvi poco più di quel che leggo in seconda di copertina: è nato a Trieste nel ’37, e in città lavora, dipinge, compone versi e sforna “racconti tetrallegri”. Penso di averlo incrociato una volta per strada, ad una manifestazione “contro”, ma mai ho avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui. Ricordo certi suoi salaci epigrammi sulle Segnalazioni de Il Piccolo, e questo è quanto.
Aprendo il libro, su un treno che da Roma mi riportava a casa, rimasi incuriosito, più che affascinato: la bella, anonima prefazione prometteva una Trieste plumbea, “città-sanatorio o città-lager”, teatro di una lotta impari tra padroni infami e uomini costretti “a fare i conti con la propria inettitudine”, antieroi “per eccellenza cui è riservata solo l’opzione della resa incondizionata”. Viene citato Stelio Mattioni, ma mi venne da pensare, allora, al Brentani di Senilità, e pure a Fantozzi. No, nella raccolta di Pierri non c’è posto per i personaggi di Paolo Villaggio, e neanche l’insicuro, ridicolo Emilio si troverebbe a suo agio: certe pagine sprigionano un dolore, una sofferenza che toccano il cuore. Non tutte, naturalmente: la novella Zodiaco (p. 34), ad esempio, somiglia a un divertissement surrealista, tanto gustoso quanto evanescente, mentre Bomba sul treno (p. 24) spreca un’interessante analisi psicologica con un finale, a mio avviso, assurdo e sopra le righe. Il racconto Amianto (p. 9), però, scuote l’anima del lettore. Il meccanismo narrativo funziona, la storia avvince, i personaggi sono delineati con più cura – e forse più partecipazione – che altrove.
Dario Simic è un operaio comunista non ancora vecchio, condannato a morte dall’amianto “a Monfalcone nel cantiere di via Cosulich”: non potendo dormire, trascorre le sue notti fumando e godendosi, dal salotto, “la vita notturna dell’immenso cortile” del quadrilatero di Melara. E’ piena estate, fa caldo e la gente boccheggia e bestemmia; bestemmia anche lui, il Dario con la faccia da Brad Pitt, quando moglie e figlia gli propongono – sostanzialmente gli impongono, come spesso fanno le parenti premurose: chi la dura la vince – di andare in pellegrinaggio a Lourdes. Perché non fidarsi dei miracoli? Perché no, perché le convinzioni di una vita non si gettano via così, e forse perché, in mezzo a questo sfacelo, a tanto grigiore (il grigio del casermone è la tinta dominante), non ne vale la pena. Chiacchiera con il timido ragionier Salata, Simic, osserva il suo mondo, periferico e crepuscolare, e gli capita persino di venir affrontato ed insultato da una giovane infermiera, Alina, che l’ha scambiato per un guardone notturno, o forse vuole solo sfogarsi. Incassa tutto, l’operaio dei cantieri, e alla fine quel viaggio lo subisce, si fa portare, più che convincere. E a Lourdes succede l’inaspettato: il tumore svanisce, lui è di nuovo sano. Nel frattempo, però, Alina è stata assassinata, e il povero ragioniere, schiantato da un’immaginaria delusione d’amore, muore improvvisamente, lontano e solo. Il parroco della chiesa di Cattinara non presta fede al miracolo: “per lui Dario Simic è un mangiapreti che ha vinto un terno al lotto.” La vita prosegue: la figlia di Dario, precaria senza futuro, si concede al fidanzato. Tutto è routine, casualità, squallore: non ci sono, su questa terra, premi da vincere alla lotteria. Se Amianto, come avrete intuito, mi ha commosso, Arbeit (p. 46) m’ha lasciato di stucco. Apparentemente è una vicenda di schiavizzazione e sfruttamento come tante: il titolo richiama esplicitamente Auschwitz (un lavoro che uccide, non rende liberi), e anche il coprotagonista, l’odioso e iracondo Rosenkrantz, sfoggia un bel nome tedesco. Fra tutti i padroni tratteggiati con compiaciuta antipatia da Pierri è forse il più ripugnante: un cafone vestito da skipper, rozzo, violento e soprattutto crudele. Lui e la moglie hanno preso di mira il protagonista, un commesso con velleità letterarie: lo minacciano, lo umiliano, lo sbeffeggiano davanti a tutti. Il resto del personale – due anziane zitelle al bancone, il nerboruto e taciturno Dusan in magazzino - pare meglio inserito nella macchina da soldi dell’emporio, ed ogni tentativo da parte del nostro giovane di destarne la coscienza di classe fallisce miseramente: le vecchie cugine prendono sempre le parti del titolare. Vi suggerisce qualcosa tutto questo? A me sembra un affresco in chiave naif del mondo contemporaneo: padroni sempre più aggressivi e pretenziosi, un ceto lavoratore che sopporta o si nasconde, ma in ogni caso rifiuta di ascoltare le voci critiche. Meglio tapparsi le orecchie, mettere la testa sotto la sabbia, convincersi che – come direbbe Gollum – “il padrone è buono, il padrone ci vuole bene”, anche se la realtà lo nega. E’ il seguito della novella, però, ad essere stupefacente: sbaglierò di sicuro (ma che importanza ha? E' solo un’innocua interpretazione soggettiva, in fin dei conti!), ma io questo racconto lo interpreto come una via di mezzo tra un apologo e una profezia. Il nostro eroe, cioè “l’intellettuale”, imbocca la strada della resistenza passiva: si finge malato ad ogni piè sospinto, suscitando la furia dell’incontinente Rosenkrantz. Al rientro dall’ennesima assenza, trova il padrone ad affrontarlo: “Figlio di puttana! Comunista!” Parte una raffica di pugni: il povero commesso sbatte la testa contro la cassa e sviene. “Un tonfo sordo. Un filo rosso dalla bocca.” Ennesima vittoria padronale e fine della storia? Niente affatto: una delle due cugine (“i lavoratori”) afferra lo skipper per la giubba, invocando giustizia; ed è a questo punto che fa il suo ingresso Dusan, il “proletario”. “Fissa Rosenkrantz con gli occhi rassegnati. – No, no, così non si fa, dice e alzata la spranga la cala freddamente sul capo del padrone. (…) Rosenkrantz, faccia a terra, in mezzo al negozio in un mare di sangue. – No è giornata, mormora Dusan. Infila il montone e il berretto di pelle, fascia il collo con la greve sciarpa di lana. Esce. E’ la prima volta che il magazziniere abbandona il negozio prima dell’orario di chiusura.”
Punto. Conclusione. L’intellettuale ha fatto la sua parte, ma solo il risveglio improvviso del Popolo mette il Capitale alle corde… un invito a non cedere, a combattere insieme la nostra quotidiana battaglia di parole, frasi e pensieri, in apparenza pateticamente inutile?
Lascio il giudizio al lettore, cui ho già rubato una fetta del piacere agrodolce che proverà confrontandosi con questa Agenda, impreziosita da ritratti di “colletti bianchi” che richiamano alla memoria altri padroni, quelli porcini e ammiccanti di Tullio Altan (che viene infatti scherzosamente citato nel libro).
Davvero ci è riservata solo l’opzione della resa incondizionata? A me pare di no: in primis, perché non di un’opzione si tratta, bensì d’una condanna; in secondo luogo perché può darsi che, un giorno o l’altro, i milioni di Dusan d’Europa finalmente si sveglino.
Nessun commento:
Posta un commento