di Riccardo Achilli
L'economia tedesca su
un crinale pericoloso
I recenti dati
congiunturali sull'economia tedesca sono univoci, e preoccupanti. La
crescita del PIL, che è stata, in volume, pari al 3,1% nel 2011, nel
2012 dovrebbe attestarsi su un modesto 0,9%, per poi scendere
ulteriormente allo 0,6% nel 2013. I segnali di rallentamento del
ciclo sono peraltro colti dagli indicatori anticipatori. L'indice IFO
è in caduta libera: il sub-indice sul clima di business scende dal
valore di 108,3 di gennaio 2012 a 101,4 a novembre, e certo il lieve
incremento congiunturale sul mese precedente (+1,4 punti) non basta a
tratteggiare una aspettativa di recupero; il sub-indice sulle
aspettative di business scende, sul medesimo periodo, da 100,9 a
95,2, ed anche qui il lieve recupero fra ottobre e novembre non è
tale da configurare alcuna prospettiva di ripresa economica in
futuro. Ciò anche perché il saldo fra risposte positive e negative
circa il clima degli affari, anche a novembre 2012, permane negativo
per tutti i settori produttivi (seppur con un recupero rispetto ad
ottobre), ad eccezione del solo commercio all'ingrosso. Il
superindice Ocse, un indice composito con elevata capacità di
anticipare l'andamento futuro del ciclo, nell'ultima release
aggiornata ad ottobre 2012, anticipa un peggioramento per il ciclo
economico tedesco per i prossimi mesi, con un outlook di “crescita
debole”.
Tutto ciò ha evidenti
riflessi sul mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione tedesco,
secondo le proiezioni dell'Ocse, dovrebbe passare dall'attuale 5,3%
stimato per il 2012 al 5,5% nel 2013, fino al 5,6% nel 2014, per
oltre 130.000 disoccupati in più rispetto al valore attuale. Il
ciclo economico tedesco, come era prevedibile, si avvia verso la
stagnazione. Alcuni dei principali mercati di esportazione della
Germania sono infatti localizzati proprio in gran parte di quei Paesi
PIIGS che le politiche di austerità imposte dalla Merkel hanno
distrutto. Fra 2012 e 2014, l'Ocse prevede infatti un tracollo delle
esportazioni nette tedesche del 16,9%. Inoltre, poiché a quanto
pare, nonostante lo spread, le banche tedesche continuano a fidarsi
dell'Italia, visto che la sola Deutsche Bank, nel secondo trimestre
del 2012, ha accresciuto la sua esposizione su titoli del debito
pubblico italiano del 29%, arrivando a 2,52 miliardi di euro, è
chiaro che la persistente recessione economica dei Paesi PIIGS, con
il conseguente continuo aumento del debito pubblico, endogeno alla
crescita stessa, non potrà che avere effetti depressivi sul mercato
creditizio interno alla Germania, e quindi sugli investimenti.
I trattati europei
saranno ammorbiditi
Sono quindi chiare almeno
due cose. In primis, che certamente la politica della Merkel ha
parzialmente messo al riparo l'economia tedesca dalla recessione.
Scaricando sui PIIGS praticamente tutto il peso della
ristrutturazione del debito pubblico europeo necessaria per
preservare l'area euro dal crollo (ricordiamo che l'area euro è di
fondamentale importanza per l'industria tedesca, poiché ha di fatto
eliminato le politiche di svalutazione competitiva messe in campo
dalle altre economie europee sue concorrenti dirette, in primis
quella italiana), ha potuto preservare l'economia del suo Paese dal
crollo subito dai PIIGS, avviandola verso una ordinata stagnazione.
Il tutto in una condizione in cui, in realtà, la condizione di
maggiore “virtuosità” dei conti pubblici tedeschi è frutto in
parte anche di trucchi contabili. Come evidenziano gli studi fatti
dalla Fondazione tedesca Markwirtschaft e dalla Facoltà di Economia
di Friburgo, e come conferma Eurostat, il fatto che il debito
pubblico, come calcolato in base alle regole scritte nel trattato di
Maastricht, non includa il cosiddetto “debito pubblico implicito”,
ovvero la proiezione sul debito pubblico futuro della spesa
attualizzata per pensioni, sanità ed assistenza sociale, fa si che
non si considerino i rischi di sostenibilità futura del debito
tedesco. Infatti, il welfare pubblico tedesco, di gran lunga il più
dispendioso di tutta l'area-euro, porterebbe ad un “divario di
sostenibilità” del futuro debito tedesco pari a 111,8 punti di PIL
aggiuntivi, a fronte di un divario di sostenibilità del debito
implicito pari soltanto a 28 punti di PIL per l'Italia. Ciò
significa che, a bocce ferme, se oggi il debito pubblico tedesco è
certamente notevolmente più sostenibile di quello italiano, nel
futuro sarà vero il contrario, e la Germania correrà verso un
baratro finanziario. Strana concezione del calvinismo, quella di
castigare le future formiche da parte di una futura cicala. Senza poi
contare il fatto che, contabilizzando anche i titoli emessi dal Kfw
(la Cassa Depositi e Prestiti tedesca) il debito pubblico tedesco
schizzerebbe in alto di ben 428 miliardi (ben di più dei 300
miliardi di obbligazioni analoghe emesse dalla nostra CDDPP).
In secundis, diviene
oramai evidente che la stessa Germania non potrà che farsi promotore
di una revisione dei trattati europei, il fiscal compact in primis,
perché il tracollo dei mercati di esportazione nell'Europa
mediterranea sta portando la crisi anche a Berlino, e la potenziale
deflagrazione di una crisi da doppio deficit negli USA rischia di
dare un colpo ferale ad una Europa indebolita dalle politiche
liberiste attuate sinora. Quindi, vi sarà quasi certamente un
allentamento del fiscal compact, probabilmente ottenuto scomputando
gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, tramite una sorta
di golden rule, così come, a livello interno italiano, una qualche
forma di redistribuzione del carico fiscale, riducendo di qualche
grado l'imposizione diretta sul lavoro, ed introducendo qualche
forma, sia pur imbastardita, di patrimoniale, oppure di tassazione
sulle rendite patrimoniali. E ci sarà anche, a livello europeo,
qualche forma, molto leggera per non spaventare i mercati, di
regolamentazione dei mercati finanziari, con l'introduzione di
agenzie di rating pubbliche, qualche sistema di early warning per
anticipare bolle finanziarie con effetti sistemici, una più rigida
vigilanza, di livello europeo, sulla solidità finanziaria delle
banche, che già si sta predisponendo. Forse, più per motivi
simbolici che reali, stante la sua inefficacia concreta nel
disincentivare gli investimenti finanziari over the counter, vi sarà
una vera e propria Tobin tax europea. Prevedo che l'allentamento dei
trattati avverrà dopo le elezioni tedesche di autunno, che molto
probabilmente costringeranno la Merkel a fare un governo di
compromesso con la Spd.
L'inevitabile
indebolimento dell'area-euro, anche dopo la crisi
Tuttavia, è da vedere se
si possa uscire dalla recessione con un po' di revisioni all'acqua di
rose del fiscal compact, atteso che nei prossimi mesi ed anni vi
saranno da disinnescare una serie di bombe, che potranno prolungare
la crisi. Le bombe sono rappresentate dal doppio disavanzo
statunitense, la cui soluzione è oramai non più rinviabile da
Obama, perché il fiscal cliff è oramai giunto al momento in cui
qualsiasi scelta di politica economica comporterà effetti recessivi;
anche lo scenario in cui il fiscal cliff verrà evitato, il rapporto
fra deficit federale e PIL scenderà di almeno due punti entro il
2014. Inoltre, poiché il dollaro, come valuta di riferimento
internazionale, è sotto serio attacco (alcuni acquisti
internazionali di petrolio già si effettuano in renmibi), e la sua
difesa richiede un forte riaggiustamento della bilancia commerciale
statunitense, che sarà ovviamente pagato dalle esportazioni versi
gli USA degli altri Paesi, tale riequilibrio genererà effetti
recessivi sull'Europa. Una seconda bomba potrebbe provenire dalle
contraddizioni interne del modello di crescita cinese, che potrebbero
rallentarne il tasso di crescita potenziale.
Ammesso e non concesso
che il capitalismo scansi questi pericoli, ciò che rimarrà in
uscita dalla crisi, quando i trattati saranno rivisti per consentire
la ripresa, prima che la crisi trascini verso il basso anche la
Germania, sarà stata la pesante ristrutturazione del modello sociale
europeo, ed uno schema di Unione europea in cui la Germania e i suoi
addentellati nordici, seguita in parte dalla Francia, avrà
rafforzato la sua egemonia economica sugli altri Paesi, e ci
restituirà un'Unione europea più debole politicamente, influenzata
in modo determinante nelle scelte economiche dagli egoismi nazionali.
E ci sarà poco da illudersi: l'impoverimento dei paesi mediterranei,
l'allargamento della forbice del benessere e dello sviluppo
potenziale fra Nord e Sud dell'area euro, avrà effetti distruttivi
non solo su ogni possibile prosecuzione dei processi di integrazione,
ma finirà per creare i presupposti per l'esplosione di nazionalismi
rovinosi, sulla spinta del risentimento. E' sostenibile una
condizione in cui il PIL dei Paesi PIIGS, rispetto al PIL complessivo
dell'area euro, passa dal 34,9% nel 2008 al 33,5% nel 2011, e
scenderà ulteriormente, secondo le previsioni Eurostat, fino al
32,4% nel 2014? Tali differenze di benessere non faranno altro che
alimentare rancori e nazionalismi. E saranno stati innescati dagli
egoismi dei Paesi nordici, Germania in testa, che hanno scaricato a
sud gli oneri della ristrutturazione dalla crisi dei debiti sovrani.
Non soltanto in termini
politici, ma anche strettamente economici, l'area-euro che uscirà
dalla crisi sarà strutturalmente più debole e più esposta ad
attacchi speculativi o shock asimmetrici. Non a caso i modelli di
area valutaria ottimale, persino quelli elaborati da economisti
borghesi come Kenen e Mundell presuppongono, come postulato
fondamentale per il funzionamento dell'area monetaria e per la sua
resilienza di fronte ad attacchi speculativi, une elevato omogeneità
nei parametri reali delle economie partecipanti all'area. In
tali modelli, infatti, fra le condizioni di fondo di stabilità
dell'area valutaria, si presume:
- elevata omogeneità dei mercati del lavoro e dei capitali, per favorire la mobilità di tali fattori,
- integrazione e centralizzazione delle politiche fiscali, al fine di rendere sostenibili le 'sacche di disoccupazione' che inevitabilmente si verificherebbero a seguito di oscillazioni nelle esportazioni combinate con una imperfetta mobilità del lavoro; in sostanza, trasferimenti, oppure crediti fiscali, dalle aree più "ricche" a favore di quelle più "povere"; ad esempio, Bayoumi e Masson (1995) hanno analizzato la politica fiscale federale negli USA e nel Canada (due unioni monetarie che funzionano da tempo, costante punto di riferimento negli studi sulle aree valutarie ottimali), rilevando che in entrambi i paesi sono previsti sia trasferimenti di lungo termine (erogazioni a favore delle regioni tradizionalmente più "povere") sia risposte di breve termine per gli shock asimmetrici; nell'area-euro esiste solo il primo tipo di trasferimento, attuato mediante le politiche di coesione ed i fondi strutturali, mentre non esiste il secondo tipo, che andrebbe realizzato tramite incentivi fiscali per le aree deboli, che invece la legislazione europea sugli aiuti di Stato alle imprese vieta (o perlomeno rende molto difficili, il punto è infatti controverso, e sembra che il muro ocmunitario contro incentivi fiscali localizzati territorialmente si stia lentamente sfaldando);
- omogeneità nell'andamento del ciclo macroeconomico dei Paesi partecipanti (Mundell, 1961). Se, come avvenuto nell'area-euro, prendendo a riferimento le sue principali economie, fra 2007 e 2012 la Germania cresce, in termini reali, del 7,3%, la Francia del 2,7%, l'Italia invece subisce una decrescita di 5,1 punti, la Spagna è più o meno in stagnazione (-0,6%) è chiaro che gli enormi differenziali nazionali nel trend ciclico impediscono che si creino segnali univoci per stabilire la direzione (espansiva o restrittiva) della politica monetaria, che non può più essere utilizzata per fini anticiclici, ma nemmeno per il controllo di prezzi e tassi di interesse, atteso che qualunque decisione premierebbe una parte dei partecipanti dell'area, e penalizzerebbe un'altra parte. Inoltre, in presenza di imperfetta mobilità dei fattori, cicli macroeconomici divergenti creano bacini permanenti di sottocupazione nei paesi in recessione, non compensati dalla creazione di occupazione nei Paesi in crescita.
Un corollario della
condizione di cui sopra è che, in presenza di barriere alla mobilità
dei fattori, vi deve essere elevata omogeneità nel CLUP (rapporto
fra costo e produttività del lavoro) fra i Paesi membri. Ciò
infatti consente di omogeneizzare le condizioni di competitività,
evitando di creare grossi squilibri fra le bilance commerciali, che
si riflettono evidentemente in divergenti andamenti ciclici, con le
conseguenze negative di cui sopra. Ora, se in Germania tale valore è,
al terzo trimestre 2012, pari a 107,9 ed in Italia è di 114,7
(valore di riferimento media Ocse = 100 nel 2005), essenzialmente a
causa di differenziali di produttività manifesti, ciò crea
differenziali di competitività, che inevitabilmente si riflettono in
differenziali sul ciclo macroeconomico dei due Paesi, ancora una
volta con le controindicazioni di cui sopra.
Un modo di vedere il progressivo divergere fra ciclo economico italiano e tedesco è l'andamento degli indici di produzione industriale, che iniziano a differenziarsi, in peggio per il nostro Paese, dal 2004, come conseguenza dei divari di produttività (e dell'impossibilità per il nostro Paese, entrato nell'euro, di fare svalutazioni competitive)
Il problema è quindi
chiaro: una Germania che, insieme ai suoi addentellati nordici
(Olanda, Finlandia, ecc.) rafforza la sua egemonia economica
sull'area-euro, scaricando sui PIIGS la ristrutturazione finanziaria
e sociale derivante dalla crisi dei debiti sovrani, sta
contemporaneamente indebolendo l'area-euro nel suo insieme,
rendendola più vulnerabile a shock asimmetrici, che colpiscano solo
alcuni Paesi e non altri (tipicamente quelli con i fondamentali
macroeconomici reali più deboli). Se ad esempio l'Italia entra in
una crisi derivante da un crollo delle sue esportazioni, magari
addirittura favorendo il commercio estero tedesco, ecco che si genera
immediatamente un differenziale nel ciclo macroeconomico fra tali
Paesi, che neutralizza ogni possibile risposta di politica monetaria,
o addirittura genera una politica monetaria restrittiva, che
amplifica il differenziale, nel tentativo di difendere il tasso di
cambio dell'euro dal declino dell'export extra-euro dell'Italia. La
difficoltà di realizzare una politica monetaria in una direzione
chiara, a causa di segnali macroeconomici discordanti fra i vari
Paesi membri, fornisce incentivi immediati ad una ondata speculativa
contro il tasso di cambio. Oppure, in assenza di una politica fiscale
comune, la necessità per l'Italia di contrastare con ammortizzatori
automatici di spesa e tassazione la sua recessione può fornire un
segnale verso l'aumento dello spread dei titoli pubblici italiani
contro quelli tedeschi, innescando una speculazione contro il debito
sovrano italiano.
In sintesi
In sostanza, ogni azione
che tende a creare, o a rafforzare, una situazione di vantaggio
competitivo di uno o più membri dell'area valutaria sugli altri, in
assenza di politiche fiscali unificate e quindi di meccanismi fiscali
compensativi, non fa che indebolire inesorabilmente l'intera area
valutaria di fronte ad attacchi esterni innescati da shock
asimmetrici. Ad aggravare tale situazione, si vanno ad aggiungere
anche fenomeni di indebolimento della coesione sociale interna, ed
emergenti nazionalismi. Aver scaricato il peso della crisi sui PIIGS,
preservando la propria domanda interna, da parte delle economie
“egemoni”, Germania in primis, si rifletterà intevitabilmente su
tutta l'area valutaria. D'altra parte, aver realizzato una
ristrutturazione sociale in senso neoliberista nei Paesi PIIGS (molti
dei quali sono mercati prioritari di esportazione per le economie
nordiche “egemoni”) potrebbe contribuire ad indebolire la domanda
interna di tali Paesi per tanti di quegli anni, anche quando tornasse
la ripresa grazie alla revisione imminente dei trattati, che ciò si
convertirebbe in una penalizzazione duratura sulla crescita delle
stesse economie egemoni, in una sorta di gioco a somma negativa in
cui perdono tutti. Va considerato infatti che, per le differenti
propensioni marginali al consumo delle diverse classi di percettori
di reddito, il peggioramento delle condizioni di equità distributiva
indotto dalle riforme neoliberiste potrebbe impedire un incremento
sostanziale della domanda per consumi, anche in presenza di una
vivace crescita economica complessiva: se i frutti di tale crescita
vanno sorpattutto ai più ricchi, che hanno una propensione marginale
al consumo stutturalmente inferiore rispetto ai più poveri, potrebbe
aversi la condizione di una crescita economica con una domanda che
cresce di meno.
Un disastro, propiziato
da una visione prettamente monetarista del concetto di area valutaria
ottimale, propiziata da un approccio Bundesbank mirato a favorire di
fatto gli investimenti sui mercati finanziari europei, che predilige
l'omogeneità nei fondamentali finanziari ed inflazionistici,
anziché in quelli reali. A
differenza dei modelli di area valutaria ottimale di Mundell e Kenen
sopra analizzati, che puntano l'attenzione sull'omogeneità delle
economie reali, il trattato di Maastricht, base dell'attuale
area-euro, punta tutta l'attenzione sull'omogeneità dei fattori
finanziari e nominali, ovvero sui saldi di finanza pubblica dei Paesi
membri e sui differenziali di inflazione e di costo del denaro. Tale
approccio, scelto evidentemente per privilegiare e stabilizzare gli
investimenti finanziari sui mercati europei (chi investe in attività
finanziarie ha bisogno di un quadro di stabilità dei prezzi e dei
tassi di interesse, quindi della neutralità dei bilanci pubblici,
perché un quadro stabile riduce il rischio dell'investimento
finanziario) si rifletterà disastrosamente su tutti, e rischia
seriamente di minare alla radice la stessa coesione ed unità
europea. Senza una politica fiscale comune e solidale, senza
strumenti di omogeneizzazione e stabilizzazione degli shock
asimmetrici, senza la ricostruzione di condizioni di crescita della
domanda interna dei PIIGS, i risultati saranno pessimi per tutti,
cara signora Merkel, cari burocrati ottusi della Bundesbank.
Nessun commento:
Posta un commento