Il vento turbina in questo squallido cortile, incastrato fra i palazzi grigi, sollevando foglie morte, polvere che finisce per incollarsi al vetro della mia finestra, cartacce buttate lì ai ragazzini che vengono a giocare in cortile, restituendomi una visione opaca e sfumata del mondo, come se questo fosse avvolto da una sorta di nebbia. Sono giorni che questo vento caldo soffia, e non cade una goccia di pioggia, in questa primavera così strana, grigia, secca e calda. Grigia come i miei capelli, secca come le mie dita, piegate all’artrosi, calda come una febbre di vita che mi sfugge, ogni giorno che passa e che mi avvicino sempre più alla fine. Sono un comunista, ho dedicato alla Causa tutta la mia vita, e quindi sono ateo. Eppure, negli ultimi tempi mi capita sempre più di pensare a cosa succederà dopo la fine di questa vita. E cosa ci dovrebbe essere, per gente come me? Anche se esistesse un Dio, non sarebbe un Dio pietoso. Un Dio che lascia morire gli innocenti, i poveri, i bambini non è un Dio pietoso. Ho smesso di pensare all’esistenza di un Dio pietoso quando, tanti e tanti anni fa, durante la guerra civile, rovistando fra le macerie di una masseria centrata in pieno da un proiettile di artiglieria, sparato per errore, trovai il cadavere di un ragazzino, con la testa semi carbonizzata. Avrà avuto forse 4 o 6 anni, difficile dirlo, date le condizioni del corpo. Le mosche iniziavano già a posarsi su di lui. Non un fascista, non uno del FLN, non uno del Balli Kombater. Solo un povero bambino innocente, bruciato in casa sua, forse mentre giocava o dormiva, ignaro di tutto, incolpevole, oltretutto ucciso da un tiro di artiglieria sbagliato. Non era però morto sul colpo; era morto carbonizzato nell’incendio, aveva avuto il tempo di soffrire ed urlare disperatamente. Che senso aveva avuto la sua morte, così atroce? Quale Dio, quale Provvidenza divina, avrebbe potuto permettere una cosa simile? Di cosa andavano cianciando i pope e gli imam a quei poveri fessi che affollavano le chiese e le moschee, alla ricerca di cosa, di un senso alla vita? Di quale senso? Ricordo un discorso tenuto da Mehmet Shehu ad una riunione di comandanti di divisione del FLN. Brandendo la mitragliatrice, urlò che la ragione era dalla nostra parte. Perché? In questi ultimi anni, così bui e solitari, tendo sempre più a pensare che il perché è semplicemente che eravamo più armati dei nostri avversari. La verità è di chi ha la forza di imporla agli altri. E si tratta di una verità che, ai miei occhi, ha sempre avuto lo stesso valore delle verità rivelate a messa dai preti ai loro fedeli. In fondo, anche le Chiese di tutto il mondo hanno sempre affermato le loro verità con la forza: basti pensar alle crociate dei cattolici, alle guerre sante predicate dal Corano. Ricordo che nel ’65 andammo a requisire una chiesa ortodossa, a Durazzo. C’ero io, che all’epoca ero segretario cittadino del partito, c’era un tenente del Sigurimi, venuto apposta da Tirana, giovane giovane, con due guance rosse come fuoco e le efelidi attorno al naso, che si muoveva impacciato nella sua divisa verde fresca di stiratura, che voleva sembrare solenne, ma non lo era affatto. C’era poi il commissario della stazione locale di polizia, con il pancione che, ad ogni passo, gli saltellava molle dentro la camicia azzurra screziata da grosse macchie di sudore, che per l’occasione si era portato dietro due agenti. Era una giornata molto calda ed assolata, e dovemmo farci tutta la strada fino alla chiesa da requisire a piedi, poiché la vecchia Zastava del commissariato di polizia aveva esalato l’ultimo respiro, in una nube di gas biancastro puzzolente, quando un agente aveva provato a metterla in moto. Camminavamo in silenzio, io ed il tenente del Sigurimi davanti, i poliziotti dietro, con il grasso commissario che arrancava ansimando pesantemente, lungo uno stradone sterrato, fra due fila di palazzi bassi, grigiastri, edificati negli anni Cinquanta. Alcuni cani randagi ci correvano dietro abbaiando, però tenendosi a debita e prudente distanza, come se in fondo ci temessero, o ci disprezzassero. La chiesa era una specie di punto di riferimento in quel quartiere, e dalle finestre dei palazzi la gente ci osservava avanzare verso la nostra missione di requisizione in silenzio. Le vecchie, strette nei loro abiti neri, ci osservavano con disprezzo, con quello sguardo fisso, che non si abbassa, tipico di chi non ha più nulla da perdere (chissà se ora, nella mia vecchiaia, ho anche io quello sguardo, senza saperlo). Ma noi tiravamo diritti: la chiesa andava svuotata, il pope con la sua famiglia buttato fuori, tutti gli arredi e gli oggetti della chiesa catalogati, etichettati e spediti al commissariato, da dove dovevano poi essere inviati a Tirana (ma molto più verosimilmente, lo sapevamo benissimo, scomparivano negli ingranaggi della corruzione e del contrabbando). Entro un mese, quella chiesa doveva diventare una palestra per anziani. La scena era la solita: la moglie del pope che strillava, i figli piccoli che ci guardavano attoniti, senza capire cosa succedesse, i poliziotti sudati e stanchi che entravano ed uscivano dalla chiesa trasportando grossi crocifissi in legno, pesanti mobili, grosse icone, palle da incenso dorate, e che, per la stanchezza, il caldo e l’esasperazione urlavano come bestie, il tenentino del Sigurimi, messosi proprio in mezzo all’andirivieni degli agenti, che cercava di impartire ordini a tutti, senza che nessuno lo ascoltasse. Ad un certo punto, il pope mi si avvinghiò addosso, tenendomi stretto per il bavero della giacca, e biascicando, fra le lacrime che gli bagnavano la folta barba grigia, richieste di pietà, suppliche di interrompere quella che definiva “ una vergogna di fronte a Dio”. Mentre mi teneva stretto, sentii il suo odore penetrarmi nelle narici, un misto di incenso stantio, sudore, polvere e paura. Mi diede subito un conato di nausea. Inoltre costui stava sfriccicando la mia giacca buona, quella dell’unico abito buono che avevo. Era troppo per me. Lo scostai brutalmente, e gli dissi, sibilando rabbioso fra i denti: “stai zitto, prete. Noi qui stiamo ripulendo il quartiere da voialtri topi di fogna, schifosi mercanti di balle e menzogne che non siete altro”. Lui rimase lì, piantato, come allocchito, a guardarmi fisso negli occhi. Ricordo che aveva enormi occhi neri, tondi e sgranati. Allora mi avvicinai di un passo e gli mollai un sonoro ceffone, che gli rivoltò la faccia dall’altra parte. E mi allontanai da lui, paonazzo di rabbia, mentre i due agenti e il commissario avevano interrotto il loro lavoro di sgombero, per osservare la scena, con stupidi sorrisetti compiaciuti in quelle facce da sbirri. A tanti anni di distanza, ancora non so perché picchiai quel pope. Era un nemico del popolo e del partito, ma in fondo stava solo difendendo la sua chiesa, la sua casa e la sua famiglia. Un uomo ha il diritto, anzi il dovere di difendere tutto ciò. Non so…forse lo schiaffeggiai per non vedere più quei suoi occhi, così neri e profondi, nei miei, forse perché rividi, in quel momento, la faccia semi carbonizzata di quel bambino, in quella masseria distrutta dall’artiglieria, e tutto il suo carico di assurdità, di non senso. Non mi chiedo nemmeno che senso abbia tutto questo pensare attorno alla morte ed alla vita. Ho soltanto paura di morire, e basta. Questa fiammella che ci tiene aggrappati al mondo è l’unica cosa che abbiamo, alla fine dei conti. Chissà che fine avrà fatto quel vecchio pope…ora che l’autunno mi stringe nelle sue mani fredde, vorrei sapere che ne è stato di lui. E la sua famiglia? Con ogni probabilità, dopo averli sloggiati, li avranno tutti quanti spediti in esilio forzato da qualche parte remota, nell’interno. Lui e la sua famiglia avranno vissuto il resto della loro vita, e forse la stanno ancora vivendo, in qualche villaggio per esiliati, sorvegliato da qualcuno del Sigurimi, a lavorare nei campi, o in qualche fabbrica tessile, o in una miniera di cromo. Chissà…non mi basta più sapere di aver fatto il mio dovere, in quel lontano giorno del ’65, per sentirmi tranquillo e non pensare più a loro. Qualche volta, nelle mie brevi ed agitate notti di sonno, rivedo in sogno quel pope, che mi fissa, con occhi severi, senza dirmi niente. Se ne sta lì, ritto al centro di uno scenario tetro di alberi spezzati, campi aridi e cielo grigio, e mi fissa, e non dice niente, e questo osservarmi silenzioso è così esasperante, così angoscioso. Vorrei urlare per spezzare quel pesante silenzio, e non mi esce voce. Vorrei muovermi, ed invece rimango lì, appeso a quello sguardo silenzioso, indagatore. E finisco per svegliarmi in un’altra mattinata solitaria, silenziosa, fra queste quattro mura, ad aspettare la fine.
Il vento mi porta alcune voci di bambini, giù, in fondo al cortile, scuotendomi da questi pensieri. E allora, con estrema lentezza, per non sentire la solita fitta di dolore alla schiena, mi sporgo a guardare: una gazzarra di ragazzetti scuri e urlanti corre dietro un pallone fatto con la pezza, giù nel cortile del palazzo. Li guardo dall’alto correre, spintonarsi a vicenda, cadere nella polvere e rialzarsi come se niente fosse. Ecco per chi abbiamo edificato questo paese, nel sangue e nel dolore. Per loro. Per la nuova generazione. Una nuova generazione di piccoli uomini, affrancata culturalmente dalle influenze negative del pensiero borghese, piena delle energie e dell’entusiasmo che a noi della vecchia guardia sta iniziando a venir meno, senza i sogni angosciosi che provengono dal nostro passato amaro di combattenti. Una nuova generazione che avrebbe finalmente edificato la casa del comunismo, la meta finale, dove tutti finalmente saremmo stati uguali e nessuno avrebbe più imposto una dittatura su altri uomini. L’ultimo sforzo, l’ultimo agognato obiettivo. Lo dovrebbero costruire loro. Ma se li guardo dall’alto della mia torre di avorio, giù nel cortile che giocano a calcio, non mi sembrano i titani che quest’ultimo sforzo meriterebbe. Mi sembrano piuttosto tante formichine che si accapigliano attorno ad un pallone, alla ricerca di un’azione di gioco spettacolare, alla ricerca di un dribbling per liberarsi dagli altri bambini, alla ricerca di un goal, per mettersi in luce davanti ai loro amichetti, per essere protagonisti, per differenziarsi dagli altri, per sopravvivere. Come noi tutti esseri umani, da sempre. Né più né meno. Nessuna traccia dell’Uomo Nuovo che volevamo costruire, nel sangue, nel sudore e nel fango che ci ha bagnati fino al midollo. Cosa abbiamo fatto?
“Signor Bashkim…compagno!”. La voce squillante, ben conosciuta, mi strappa dai miei pensieri con violenza. “Compagno, sto andando al mercato, mi date la vostra tessera, che vi compro un po’ di carne?” “Compagna Liri, come al solito siete entrata in casa con la vostra chiave senza suonare prima il campanello. Un bel giorno, mi farete venire un colpo, e sarete responsabile della mia morte!” Ride fragorosamente, tenendosi il fianco con una mano. E’ una gioviale e grassa popolana, sui 50 anni, permanentemente con un grembiule da cucina che le fascia gli enormi fianchi. Un prototipo vivace e laborioso di quel proletariato per il quale tanto abbiamo lottato, mi viene da pensare. Il marito fa il calzolaio, lei lavora in un’officina meccanica, in periferia, e poi torna a casa in autobus e si occupa prima di me, assicurandosi che io mangi, rifacendomi il letto, dando una spazzata al pavimento ed una lavata alla cucina ed al bagno, poi torna a casa sua, ad occuparsi della sua numerosa famiglia. Io non le ho mai chiesto di aiutarmi. Fin dal primo giorno in cui mi sono trasferito qui, lei si è offerta spontaneamente di accudirmi, di accudire un povero vecchio, un relitto ossuto e scorbutico di un periodo che non c’è più. All’inizio non ho gradito affatto queste attenzioni non richieste. Sono un solitario, lo sono sempre stato. Non ho dato niente a quella donna o alla sua famiglia, per cui niente pretendo da lei. E per ovvi motivi non sono mai stato favorevole al lavoro domestico femminile. Uno dei motivi che mi ha portato sulla strada del comunismo è stato quello di vedere, quotidianamente, la schiavitù domestica alla quale era soggiogata mia madre. Lei che, china sulla sua ernia iatale, puliva il pavimento con uno straccio lurido in mano, mentre mio padre beveva caffè seduto nel soggiorno. Ho odiato mio padre per questo. L’ho odiato per tutta la vita, e siccome era un seguace di Re Zog, allora per oppormi a lui io divenni comunista. Per differenziarmi da lui, da quel primitivo selvaggio che faceva di mia madre una schiava. Ora, questa signora mi ha aiutato spontaneamente, senza alcuna ricompensa, sin dal primo giorno che mi ha incontrato. Semplicemente perché nel suo sistema di valori un anziano non può restare solo. Se sapesse le cose che ho combinato nella vita, la gente che ho ammazzato, lassù in montagna, chissà se sarebbe ancora così disponibile. Eppure, è un fatto che sia riuscita a penetrare la mia solitudine, a darle un piccolo senso, senza chiedere niente, dando e basta. Non voglio ammetterlo a me stesso, però io passo la giornata aspettando la sua venuta. Non che io mi aspetti niente di più da lei di quello che mi dà. Però mi basta a dare un minimo di ordine a quell’interminabile silenzioso unico momento di solitudine che riempie i miei giorni. Spezza questo unico lunghissimo attimo che satura l’intera mia vita. Mi restituisce una qualche forma di varietà nella monotonia di questo tempo insensato, che passo aspettando una morte che non riparerà niente, che non mi porterà in nessun altro posto. Inoltre mi evita di uscire di casa. Sono oramai sei anni che non esco più. Lei mi va a prendere persino la pensione ogni mese. Non voglio saperne più niente del mondo. L’ho vissuto a sufficienza per sapere che, senza sogni o ideali, è solo una vuota pattumiera di mediocrità, violenza e caos. E quanto agli ideali, non so più cosa pensare. Non so più cosa augurarmi. Ho lottato ed ucciso per i miei ideali. Ho sofferto ed ho imposto sofferenza, sempre in nome di un ideale superiore di uguaglianza e di felicità finale del genere umano, un ideale tanto superiore che giustificava ogni cosa. Ma dal pozzo buio del passato, dallo strapiombo di anni dimenticati e bui, il dolore, tutto il dolore, quello inflitto e quello subito, risale, per tormentare le mie notti, per offuscare la mia mente. Sento, oramai da tempo uno spazio vuoto e freddo che si apre nel mio cuore, ed è come se mi divorasse dentro, sempre più, sempre più. Forse è soltanto la morte che si avvicina. E comunque non sento rimorso per quello che ho fatto. Ho sempre agito nella coscienza di fare la mia parte per la liberazione dei poveri, dei proletari, dei disperati di questo mondo triste, senza giustizia. Sento solo un freddo vuoto, ed un dolore indistinto e confuso dentro di me, nel profondo. Una punta di dolore che risale, quando mi guardo attorno e credo che tutto questo, alla fine, forse, potrebbe non avere avuto realmente senso. Ed allora non avrei avuto il diritto di procurare dolore neanche ad una mosca. Ed avrei anche avuto il diritto di cercare un po’ più di felicità per me stesso, anziché dedicare la vita al partito, ai compagni, che oggi non mi vengono mai a trovare, in questa mia prigione di lusso. Tutto qui.
La donna si muove con fare certo nella mia casa. Sento lo sciacquio dei piatti nel lavabo della cucina, i suoi passi rapidi, senza esitazioni. Ecco una persona che sa esattamente che cosa vada fatto: prendere i piatti da una parte, lavarli con un determinato prodotto, sciacquarli, asciugarli e riporli esattamente in un dato posto, affinché possano asciugare rapidamente, ed essere facilmente raggiungibili da me, quando li dovrò usare, tenuto conto che la mia artrosi mi impedisce di stendere il braccio per prendere oggetti posti troppo in alto, o di piegarmi per prendere oggetti collocati troppo in basso. Perlomeno in materia di lavori domestici. Strano che chi sappia sempre cosa vada fatto in genere è una persona tutto sommato semplice, di modesta istruzione. Chi ha una struttura mentale e culturale più evoluta, tende a perdersi nei meandri di tutte le possibilità aperte, delle possibili conseguenze che ciascuna possibilità comporterebbe, delle probabilità di accadimento di ogni possibile conseguenza, del valore etico e utilitaristico di ciascuna di queste possibilità, e così via, smarrendo le proprie orme in un viaggio potenzialmente senza fine. Forse è per questo che Marx ed Engels contavano sul proletariato per decidere le sorti dell’umanità. Una classe sociale fatta da persone semplici, ma dirette e risolute. Non intellettuali dai sottili ragionamenti, esili e vischiosi come una ragnatela che ti si stringe addosso, impedendoti i movimenti. Poi però il comando della Rivoluzione è stato assunto da élite intellettuali, quasi ovunque. Tranne che da noi. I compagni Hoxha e Shehu sono uomini di azione, non certo fini teorici. Lazar Funda era invece un raffinato intellettuale ed uomo di cultura. Ed ha fatto una brutta fine nel ‘44. Eliminando i componenti non ortodossi del partito (trotzkisti, anarchici, revisionisti, socialdemocratici e chi più ne ha più ne metta) abbiamo semplificato al massimo le questioni, nel senso che praticamente non abbiamo più dibattuto su niente. C’era una linea sola: quella imposta dai sopravvissuti alle purghe che assunsero il potere, cioè Hoxha, Shehu e Kapo. Si faceva ciò che il nostro leader massimo indicava. E basta. Ma la domanda è: il nostro Paese si sta effettivamente muovendo più rapidamente, senza lacci e lacciuoli di infinite discussioni intellettuali, sul cammino del socialismo? Oppure è comunque immobile?
“Compagno Bashkim”. La voce forte, franca della donna interrompe bruscamente i miei pensieri, facendomi trasalire. E questo, alla mia età, non lo sopporto affatto. Mi volto inviperito, e lei è lì, alle mie spalle, con la sua poderosa presenza che occupa tutto lo stipite della porta. Sorride, un sorriso da ragazzina. “Compagno, visto che lei ha il frigorifero, posso portare della pastasfoglia fresca? Serve per fare la baklava…sa, domenica prossima si sposa mia nipote”. Cerco di dominare la mia irritazione, come osa questa donnetta interrompere il filo dei miei pensieri, la ricerca di un intero senso alla mia esistenza, per parlarmi della baklava e di sua nipote? Contenendo la rabbia, le rispondo, farfugliando “certo, se vuole”. Se possibile, il sorriso della donna diventa ancora più largo, in una sorta di infantile gratitudine, per un favore da niente come questo. Poi strizza l’occhio, e mi dice “beh, allora una baklava se la merita anche lei, compagno”. E’ troppo per me. Con gli anni, è come se la gola mi si fosse ristretta, e non riesco più ad urlare con la voce tuonante che usavo nei confronti dei miei collaboratori, nella sezione del partito. Quando provo ad urlare, mi esce fuori un rantolo soffocato, poco autorevole. Ma quello che conta è evidentemente la mia faccia, più che la mia voce, perché il sorriso scompare immediatamente dal volto della donna. “La smetta di importunarmi con la sua baklava. Noi qui stiamo affrontando una emergenza alimentare in tutto il Paese, abbiamo dovuto reintrodurre le tessere di razionamento, ci sono bambini che non bevono nemmeno il latte, e lei mi viene a parlare di un dolce? Ma la sua coscienza dov’è, razza di…stupida donnetta!” L’ultima parte dell’invettiva mi esce con un soffio strozzato, come il chioccio di una gallina roca. La donna assume un’aria contrita, si gira e se ne va. Uscendo, chiude la porta di casa con cautela, quasi a non volermi disturbare ulteriormente. Ed ecco che un enorme vuoto si impossessa di me di nuovo. Sento aghi di freddo che mi pungono la schiena, e so che non servirebbe a niente cercare un plaid nell’armadio. Non è un freddo che si può combattere. E’ il freddo della solitudine, di questo tempo che, dopo il breve intermezzo della donna in casa mia, torna a congelarsi, ed a dilatarsi in un infinito presente, senza sussulti, senza eventi, solo riempito dai miei ricordi. Ed ecco che ricordo quel ragazzo, come si chiamava? Adrian Bashti. Si, proprio così si chiamava. Era il segretario cittadino del Fronte Democratico di Durazzo, proprio quando io ero il segretario cittadino del partito. Era una vera promessa, così giovane, appena ventottenne, e già segretario di una organizzazione di massa così importante. Io ero quarantacinquenne, e oramai non nutrivo più grandi speranze di ulteriori avanzamenti di carriera, speravo solo di sopravvivere nella mia funzione. Era l’estate del ’60. Si era appena consumata la rottura delle relazioni con l’URSS. Tutta l‘organizzazione del partito era percorsa dai fremiti di una enorme epurazione dei militanti considerati pro-sovietici. Erano mesi di grande tensione, nel partito, ma anche negli uffici e nelle fabbriche, tutti avevamo paura di tutti. Ogni collega, ogni amico con il quale, fino a poco tempo prima, si andava a prendere un caffè nella piazza centrale, poteva essere un potenziale delatore, poteva essere colui che ti denunciava al Sigurimi, che ti rovinava, che rovinava la tua famiglia insieme a te. Non mi fidavo più nemmeno di Alì, un membro del mio stesso clan, che lavorava all’ufficio stampa del partito, grazie ad una mia raccomandazione. Ed ecco che un bel giorno questo tale Adrian Bashti si presenta nel mio ufficio, senza essere invitato. Questo ragazzo mi aveva sempre manifestato una sorta di adorante rispetto. Io ero un ex partigiano, lui, durante la guerra di liberazione nazionale era a malapena un ragazzino in pantaloncini corti che scorrazzava per le strade di Durazzo, accanto ai blindati delle Waffen SS. Io ero un esempio vivente di quella generazione di eroi che aveva lottato su, nelle montagne, per portare la Rivoluzione proletaria in questo Paese. Il mio nome, insieme a quello degli altri comandanti di brigata, veniva ogni anno declamato dal compagno Hoxha nella festa della liberazione nazionale. Avevo chiara la percezione che quel ragazzo mi vedesse come un’icona, come il simbolo di tutto ciò in cui credeva e di quello che lo ispirava nel suo lavoro e nella sua visione, un po’ romantica, come quella di tanti giovani, di ciò che sarebbe stata la nuova Albania comunista. Ed ecco che me lo vedo arrivare, trafelato e sconvolto, nel mio ufficio. Si siede, e mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite. Si butta sulla sedia, senza nemmeno che io lo abbia invitato ad accomodarsi. Non mi tende nemmeno la mano. “Compagno”, mi dice, “le devo confessare una cosa”. Lo guardo attentamente. “Stamani sono passato a trovare mio fratello, che abita dalle parti del porto. Così, solo una vista di cortesia, prendere un caffè e via”. Deglutisce nervosamente. Istintivamente, i miei sensi si risvegliano, sotto le campane di un allarme. Cosa sta succedendo? Il ragazzo sembra aver perso il coraggio di andare oltre. Innervosito e spaventato, alzo la voce: “allora? Che vuoi, compagno? Guarda che ho da fare”. Dentro di me sento che non vorrei ascoltare niente altro più. Non vorrei sapere niente. Invece il ragazzo sembra rianimarsi, e prosegue: “ecco, mentre mio fratello è uscito, per andare nella cucina dell’androne del palazzo a preparare il caffè, io ho dato uno sguardo, così, per pura curiosità, alla sua biblioteca. Ed allora, che ho visto?” “ Che hai visto?” Gli chiedo, sempre più spazientito. “Un libro in russo, cioè in caratteri cirillici, che parla della bonifica di una grande palude nel Kazakhstan decisa da Krusciov”. Non c’era bisogno che aggiungesse altro. Era evidente il pericolo che correva un tizio a tenere un libro simile a casa sua, in quel periodo. Ed il pericolo che, parallelamente, correvano anche i suoi familiari, ivi compreso questo sgomento giovanotto che mi stava davanti. Insospettito, non sapendo se questa fosse soltanto una manovra per farmi cadere in una trappola, gli rispondo: “è un fatto gravissimo. Quel libro è senz’altro un’opera dei revisionisti sovietici ed è proibito tenerlo. Tuo fratello su quale pianeta vive?” Osservo, con una attenzione ancora maggiore, le reazioni del ragazzo. Sto ancora cercando di capire se sia un delatore del Sigurimi, o che voglia da me. Mi sembra ancora più sgomento e spaventato. Ma questo non vuol dire niente. Potrebbe semplicemente essere un buon attore. Cercare di carpire la mia fiducia, farmi dire qualche cosa di sbagliato, che poi possa servire per incriminarmi, per farmi condannare come filosovietico. Il silenzio si fa pesante, insopportabile. “Perché mi sei venuto a raccontare questo?” gli chiedo, per spezzare quella cappa insopportabile che è calata nella stanza. “Sai qual è il mio dovere, adesso che mi hai raccontato di questa cosa”, aggiungo, per tenermi al riparo. Il ragazzo tende le mani verso di me, in uno scatto che mi fa pensare alla disperazione di chi sta affogando. “No, no, compagno, ascolta” farfuglia. Mi verrebbe una gran voglia di acchiapparlo per il colletto della camicia e sbatterlo fuori. “Ascolta, questo mio fratello ha famiglia. Ha due bimbe piccole che vivono con lui, la moglie è scappata con un altro uomo due anni fa. E’ un buon comunista, è sempre stato leale. Credo, anzi sono sicuro, semplicemente che quel libro se lo sia dimenticato lì, abbia dimenticato di buttarlo via, dopo che le cose, in politica estera, sono cambiate. Ascolta, io sono venuto qui a chiederti aiuto, e consiglio. Per carità, ascoltami. Non mi rovinare, non rovinare mio fratello. Dammi un consiglio. Cosa devo fare, come devo fare per liberarmi di quel libro?” Sono allibito. Se mi volevano tendere una trappola, mi sembra che sia il modo più stupido ed ingenuo che avevano a disposizione. Non mi sfiora nemmeno per un secondo l’idea, nella mia mente in preda al panico, che il ragazzo sia venuto veramente a chiedermi aiuto, perché mi ammira. Mi alzo in piedi, tendo l’indice verso la porta ed urlo “fuori”. Il ragazzo ha gli occhi sbarrati, cerca di rispondere qualcosa ed allora io gli urlo di nuovo “FUORI!”. Ha gli occhi che si stanno gonfiando di lacrime, ma si alza e raggiunge l’uscio. Non appena esce, un’ondata di panico mi travolge. Sento che devo fare qualcosa, e farlo in fretta, se davvero questa è una trappola, e se voglio salvarmi la pelle. Devo dare una dimostrazione immediata di fedeltà. Dita madide di sudore compongono il numero di telefono della sezione distrettuale del Sigurimi. Riferisco all’ufficiale di turno la conversazione con il ragazzo. Poi mi accascio sulla mia sedia, aspettando gli eventi. Ho paura, davvero paura. L’ultima volta che ho avuto tanta paura è stato durante la guerra, quando, rannicchiato dietro un cespuglio con la mia unità, attendevo il passaggio di una colonna dell’Esercito italiano, per tendere loro una imboscata. Lo stomaco mi si contorce dal terrore, vorrei tornare a casa, eppure so che sarebbe una pessima idea. Se uscissi dall’ufficio alle undici di mattina per tornare a casa desterei dei sospetti. Mi costringo a rimanere seduto, pietrificato. Mi verso un bicchiere di Rakija, raro privilegio di chi è nella mia posizione. Ma fino a quando? Poi dopo un bicchiere ne viene un altro. Ogni rumore che proviene dalla sala attigua al mio ufficio mi fa trasalire. Temo che sia la polizia venuta ad arrestarmi. Cala la sera, ed io sto ancora chiuso nel mio ufficio, come un topo spaventato. Verso le cinque, decido di alzarmi ed uscire. Mi sento le gambe di gomma. Esco. Un funzionario del partito, che incrocio nel corridoio, mi ferma e mi dice “compagno, la sai l’ultima novità?” “Quale?” “Il segretario del Fronte Democratico, quel Bashti”. Un’onda gelida di terrore scende lungo la mia schiena, mentre mi sforzo di rimanere calmo. “Beh, oggi all’ora di pranzo la polizia ha fatto irruzione in casa del fratello, ed ha trovato dei libri sovversivi. Lo hanno arrestato, e mezz’ora dopo è arrivato un telex da Tirana: Bashti è stato immediatamente rimosso dalla sua funzione, ed arrestato a sua volta”. Io sono un mostro. L’ho capito in quel preciso istante, perché anziché provare rimorso per quel ragazzo, che mi stava raccontando la verità, e che mi ammirava e si fidava di me, e che invece ho tradito, provo soltanto un enorme sollievo, come se qualcuno mi togliesse dalle spalle un enorme fardello. “Hanno arrestato anche la moglie di Bashti”, continua a raccontarmi il tizio, ed io allora gli chiedo “so che il fratello di Bashti aveva due figlie piccole. Che fine faranno?” L’uomo mi guarda per un secondo: come faccio a saperlo? Poi mi risponde, in tono asciutto: “beh, compagno, lo sai anche tu. In questo caso i bambini vengono tolti ai genitori, per evitare che siano contaminati dalle loro cattive influenze, e spediti in un istituto per l’infanzia”. “Giusto”, commento io, e mi accomiato dal tizio. Un enorme senso di vuoto sostituisce la paura e di sollievo. Ho fatto solo il mio dovere. L’indomani, quando rivedo la fotografia di Bashti sulla prima pagina del Zeri Popullori, butto via il giornale, come a volermi distaccare da quanto avvenuto. Ho fatto solo il mio dovere, a denunciarlo, penso, e poi se si fosse trattato di una trappola contro di me? Come facevo a saperlo? Penso e continuo a pensare. Voglio convincermi che non sento alcun senso di pietà, o di rimorso, e lotterò per anni interi, anzi, per tutto il resto della mia vita, per affermare dentro di me questa convinzione. Però. Negli anni, mi sono informato di come procedeva la vicenda. Il fratello fu incarcerato per 3 anni, poi uscì e venne inviato in un campo di lavoro, per altri 10 anni. Scontata la condanna, ha potuto fare ritorno a Durazzo, con una modesta pensione e con un attaccamento patologico alla bottiglia. E’ morto di cirrosi epatica cinque anni fa. Bashti è stato espulso dal partito, degradato a semplice lavoratore agricolo e spedito a fare il bracciante in una fattoria collettiva dalle parti di Lushnje. Il suo matrimonio è naufragato. Non ha più potuto rivedere le sue nipoti, fino al giorno del matrimonio della maggiore. Nel corso degli anni, con estrema discrezione, mi sono adoperato per fare trasferire le bimbe del fratello in un istituto più confortevole, a Tirana, per farle studiare, ed ho usato le mie conoscenze affinché potessero iscriversi all’università, malgrado il fatto che per delle figlie di prigionieri politici ciò sia pressoché impossibile. La più grande lavora come ingegnere idraulico dalle parti di Scutari, e si è ricongiunta allo zio, che nel frattempo è andato in pensione, ed ha ottenuto l’autorizzazione, sempre grazie ai miei uffici, per lasciare Lushnje. La più piccola è entrata al Ministero della Sanità. Per anni sono stato tormentato da un sogno: mi trovavo nel mio vecchio ufficio del partito, sul calar della sera, guardando fuori dalla frinestra, in una piazza piena di gente, che sentivo lontana da me, mi giravo e vedevo Bashti, ritto di fronte a me, che mi osservava, in silenzio, con le manette ai polsi. Non c’era odio nei suoi occhi, non c’era risentimento. Solo una enorme tristezza, come quando il sogno di una vita naufraga, come quando i tuoi eroi ti tradiscono. Per anni, ed ancora oggi qualche volta lo sogno. Quando riuscii a far entrare all’università le nipoti, lo sognai di nuovo. Mi guardava. Poi si trasformò nella figura di mio nonno paterno, cui ho voluto un gran bene. E mio nonno, vestito in abiti tradizionali, con i grandi baffi bianchi, mi diceva, scuotendo la testa, “povero Bashkim, è dentro di te che devi trovare redenzione, non fuori”. E poi mi toccava la mano, e il tocco della sua mano era così reale, così tangibile, come il tocco di una persona viva, e non di chi è morto da decenni, che mi fece rabbrividire. Questa è stata la mia condanna, per aver tradito chi credeva in me. E mi sono stufato, ad un certo punto, di doverla sopportare, così che sono tornato a quel senso di vuoto interiore che mi era così familiare, quel vuoto che provai quella sera, parlando con il funzionario di partito. Niente rimorso, niente senso di colpa. Solo un vuoto totale, l’assenza di qualsiasi sensazione. Ed ecco che anche oggi, dopo aver trattato come ho trattato quella povera stupida donnetta, il vuoto avanza ancora dentro di me. Sento le sue dita fredde avanzare, ancora di un po’, dentro le mie viscere. E allora penso che sia venuta l’ora di schiacciare un bel pisolino.
La sera è arrivata, una sera pesante, particolarmente scura, in questa primavera senza speranza. I lumicini delle case nel palazzo di fronte sembrano tanti ceri funebri. Scintillano, incerti, nel vento freddo della notte, in ogni momento sembrano sul punto di spegnersi. Sono così fragili, così insignificanti. Dentro quelle case vi è una vita rigurgitante, famiglie intere sedute attorno ad un tavolo, mentre le donne si affaccendano ad organizzare una cena. Uomini ancora impolverati, dopo aver lavorato tutto il giorno in un cantiere, o in una officina, la testa stanca che ciondola nell’attesa di un sonno riparatore, bambini rumorosi, vecchi, vecchi proprio come me, circondati dal calore del loro clan, mentre io sono solo, in questo appartamento per vecchi funzionari di partito in pensione, o caduti in disgrazia, il che spesso è lo stesso. Con da mangiare la zuppa lasciatami dalla carità della compagna Liri. E niente caffè, niente sigarette. Niente rakija. Niente calore umano. Che peraltro non ho mai richiesto. Cosa sono gli uomini, in fondo? Quando non sono avvoltoi, opportunisti o camaleonti, sono pazzi, confusi, insulsi, noiosi, accattoni. Che bel teatro è quello umano. Mi ricordo di quando i tedeschi mi presero, sulle montagne di Argirocastro. Mi misero in carcere con un italiano, un ex militare che dopo l’8 Settembre era passato dalla parte di noi partigiani. Ma mica per qualche convinzione politica, mica per qualche superiore ideale. Macché! Lo aveva fatto un po’ perché con il disarmo del suo Esercito non sapeva più bene cosa doveva fare, un po’ perché si era accorto che non c’era migliore sistema di rubare, stuprare giovani contadinelle, farsi dare da mangiare a scrocco dai pastori, che unirsi ad una qualche banda di rinnegati, che si spacciavano per partigiani. Che tipo! Si chiamava Gino. Per tutti e tre i giorni che passammo in cella, fu il mio unico contatto con l’umanità. E passò quei giorni soltanto a piagnucolare “mamma mia, compà, che ci faranno chisti ‘ccà?” ed a raccontarmi della madre e della fidanzata che aveva lasciato a Salerno. E chissà se le avrebbe riviste, e poi mi chiedeva cosa ne pensassi io, se pensavo che magari ce la saremmo cavata. In fondo con quale diritto lo tenevano lì, lui? Non era nemmeno albanese. Non era nemmeno iscritto al partito comunista. Sicuramente lo avrebbero rilasciato, ed ecco che la testa si rialzava, il sorriso si faceva smagliante, su quei baffetti da don Giovani da strapazzo, ma poi, no, tutt’a un tratto gli prendeva lo sconforto, la testa ciondolava sul petto, le braccia pendevano inerti, grosse lacrime solcavano quel volto da figlio di puttana: “maronna mia, compà, ccà ce fucilano, maronna mia, aiutami tu”. E le notti le passava a recitare rosari ed a bisbigliare nella richiesta di aiuto ad una qualche entità soprannaturale. Dopo un giorno in cui cercavo pazientemente di sopportarlo, gli dissi, nel mio italiano rudimentale: “senti un po’, Gino, ma quelli ti hanno preso con addosso la divisa del FLN, in un’area notoriamente infestata da partigiani, cosa pretendevi, che ti facessero una festa?” Rimase fisso lì, ad osservarmi con una espressione stupida in volto, la bocca aperta, colto nel mezzo dell’ennesima supplica alla Madonna delle Grazie. Cercai di continuare nel modo più paziente che potei, quasi didattico “e ora a chi credi di pregare? Chi credi che ti possa aiutare qui dentro? Credi che se preghi abbastanza, arriverà l’Arcangelo Gabriele e ti farà evadere, portandoti via sulle sue ali dorate? Non hai un po’ di dignità?” “Allò, che pensi che ce faranno, cumbà?” chiese ansioso. “Non lo so cosa ci faranno, certo non ci offriranno un pranzo di gala”. “Ma ce tortureranno, c’ammazzeranno?” “Cazzo, ti ho detto che non lo so! Se avevi paura di morire, perché sei salito in montagna? Non è nemmeno il tuo Paese! Perché non affronti la cosa come un uomo, invece che come un verme?” “Guagliò, ma io tengo famiglia!” “E pensi che alla tua ragazza piacerebbe vederti in questo stato, piagnucolone che non sei altro? Vigliacco!” Mi guardò con occhi pieni di rancore, con le labbra tremanti, e per un secondo mi sembrò di avere di fronte un bambino a cui avevano rubato il gelato. Poi, ad un tratto, scoppiò in lacrime disperate, urlando “marò, ma chi me lo doveva dì a me! Morire accussì, in terra forestiera. Per chisti selvaggi!” Non ci vidi più. Lo presi per il bavero e gli mollai un cazzotto in bocca. Lo vidi stramazzare sul pavimento. Poi, steso in terra come un morto, mi guardò con un misto di sorpresa e disgusto, con la bocca che gli si riempiva di sangue, ed iniziò di nuovo a piangere, ma più sommessamente, come per non farmi arrabbiare di più. “Ora ascoltami bene, italiano di merda. Se ti azzardi di nuovo a chiamare la mia gente selvaggi, o se ti sento di nuovo pregare, ti ammazzo io prima che lo facciano i tedeschi, capito, CAPITO, STRONZO?” urlai fuori di me. Annuì leggermente. Non mi scocciò più. Al terzo giorno, gli chiesi “dì, vigliacco, quanti poveri contadini hai derubato nella tua banda di rinnegati?se ti ammazzano, te lo sei meritato”. Non mi rispose, rimaneva, in stato catatonico, ad osservare fuori dalla finestra della cella, forse pensando alla sua Salerno lontana, alla ragazza che non avrebbe più rivisto. Qualche ora dopo, entrò nella cella un caporale delle SS, seguito da due guardie, armate con mitragliatrici. Presero l’italiano sotto le ascelle, e lo trascinarono fuori, mentre lui si dimenava come un anguilla urlando “LASCIATEMI, LASCIATEMI STARE, SAN GIUSEPPE AIUTAMI TU, NON VOGLIO MORIRE, NON VOGLIO MORIREEEEE”. Piano piano, sentii le sue urla che scendevano di volume, mentre lo trascinavano via per i corridoi. Il suo san Giuseppe non deve averlo aiutato molto. Venne torturato come un cane fino al giorno successivo, per estorcergli il nome di qualche complice, poi all’alba venne finito con un colpo di pistola in testa. Io invece sono ancora vivo. E non ho dovuto supplicare nessun santo. Ci deve essere qualche importante insegnamento dietro tutto questo, che ancora oggi non afferro del tutto. Comunque, quel tizio non contribuì certo a farmi amare l’umanità. Ed è già ora di andare a dormire. Non c’è più tempo.
Sono anni che, come dicevo, non esco di casa. Non ne sento la mancanza. Il mondo non mi piace. Forse non mi è mai nemmeno piaciuto. Del mondo ho conosciuto solo la violenza, la stupidità. Ho ammirato ben poche persone nella mia vita, e quasi tutte per il loro coraggio, la loro intelligenza o la loro astuzia non certo per la loro capacità di amare, di essere generosi o amichevoli. Ho sempre considerato queste qualità piuttosto sciocche, tipiche di un debole. E a ben vedere non ho nemmeno mai considerato una virtù quella della coerenza. Altrimenti come avrei fatto a parteggiare per una fazione politica che prima, in piena guerra di liberazione, ha promesso libere elezioni democratiche, per poi instaurare una dittatura popolare; poi è stata filo-titoista, dopodiché filo-sovietica, filo-cinese, ed infine ha abiurato tutto e tutti per affermare la sua unica verità di esclusiva depositaria del reale significato del marxismo-leninismo? Certo, sarebbe possibile affermare, come hanno fatto i nostri dirigenti, che in realtà noi non ci siamo mai spostati da un’osservanza cieca dei dogmi del marxismo e dello stalinismo, e che erano gli altri, volta per volta, a tradirli progressivamente. Questo è anche vero, in parte. Non possiamo negare di essere rimasti fermi alla fine degli anni Venti, in termini di elaborazione teorica e di impostazione pratica delle nostre politiche e della nostra visione delle cose. Ma innanzitutto, e so di esprimere, in questo momento, un pensiero del tutto eretico, non sono proprio sicuro che tale fedeltà estrema ad un ideale, dopo sessant’anni, sia una cosa buona e positiva per i nostri cittadini e per noi stessi, incancreniti vecchiacci alla ricerca di un mondo che, forse, fuori dai nostri confini nazionali, al di là dell’Adriatico, non esiste più da molto tempo. Inoltre, non sono tanto sciocco da non capire quanto vi sia di tasso di menzogna nella politica, anche nella nostra, e sia pur per i nobili fini del progresso del proletariato e dei lavoratori sulla strada della Rivoluzione e della giustizia sociale. Dicono che, dopo la vittoria nella guerra di liberazione nazionale, i compagni Hoxha e Shehu abbiano pregato Allah per ringraziarlo. Non credo che questa voce sia verosimile, però non ho nemmeno mai creduto che Shehu si sia suicidato, che Xoxe, Ballaku, Maleshova, Kristo, Spahiu, e gli altri che sono stati fucilati oppure mandati al confino fossero necessariamente degli agenti segreti al soldo dei nostri nemici esterni. Erano semplicemente gente che aveva del processo rivoluzionario nel nostro Paese un’idea diversa da quella del nostro amato compagno Hoxha. E ciò non è considerato ammissibile. Punto e basta. Quindi non è per me possibile considerare la coerenza come una virtù degna di nota. Sarei io stesso incoerente con me stesso se la considerassi in questi termini.
La notte è passata, e la luce lattiginosa di un mattino, uno dei tanti mattini di questo mondo, grigi, insignificanti, monotoni, sordidi, riempie la casa. Chissà se la donna di ieri, che ho preso a pesci in faccia, oggi si farà vedere di nuovo. O se questa umiliazione è eccessiva anche per lei. Se non ce la fa più e non vuole più venire a darmi una mano. In questo caso, dovrò scendere a compromessi con i miei dolori reumatici ed i miei acciacchi, e darmi da fare per sistemarmi casa da solo. Questa solitudine nella quale sono rinchiuso, e dalla quale sarò liberato solo nel giorno della mia morte, mi rende molto più prossimo ai miei ricordi ed ai pensieri che vi rimugino intorno di quanto io sia mai stato nel passato. Io sono sempre stato un uomo d’azione, però ora l’Azione mi ha lasciato indietro, povero relitto dell’uomo che sono stato, per inseguire la Storia. Sono solo un povero vecchio, non più utile per la Storia, e la Storia mi ha abbandonato, come si abbandona una carcassa di auto arrugginita, in questo appartamento, fra queste mura che mi separano dall’aria libera, dagli odori e dai rumori del mondo. E non mi resta altro da fare che riempire le ombre che si allungano su queste grigie pareti dei miei ricordi, dei miei pensieri, delle mie fantasie. Prima che queste ombre mi divorino, devo tentare di umanizzarle, e l’unico materiale che ho a disposizione per farlo è la mia storia. Da bambino mia madre, devota ortodossa, mi mandava a messa. Ricordo ancora quel vecchio pope, che puzzava di incenso rancido. Una volta mi posò la mano sulla spalla, quella mano secca, con la pelle incartapecorita, che sembrava un artiglio. E mi disse: “ragazzo, tieni bene a mente ciò che ti dirò. Dio è infinitamente buono. Dio E’ la bontà pura. Quindi il male, il dolore e la sofferenza non provengono da lui. Lui non può volere la sofferenza per nessuno dei suoi figli.” Lo guardai allocchito. E allora, visto che il male e la sofferenza esistono, e dato che Dio è il padrone assoluto del cielo e della terra, da dove viene il male? Pensai fra me e me. Evidentemente, il vecchio prete intuì i miei pensieri, e proseguì: “il male proviene dagli uomini, che hanno il libero arbitrio. E che si fanno influenzare dal Demonio”. E disse queste parole stringendo ancora più forte la mia spalla, fino a provocarmi una fitta di dolore, ed osservandomi con occhi di fuoco, con quegli occhi che accompagnano una verità assoluta, che non consente dubbi né opposizioni. Ecco che si introduceva un nuovo attore sulla scena: il Demonio, il capro espiatorio sul quale scaricare tutto il male di questo mondo. Quindi, quando si parla di Dio onnipotente, evidentemente si commette un errore per eccesso. Dio non può essere tanto onnipotente se, suo malgrado, deve sopportare impotente le malefatte di questo malandrino di Demonio. La verità probabilmente è che l’elaborazione teologica della Chiesa cattolica ha operato una scissione artificiosa di un’entità che è unitaria. Dio è contemporaneamente bene e male. Le due cose si uniscono e si fondono inestricabilmente fra loro, il bene ed il male, la luce e l’ombra, il bianco ed il nero, in un’unica entità, come lo Ying e lo Yiang dei cinesi. Dio ci crea e ci distrugge. E’ al contempo un padre protettivo e perfido. Veniamo al mondo, e su questo mondo siamo felici, soffriamo, moriamo senza che vi sia un filo di senso, senza un ordine prestabilito, siamo abbandonati inermi al caos della Creazione, all’anarchia dell’Eternità, granelli di sabbia in un ingranaggio divino, il cui unico fine è quello di continuare a far funzionare il macchinario dell’universo. Se poi in questa meccanica universale qualcuno di noi soffre ingiustamente, qualcun altro riceve fortune incredibili, qualcuno muore, qualcun altro nasce, tutto ciò non riveste alcuna importanza per il Grande manovratore, impegnato in un’opera che va ben al di là dei singoli destini individuali. Ciò che ti insegnano i pope è che ti devi abbandonare completamente a questa meccanica, senza ribellarti, sperando che nella meccanica in cui sei inserito le cose ti vadano bene. La differenza fra un credente e un non credente è che quest’ultimo non intende abbandonarsi passivamente. Ritiene che, nell’ignoranza che circonda ciò che sarà dopo la nostra vita terrena, l’unica cosa che abbiamo certamente, qui ed ora, è la nostra esistenza. E che abbiamo il dovere di renderla il più piacevole possibile, per noi stessi e per gli altri. Questa è l’etica profonda del socialismo. Una religione dell’Uomo, del “qui ed ora”, contrapposta ad una religione protesa verso le impalpabili altezze di un cielo troppo lontano, verso Dei troppo distanti. Però nel tentativo di costruire una società giusta, ugualitaria, pacifica, abbiamo ucciso, abbiamo strappato i figli dalle braccia delle madri, abbiamo fatto patire il freddo e la fame ai nostri simili ed a noi stessi,
abbiamo separato gli innamorati. Abbiamo fatto del male, e praticato la violenza, in nome di un mondo più giusto e meno violento. Nell’inverno della mia vita, non posso permettermi più di essere così stupido da non cogliere l’enorme contraddizione di tutto ciò. Alcuni di noi, i migliori, hanno elaborato questa contraddizione nella sincera convinzione che tutto ciò sarebbe stato il male necessario affinché il Male stesso fosse estirpato per sempre dal mondo. Ma si può costruire il Bene dal Male, si può costruire la felicità dalla sofferenza, la pace dalla violenza, l’uguaglianza degli uomini dalla dittatura di una classe sociale sulle altre? Altri lo hanno fatto per pura ambizione, per sete di potere. Altri ancora per puro conformismo: gli veniva ordinato di fare del male dai loro superiori e loro lo facevano e basta. Possiamo noi, come i cattolici, rifugiarci dietro gli intrighi di un Diavolo tentatore, per spiegare questa contraddizione? Se crediamo, da buoni marxisti, nel determinismo della storia, se crediamo nell’immensa forza creativa dell’Uomo, no, non possiamo proprio credere che vi siano delle entità spirituali che ci dirigono. Sarebbe assurdo. E allora? Come uscire dal paradosso, così doloroso? Come dare un senso al sangue ed al dolore? Come dare un senso agli occhi pieni di lacrime di Tatjana, quel giorno del ’43 in cui ci separarono, perché il Comitato Centrale aveva deciso che doveva andare in sposa ad un comandante di divisione, e non a me, che l’amavo? Come spiegare tutto ciò? Come trovare un conforto in una costruzione sociale superiore, che ancora oggi stenta a farsi vedere, dopo tanti anni di dittatura del partito del lavoro? Non posso più nemmeno piangere. Ho esaurito tutte le lacrime che avevo. I miei occhi sono secchi. Ma proprio per questo mi consentono di vedere meglio. O forse no. Faccio un sogno ricorrente, da diversi anni a questa parte. Mi trovo in mezzo alla strada, e ovunque guardo vedo soltanto gente indaffarata a lavorare, con scalpelli, dei pezzi d’oro, per farne statuette o altri oggetti, e poi venderli. Ad un certo punto, il sole diventa rosso, il cielo si infiamma, e tutto questo oro in mano alle perso ne si scioglie, diviene liquido, e va a formare un enorme fiume di oro fuso incandescente, un fiume impetuoso, che riempie le strade, brucia fino alla morte le persone che vi si trovano incastrate, o che non fanno in tempo a salvarsi entrando dentro i portoni dei palazzi. E mi sveglio con questa angoscia, che non mi lascia più per il resto della giornata.
La donna di ieri, la compagna Liri, è tornata. Senza dirmi niente, guardandomi di sottecchi, con una espressione guardinga da cane bastonato dal padrone, che non sa bene se sia meglio starsene alla larga oppure avvicinarsi, ha iniziato in silenzio a rifarmi il letto e ripulire. Ha aperto le finestre e tirato un po’ su la persiana. Un raggio di luce biancastra, insignificante, si è stampato sull’armadio della camera da letto, disegnando un perfetto cerchio sulla superficie di legno. La dedizione di questa donna ad una causa che non è nemmeno la sua mi ha smosso qualcosa dentro. Non è commozione. Dentro di me sono come una foglia secca, pronta a staccarsi dal ramo. Non posso provare commozione. Ma nemmeno lasciare una proletaria lavorare per me, come se io fossi uno sfruttatore borghese. A piccoli passi, mi sono avvicinato alla credenza del salotto, ho tirato fuori una bottiglia di rakija impolverata, e l’ho allungata alla donna, biascicando “per suo marito, grazie per quello che fate per me”. Ma il suo sguardo pieno di gratitudine mi dava ancora più fastidio, allora l’ho stupita, dicendole “esco a fare una passeggiata”. Mi sono messo una vecchia giacca direttamente sulla vestaglia e sono uscito, così, senza esitazioni, per sfuggire a quello sguardo che mi penetrava dentro, che sondava in quel grande vuoto oscuro che c’è dentro di noi, quel vuoto che tutti noi abbiamo il diritto di preservare, di tutelare dagli occhi degli altri. Erano anni che non uscivo più di casa. Scendendo le scale, ho sentito le mie ginocchia scricchiolare, come ingranaggi mal oliati ed arrugginiti. Uscendo di casa, sono rimasto per un attimo senza fiato. Il vento fresco la luce del mattino le urla dei bambini l’odore di varecchina dei panni stesi ad asciugare nel cortile il guizzo di un cane che fruga fra l’immondizia il rumore in sfondo dei motori degli autobus lo sguardo curioso di una bambina, con una grossa forma di pane sotto il braccio. Tutto tutto tutto mi colpisce come uno schiaffo in pieno volto. Inizio a camminare lentamente, con circospezione, sentendomi un astronauta che perlustra un mondo alieno. Mi dirigo sulla strada principale. Una folata di vento mi sbatte in faccia una manciata di polvere. Starnutisco. Un paio di volte inciampo su delle piastrelle sconnesse del marciapiede. C’è un bar, semi vuoto. Solo un uomo corpulento, dall’aspetto di un operaio edile, siede abbarbicato al bancone, con tutto il corpaccione ripiegato su un bicchiere di liquore e la testa che ciondola sul petto. Forse è ubriaco, e si sta addormentando. Allora mi siedo ad un tavolino appoggiato alla vetrina, ed ordino un caffè. Dal vetro lurido e impolverato posso vedere una enorme statua di un partigiano, posta proprio al centro della strada. Il partigiano raffigurato dalla statua è proteso in avanti con il corpo, un piede indietro ed uno avanti, il braccio destro, con la mano che impugna un fucile, contratto sul fianco, il braccio sinistro disteso in avanti, con un dito che indicava una direzione vaga. Ma verso dove, verso dove indica? Fin troppo ovvio l’intento dello scultore: indica il progresso del socialismo, il Sol dell’Avvenire. I proletari non avrebbero dovuto far altro che accodarsi, seguire quel dito, ed avrebbero trovato il loro paradiso sulla terra. Il paradiso dei lavoratori, fatto di tessere di razionamento, tasche piene di soldi che non possono essere spesi perché non ci sono le merci da comprare, caffè fatto con le bustine ed edulcorato. Palazzi fatiscenti. Riscaldamento solo per alcune ore. Un solo bagno per tutto il pianerottolo. Biciclette cinesi sgangherate per andare al lavoro, e questa paura. Questa paura, che ci mette l’uno contro l’altro, questa paura che ci divide dai nostri stessi familiari, dai nostri cari, e che, dividendoci e rendendoci dei solitari disperati, diventa la nostra più fedele ed unica compagna, che ci portiamo dietro ovunque, come un’ombra dalla quale non possiamo sbarazzarci. Chi me lo assicura che la compagna Liri non sia un’agente del Sigurimi, che non venga a farmi le pulizie per mera generosità, ma perché incaricata di tenere sotto sorveglianza questo vecchio pazzo, potenzialmente pericoloso? E chissà se la bottiglia di rakija che le ho regalato, a quest’ora, non sia finita nelle mani grassottelle di qualche ufficiale del Sigurimi?
Ed ecco un altro ricordo che merge, come un cadavere gettato in mare che riaffiora, molesto, importuno. Tanto tempo addietro, fui incaricato dal partito di seguire un giornalista italiano, che venne in Albania per fare un documentario sul nostro Paese. Era andato ad intervistare i giovani dell’università di Tirana. Il giornalista chiese loro se trovassero giusto che i figli dei condannati politici perdessero il diritto ad iscriversi all’università, e qualsiasi speranza di avere una carriera professionale. Con una faccia seria, convinta, ed una voce bassa ma risoluta, una bella ragazza castana rispose che era giusto. Nessuno avrebbe potuto dire se la famiglia intera non fosse stata contaminata dal revisionismo e dall’anticomunismo del reo, stendere un cordone sanitario attorno a tutta la famiglia, impedendo ai suoi componenti di raggiungere postazioni di potere, era una precauzione necessaria, per difendere la rivoluzione. Mi chiesi allora, e tornai a chiedermi in quel momento, se la ragazza stesse parlando per opportunismo, per fare bella figura davanti alle autorità, o se vi fosse, per quanto minima, anche una sola traccia di sincerità nelle sue parole. Mi accorsi così che, inconsciamente, e per tutta la vita, avevo creduto, con tutto me stesso, alla prima possibilità. Ed ecco cosa c’è di veramente beffardo, pensai. Per una vita, ho lavorato per costruire l’uomo nuovo, e in realtà non ho mai avuto fiducia nell’uomo stesso. Cosa potevo aspettarmi, cosa potevo sperare? Ecco che la ragazza è solo una banale opportunista ipocrita. Ecco che la compagna Liri è una interessata spia del Sigurimi. Ecco che io stesso sono solo un povero vecchio bastardo inutile, un peso per la società, un corpo morto fra gli ingranaggi del progresso del socialismo. Come si fa ad avere fede nell’uomo nuovo senza aver fede nell’essere umano, in sé stessi? Che malvagio sortilegio abbiamo fatto a noi stessi, per cadere in questo buco di dolore? L’operaio edile appollaiato al bancone russa rumorosamente, e si è accasciato sul bancone stesso. Il cameriere, un ometto segaligno, con la faccia scavata dalla fame atavica dei nostri contadini, gli toglie da sotto il corpo il bicchiere di liquore, per evitare che, addormentandosi, l’uomo si sporchi la camicia. E poi, impassibile, senza tradire la benché minima emozione, si mette a pulire, con uno strofinaccio, i tavolini. Come se niente fosse. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Questi occhi vecchi, stanchi, che avevano visto la morte, la guerra, il dolore, la paura, la stanchezza, la solitudine, il rimpianto, la delusione dei sogni traditi, ora bruciano di queste lacrime salate, ed era come se tutto lavassero, se tutto portassero via con loro, come se tutto fosse di nuovo possibile. Il cameriere mi si avvicina. Senza dire una parola, senza guardarmi, mi posa sul tavolino un bicchiere di acqua minerale, e torna alla sua bisogna. Bevo a piccoli sorsi. Le bollicine mi raschiano la gola. Mi guardo attorno, con lo sguardo velato dalle lacrime. Ora il cameriere è appoggiato con i gomiti al bancone, e guarda davanti a sé. Ha uno strano sguardo, come di chi sta sognando ad occhi aperti. L’ubriaco si sveglia di scatto, lascia alcune monete di mancia e rivolge al cameriere un cenno di saluto con la testa. Il cameriere lo guarda, ed abbozza un sorriso. Un sorriso stranamente cordiale in quel volto scavato. Volgo lo sguardo verso la strada, fuori. Sul piedistallo della statua, due giovani innamorati si sono seduti, e stanno quieti, mano nella mano. Guardano in direzione del dito del partigiano. E allora ho capito. Dal fondo di anni di disperazione, di solitudine e di cinismo, dal fondo del pozzo nel quale riposavano le macerie di sogni infranti, qualcosa, qualcosa che è me stesso, è risalito in superficie. Asciugo le lacrime con la manica della giacca. Mi alzo a vado dal cameriere, e gli dico “fatti coraggio, compagno. Domani è il primo maggio. Domani è la tua festa”. Sorridiamo entrambi, con la testa ben alta. Una folata di vento caldo entra nel locale.
1 commento:
Che tristezza!
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