di Riccardo Achilli
E’
difficile dire quanto i risultati del voto amministrativo di questo
fine settimana incideranno sul Governo Letta. Nel breve periodo, non
vi saranno effetti. Il Pdl è in stato confusionale dopo la batosta
elettorale: il fedelissimo Cicchitto è arrivato addirittura a
mettere in dubbio il potere sinora indiscusso di Berlusconi sul
partito, chiedendo che i coordinatori regionali siano scelti dal
basso, e non nominati dall’alto. E’ una rivendicazione di portata
clamorosa: significa rimettere in discussione un assioma sinora mai
sfiorato, nei vent’anni di berlusconismo: il diritto supremo del
capo di modellare il partito a sua immagine e somiglianza. Si tratta
dell’apertura di una crepa esiziale, oppure di una iniziativa
estemporanea di un dirigente spaventato? Troppo presto per dirlo, ma
se due indizi fanno una prova, la querelle fra Nitto Palma e Bondi
sulla cosiddetta “salva-Silvio” evidenzia una condizione di
spaccatura fra le truppe cammellate berlusconiane proprio sul tema
che sta più a cuore al loro caro leader.
E’ evidente che a
questo punto al PDL convenga evitare problemi, almeno per il momento,
al governo Letta, nonostante il fatto che i risultati elettorali
porteranno inevitabilmente il PD ad alzare il livello delle
richieste. Tra l’altro, francamente, il PDL vince quando c’è
l’effetto-Berlusconi a trascinarlo, perché il suo radicamento sul
territorio (fondamentale per vincere elezioni amministrative) è
senz’altro molto meno forte di quello del PD. E se Berlusconi non
si espone personalmente, mettendoci la faccia in campagna elettorale,
i risultati sono quelli che si sono visti.
Il PD ha vinto? Se
andiamo oltre ai candidati eletti o in vantaggio per i ballottaggi,
dobbiamo prendere atto del fatto che il PD ha una struttura
territoriale radicata, ereditata dai vecchi Ds, che lo conduce, a
volte, a fare meglio nelle elezioni amministrative, dove il peso del
territorio e delle sue micro-istanze è più importante, che nelle
politiche. Nel 2001, Veltroni è eletto sindaco di Roma, subito dopo
il trionfo del centro-destra alle politiche. Nel 2005, la tornata
trionfale di amministrative lasciava presupporre una vittoria
schiacciante anche alle politiche di qualche mese dopo, che però fu
molto inferiore alle aspettative. Soprattutto, il centro-sinistra
vince in un contesto di allarmante aumento dell’astensionismo, una
deriva che dura oramai da anni, riguarda tutte le tipologie di
elezioni, con qualsiasi sistema elettorale (questo per dire che chi,
come Renzi, attribuisce a sistemi di voto, come quelli dei sindaci,
che consentono una maggiore personalizzazione del confronto, virtù
salvifiche di ritorno alla passione politica, dice una cazzata. I
problemi dell’astensionismo in crescita sono ben più complessi).
Se per ipotesi Marino dovesse vincere al ballottaggio, si troverebbe
a governare una città in cui il 47% degli elettori non è andato a
votare. Dove la sfiducia e di lontananza dalla politica riguarda
quasi un cittadino su due. Governare in queste condizioni,
soprattutto per chi, come i sindaci, deve amministrare a diretto
contatto con la comunità, sarà difficilissimo. Fare scelte
condivise di risanamento finanziario del bilancio di Roma ed al
contempo di difesa dei servizi pubblici essenziali, senza
partecipazione diffusa dei cittadini, sarà un compito improbo. Che
non può essere superato da salvifiche suggestioni alla figura di un
leader carismatico che risveglia le folle dal loro torpore. La
vittoria del PD consiste, di fatto, nel presidiare fortini circondati
da una crescente arida sterpaglia. Più che una vittoria, sembra un
tentativo di resistere.
Oramai non c’è più
nemmeno il M5S a fare da rete alla marea montante di rifiuto della
politica. La disfatta elettorale dei grillini dipende
fondamentalmente da tre fattori, il più importante dei quali è il
non aver saputo dimostrare di avere la capacità di imprimere una
svolta di governo, in grado di affrontare la crisi. Aver rifiutato
ostinatamente ogni coinvolgimento di governo, essersi trastullati con
cazzate come gli scontrini dei rimborsi o un moralismo
dall’insignificante impatto finanziario ed economico, mentre il
Paese sprofonda e chiede risposte forti e significative, aver
dimostrato un evidente gap di competenze politiche, ha spezzato il
legame mistico, intermediato da un demiurgo mediatico rivelatosi
politico di scarsa capacità tattico/strategica, che una parte
importante e trasversale del Paese aveva creato, nell’ultimo anno e
mezzo, con il MoVimento. Poi pesa l’assenza di una struttura
territoriale radicata, per cui a livello territoriale, spesso, la
presenza politica dei grillini non è percepibile. Ed infine il M5S
sconta la fine dell’effetto-novità che, in un elettorato
capriccioso e con scarsa coscienza politica come quello italiano è
sempre premiante, ma solo all’inizio: fu così anche per il PD, che
nel 2008 raccolse, per l’effetto-novità, un risultato elettorale
che non eguaglierà mai più nella sua storia.
Quale che sia il motivo
della disfatta, in pratica la dissoluzione (almeno contingente, poi
vedremo, perché i risultati delle amministrative non si ribaltano
automaticamente sulle politiche) della rete di sicurezza grillina è
da valutarsi negativamente, perché ha come immediata contropartita
la crescita dell’astensionismo. Dentro la quale incubano pulsioni
antipolitiche insieme a diffusa disperazione sociale, un cocktail che
può trovare una sola sintesi possibile: la demagogia autoritaria di
chi riesce a presentarsi come il Salvatore, dirigendo la rabbia
antipolitica verso capri espiatori ben precisi, e consegnando alla
disperazione sociale una illusione di riscatto. Generalmente, sono i
sistemi fascistoidi a interpretare meglio tale ruolo. Si illude chi,
nella sinistra radicale, pensa di poter dirigere l’astensionismo
verso obiettivi rivoluzionari. L’astensionista è, nella maggior
parte dei casi, individualista. Non vota perché rifiuta la
partecipazione politica, che è partecipazione collettiva per
definizione. Solo chi si presenta come antagonista alla
rappresentanza politica, può quindi incrociare l’interesse
dell’astensionista. All’astensionista non interessa un nuovo
modello di società. Vuole che si portino a soluzione i suoi
problemi, e vuole che chi li ha creati, ovvero la politica
tradizionale ed il suo apparato istituzionale, venga distrutto. Non
c’è niente di meglio di una soluzione autoritaria, aggressiva e
demagogica, che al tempo stesso si presenta come antisistema, e come
soluzione ai problemi concreti dei suoi simpatizzanti ,che non porta
a ragionare su alternative fattibili e concrete, e nemmeno su
cambiamenti di paradigma sociale (che richiedono comunque un
ragionamento ed una analisi) ma su vaghi sogni di rivalsa.
Certo, è pensabile anche
che nel M5S vi sia una spaccatura, e che la sua ala di sinistra e più
“governista” converga, con il PD e la SEL, a formare un polo
progressista. Credo che una spaccatura del M5S è probabile, se
Grillo ed i suoi fedelissimi continueranno in una analisi dualistica
della società italiana (i cattivi ed i protetti che votano per il
PD, i buoni ed i nobili per noi). Questa analisi, che Grillo ha
riproposto come base per spiegare la sconfitta elettorale del suo
movimento, è ovviamente puerile e lontana dalla realtà. E
certamente, alla fine, i militanti ed i dirigenti meno acritici
finiranno per allontanarsi da questa incapacità di leggere le
dinamiche sociali, ora che il fascino personale del demiurgo non
basta più a vincere le elezioni.
Io però non credo che
ci potrà essere un riavvicinamento fra PD e transfughi del M5S, a
meno, ovviamente, che questi ultimi finiscano per perdere la loro
identità politica, e vengano quindi annullati dentro il PD stesso.
L’ascesa di Renzi, con il suo blairismo in ritardo di dieci anni,
il suo approccio leaderistico e maggioritaristico alla politica,
l’aggressività senza un progetto di insieme della società, i
legami con i poteri finanziari forti, una filosofia di politica
sociale fondamentalmente liberista, porterà a conclusione la
parabola del PD verso un posizionamento di tipo liberaldemocratico:
l’unica strada ancora percorribile per il PD per conquistare il suo
obiettivo fondante, ovvero l’egemonia sulla società italiana,
quando il berlusconismo sarà finalmente tramontato, e l’area di
destra dell’elettorato sarà presidiabile (e chi può escludere che
il laboratorio di larghe intese non sia il terreno sul quale il PD e
ampi spezzoni del PDL non stanno tentando qualcosa che vada anche
oltre il governo Letta?) In queste condizioni, è evidentemente
difficile pensare che un polo progressista possa nascere, con dentro
anche il PD.
Ci sarebbero peraltro
spazi, che si liberano, per la costruzione di un movimento
socialista, che raccolga i cocci del M5S e li metta insieme in una
logica socialdemocratica radicale, che dia una alternativa sistemica
reale, ed al contempo attuabile, anche all’elettorato più di
sinistra del PD, che non potrà inseguire verso il centro, per
sempre, il suo partito. Lavorando anche con la SEL che, nonostante
una modalità confusa, poco lineare, non del tutto coerente, di
collocarsi all’opposizione del Governo Letta, sta ricevendo segnali
elettorali interessanti ed incoraggianti. Il posizionamento a
sinistra comunque paga, e dimostra, sia pur in fieri, che gli spazi
di crescita esistono. Però serve più democrazia dal basso, meno
scimmiottamento di leaderismo, coerenza assoluta, credibilità nel
posizionamento, senza tentennamenti che lascino pensare ad un ritorno
all’ovile del PD.
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