TRE
NO PER SALVARE (E CAMBIARE) LA SIRIA
Non sono in pochi a considerare
la prossima conferenza internazionale di Ginevra come l’ultima possibilità per
una soluzione in senso positivo della crisi siriana. Certo, in questi giorni
sono state compiute delle scelte che non sembrano andare nella giusta
direzione, come la decisione – da parte dell’Unione Europea – di revocare
l’embargo sulle armi ai gruppi armati dell’opposizione. Un provvedimento che
sarà operativo dal mese di agosto ma che lancia un segnale negativo in un
momento in cui il linguaggio della diplomazia dovrebbe prevalere. Quali
conseguenze ne deriveranno, si vedrà.
Quel che è indubbio è che, sul
campo, una realtà che ha sempre rifiutato la logica dello scontro militare,
ritenendo necessario contrastare un regime oppressivo e ottenere la libertà con
mezzi pacifici, è il Coordinamento Nazionale per il cambiamento democratico.
Ahmed Kzzo, che ne fa parte, ce ne ha spiegato la filosofia, fornendoci inoltre
preziosi elementi di comprensione di una realtà complessa, che i media
mainstream restituiscono in modo parziale e deformato.
Per cominciare, puoi spiegarci
cos'è il Coordinamento Nazionale per il cambiamento democratico in Siria?
Sì, anzitutto va precisato che
esso è nato pochi mesi dopo l’inizio della rivoluzione, formato da venti
partiti e movimenti di diverso orientamento (marxisti, socialisti, islamici),
nonché da diversi oppositori storici del regime. Del coordinamento, poi, fanno
parte sia arabi che curdi.
Spesso ci si riferisce ad esso
come all'opposizione dell'interno, perché è nato nel territorio della Siria,
dove – al momento della costituzione, il
30 giugno 2011 – si trovava la gran parte dei suoi membri.
Questa è già una differenza con
il Cns (Consiglio nazionale siriano), costituito dalla Fratellanza Musulmana e
altre forze, che è stato fondato a Istanbul da personalità dell'opposizione
perlopiù in esilio. In questo senso, il Cns è stato definito “opposizione
dell'esterno”.
Si può dire
che il Coordinamento è figlio della rivoluzione?
Senz'altro.
Basti pensare al fatto che l'Unione arabo-socialista che ne fa parte è stata la
prima forza politica siriana che ha ufficialmente dichiarato la propria
partecipazione alla sollevazione popolare sviluppatasi nei primi mesi del 2011.
Da subito, voi avete espresso
una filosofia che ha suscitato la critica di altre componenti dell'opposizione.
Quella dei tre no...
Si tratta di una
opzione fondata su una valutazione concreta della realtà siriana e del contesto
geopolitico assai complicato in cui siamo inseriti. I nostri tre no (no alla
violenza, no all'intervento militare esterno, no al settarismo) rimandavano (e
rimandano) alla necessità di mantenere alcuni tratti fondamentali del movimento
che si è sollevato contro il potere di Assad: il carattere civile e popolare,
l'indipendenza, la capacità di far partecipare persone di diverse etnie e credo
religiosi.
Del resto, l'uso
massiccio della forza, da parte del regime, era proprio volto a spingere la
rivoluzione ad armarsi.
In genere si
afferma che l'Esercito Siriano Libero sia nato con la finalità
autodifensive, di tutela delle manifestazioni popolari…
Diciamo che, al
principio, vi è stato un fenomeno estremamente positivo: quello dei generali
che disertavano perché non volevano sparare su momenti di protesta dal
carattere essenzialmente pacifico. Questi generali sono stati determinanti
nella nascita dell'Esercito Siriano Libero, che però col tempo ha finito per
accettare la logica di scontro imposta dal regime.
Noi riteniamo
che dalla attuale situazione di conflitto armato si possa e si debba uscire per
via politica: lo spargimento di sangue è stato sin qui davvero notevole e la
guerra assume ogni giorno di più valenze fratricide e settarie.
La
questione dell'Esercito Siriano Libero chiama in causa i vostri rapporti con il
Cns che a questa componente militare è legato...
Dal
nostro punto di vista, l'opposizione ad Assad per essere più forte doveva non
solo mantenere un carattere civile, ma anche muoversi in modo più unitario. Noi
abbiamo spinto da subito in questa direzione. Il 30 dicembre 2011, al Cairo,
con il Presidente del Cns e altri membri di quell'organismo si era arrivati ad
un accordo in tal senso. Ma i Fratelli Musulmani – forza maggioritaria nel Cns
stesso – lo hanno respinto, probabilmente sollecitati in questa direzione dai
loro protettori politici esterni, come il Qatar.
Così
l'accordo è venuto meno, negato pure da quelli che lo avevano firmato.
In
effetti a inasprire la situazione in Siria non ci ha pensato solo il regime, ma
anche le petromonarchie, che sono intervenute per condizionare le scelte di
parte dell'opposizione...
Su
questo va fatta una puntualizzazione. Se il Qatar, da subito si è mosso come
alleato ed ispiratore della Fratellanza Musulmana, l'Arabia Saudita ha agito in
modo meno lineare. Sulle prime ha appoggiato Assad – sostenendolo
finanziariamente – perché temeva che un movimento pacifico potesse propagarsi
in tutto il Medio Oriente, turbando la tranquillità della stessa penisola
arabica. Poi, quando ha registrato l’effettiva potenza della rivoluzione
siriana, si è proposta come sua “amica”, cercando di modificarne i caratteri e
i contenuti nel senso del fondamentalismo religioso di matrice sunnita. In
quest’ottica, l’Arabia Saudita (e altri paesi) hanno colto pure l’occasione
di liberarsi di un problema interno: la
presenza di gruppi jihadisti, di cui è stato favorito il trasferimento in massa
in Siria.
Una
scelta spregiudicata che ricorda quella effettuata da Assad nel 2003, in
occasione della aggressione americana all’Iraq. Allora, in Siria, imam
sotterraneamente legati al regime incitarono i sunniti disponibili ad andare a
combattere l’invasore statunitense. Era un modo per dare una valvola di sfogo
esterna a settori che preoccupavano il regime.
Ma la società siriana, nel suo complesso,
ci sembra abbastanza distante dal fondamentalismo…
Questo
è indubbio. Io vengo da un contesto rurale, di piccoli villaggi. Qui, ad
esempio, le donne sono abituate non solo a lavorare nei campi, ma pure a
partecipare a diversi aspetti della vita pubblica collettiva. In un simile
quadro, è difficile che venga accolta una mentalità “talebana”.
In
più, i combattenti stranieri non
conoscono niente delle tradizioni e della mentalità dominanti in Siria. Non
possono neanche fare leva sul fatto che, sotto Assad, la maggioranza sunnita
del paese ha subito pesanti vessazioni. Il loro messaggio viene comunque
respinto. Le dichiarazioni del Fronte Al Nusra, che raccoglie questi
combattenti, sono spesso oggetto di critica pubblica da parte di autorità religiose
sunnite schierate con il movimento popolare, soprattutto quelle che incitano a
pratiche barbare come la flagellazione degli avversari.
I
siriani, storicamente, sono lontani anni luce da questa mentalità.
Però è un fatto, registrato soprattutto dalla stampa statunitense, che
negli ultimi tempi molti combattenti sono passati dall’Esercito Siriano Libero al Fronte Al Nusra stesso...
Si
tratta di una conseguenza inevitabile dell’inasprimento del conflitto. I
jihadisti risultano più efficienti sotto il profilo militare per due motivi. Perché sono più “motivati”, essendo
spinti da una ideologia religiosa semplice ma avvolgente, e perché hanno più
disponibilità di armi e di soldi, attingendo al pozzo senza fondo di paesi come
l’Arabia Saudita.
Peraltro,
la sempre maggiore forza dei jihadisti è vista con malizioso interesse pure
dalla Turchia. Questo paese, che sino a non molto tempo fa coltivava buoni
rapporti con il clan degli Assad, ha oggi tutto l’interesse a una degenerazione
della situazione. Se trionfano i fondamentalisti, può avere – agli occhi
dell’occidente – la giustificazione per intervenire, proprio perché è un Stato
che si autorappresenta come paladino di un altro Islam, moderato e coniugato
con la democrazia.
In sostanza, ciò conferma quanto sia
articolato il quadro geopolitico in cui si inserisce la vicenda siriana. Noi
sappiamo che voi, in questo contesto, cercate di dialogare con tutti i soggetti
che influiscono sulle sorti della vostra gente…
Il
punto è che il Coordinamento ha fatto una scelta diversa da quella del Cns, che
ha subito preteso dalla comunità internazionale di essere riconosciuto come
unico rappresentante legittimo del popolo siriano. Noi volevamo far conoscere
nel mondo il movimento popolare, e soprattutto convincere le potenze grandi e
medie che intervengono nell’area a tenerne in considerazione le aspirazioni ad
una trasformazione democratica. Sotto questo profilo, non abbiamo difficoltà a
parlare con nessun attore geopolitico, a
eccezione di Israele, con cui escludiamo ogni contatto.
In effetti avete avuto momenti di
interlocuzione persino con quelli che, in quanto protettori di Assad,
dovrebbero essere i vostri principali nemici…
In
verità, proprio nella logica che ti ho accennato, il Coordinamento pratica la
neutralità tra i blocchi contrapposti che intervengono nello scenario siriano.
Nel febbraio 2012, una delegazione del Coordinamento ha accettato un invito in
Cina. Ma abbiamo avuto contatti anche con l’Iran e, ancor di più, con la
Russia. Quest’ultima è particolarmente interessata a preservare l’unica base
navale che ha nel Mediterraneo, a Tartous. E’ questo il suo assillo, più che la
difesa a spada tratta di Assad, anche se fin qui ha manifestato una certa
sottovalutazione delle istanze di libertà e democrazia espresse dal popolo
siriano.
Un
altro caposaldo della filosofia russa, è il mantenimento della integrità
territoriale del nostro paese.
C’è il pericolo che questa venga meno?
Direi
di sì. Non so se ciò rimandi ad un piano, ma di certo vi sono attori regionali
che benedirebbero questo esito.
Si pensi a Israele, che così non
solo vedrebbe indebolito l’alleato di un suo nemico storico come l’Iran, ma
troverebbe ulteriormente legittimata la sua anomalia. Infatti, la eventuale
divisione avverrebbe secondo linee
confessionali (la parte dei sunniti, quella degli sciiti ecc.), tali da
permettere a Israele di giustificare con più forza il suo configurarsi come
Stato in cui la cittadinanza è riservata ai soli ebrei.
Non abbiamo ancora parlato degli USA. Voi, in linea di principio, non
escludete contatti con gli americani, ma fin qui li avete avuti?
Sì, qualche incontro c’è stato,
anche se – sin dall’inizio – la prima potenza planetaria ha individuato come
interlocutore soprattutto
“l’opposizione dell’esterno”.
Peraltro, all’inizio della rivoluzione, molti giovani siriani s’illudevano
sui vantaggi di una eventuale operazione bellica americana. Forse, poi, il
disastro libico ha reso meno popolare questa idea. Ad ogni modo, gli americani
sono sempre stati riluttanti ad un intervento militare diretto in Siria e,
negli ultimi tempi, sembrano preoccupati dalla affermazione militare dei
jihadisti. Perciò stanno lavorando unitamente ai russi per la Conferenza di
giugno a Ginevra, volto a sviscerare tutti i nodi connessi alla questione
siriana. Va sottolineato che tanto gli Stati Uniti quanto la Russia si sono
espressi favorevolmente ad una partecipazione del Coordinamento a questo
passaggio. Da parte sua, il Coordinamento ha invitato tutte le forze
dell’opposizione – incluse quelle raccolte nella Coalizione Nazionale Siriana [1] – a formare una commissione
unitaria che partecipi ai lavori di Ginevra.
In quella sede si discuterà degli scenari possibili per avviare una
transizione alla democrazia in Siria. Da tempo gli analisti parlano di un
governo transitorio, con membri sia
dell’opposizione che del partito al potere. Voi che ne pensate?
Noi siamo favorevoli a questa
possibilità. E’ ovvio che non si potrà eliminare di colpo tutto il
preesistente, né in termini di istituzioni né di forze politiche consolidate,
che hanno un loro seguito nel paese. Inoltre, non tutti i membri del regime
possono essere considerati allo stesso modo: ad esempio, il vicepresidente, originario di Daara, tra i primi
centri in cui si è sviluppata la rivoluzione, tempo fa fece una proposta di
pace che cadde nel vuoto ma che non era priva di significato. Si tratta di un
personaggio praticamente rispettato da tutti, come è emerso dalle dichiarazioni
rilasciate in questi giorni dalle altre anime della opposizione siriana.
In generale si deve dire che nel
Partito Ba’th non tutti coltivano le stesse pulsioni autoritarie del clan degli
Assad. Non pochi, in quella forza politica, si sono resi conto che affrontare
in termini esclusivamente repressivi un grande movimento popolare è stato un
errore tragico.
A parte ciò, è solo attraverso un
processo di questo tipo che si può avviare una trasformazione democratica in
Siria. Ciò rimanda tanto alle caratteristiche del nostro paese, quanto ad un
discorso di carattere generale: nelle rivoluzioni a un certo punto le armi
debbono tacere, quando il lato militare prevale si snaturano le spinte più
profonde che hanno portato le persone a scendere in strada per riprendere in
mano il proprio destino.
Queste tue considerazioni, in un certo senso, anticipano l’ultima
domanda che volevamo farti. Che ne è oggi, della sollevazione popolare
iniziale? E’ totalmente schiacciata da quello che si presenta come uno scontro
settario per conto terzi, oppure ancora trova modo di esprimersi?
In verità, le manifestazioni
ancora continuano e tanti attivisti civili cercano pure in questo contesto di
incidere sulla situazione. Ad esempio, quando l’Esercito Siriano Libero strappa
una città al controllo delle forze lealiste, questi ne reclamano la gestione
attraverso i propri comitati, che si occupano anzitutto di organizzare i
servizi destinati alla collettività. In pratica, si chiede all’Esercito Siriano
Libero di fare un passo indietro, di lasciare spazio alla società civile. Non
sempre ciò si verifica, dipende dalla forza della spinta dal basso. Un esempio
positivo che vi posso fare, è quello di un paese come Raqqa.
Ad ogni modo, sta crescendo la
consapevolezza che la rivoluzione non si conclude con la semplice caduta di
Assad. E che non bisogna accettare vessazioni e angherie da qualunque parte
provengano: che si tratti del regime e delle sue milizie, dedite a ogni
efferatezza, o dell’Esercito Siriano Libero, che spesso procede all’arresto
arbitrario di chi ne mette in discussione l’autorità. Per non dire dei jihadisti.
Questo atteggiamento diffuso
della popolazione lascia ben sperare nel futuro. Si afferma la concezione che
la rivoluzione è anzitutto un fatto sociale e si lancia il segnale che si vuole
una discontinuità di sostanza rispetto al passato: non si può certo liberarsi
di un potere dispotico per cadere nelle grinfie di un altro autoritarismo.
A cura della redazione di Bandiera Rossa
[1] Formatasi,
significativamente, a Doha (Qatar) nel novembre 2012, comprende il già citato
Cns e altre realtà politiche. In sostanza, si tratta di un raggruppamento più
largo rispetto all’originaria “opposizione dell’esterno”, delineatosi quando
risultava evidente che questa non aveva i numeri per presentarsi come “unico
rappresentate legittimo” del popolo
siriano.
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