Di Riccardo Achilli
Sommario
E’ una opinione che si sta
consolidando, e che trova riscontro anche nei dati di mercato, che il
capitalismo finanziario, in uscita dalla crisi, cerchi nuovi sbocchi di mercato
ancora intonsi, sui quali ritagliarsi nuovi spazi. Ora, il mercato immobiliare,
quello delle carte di credito e quello della spesa pubblica, sui quali questa
sovrastruttura parassitaria ha fatto crescere, rispettivamente, la bolla del mattone,
quella del debito privato e quella del debito pubblico, appaiono oramai non più
sfruttabili. La speculazione borsistica, con la sua appendice riferita alla
borsa tecnologica del Nasdaq, è oramai rischiosa, e largamente limitata dalle
varie Autorità nazionali di Vigilanza. Così come quella sui tassi di cambio.
Quali spazi nuovi trovare, quali
terre vergini aggredire per piazzare un cronico eccesso di offerta di capitali,
che nel solo comparto degli investimenti di portafoglio, al netto delle
riserve, raggiunge 1.174 miliardi di dollari nel solo anno 2007[1],
e che non può trovare sfogo soltanto sui mercati Otc dei derivati? Un campo
ancora libero, dopo aver sfruttato merci e servizi? Quello dell’uomo in sé stesso, del suo corpo,
della sua personalità, della sua umanità. Il mercato del corpo umano trova
sfogo in un immenso giro d’affari che coinvolge l’industria cosmetica, quella
dello sport e del fitness, e la chirurgia estetica e plastica. La sola
chirurgia plastica ha un giro d’affari che oscilla, di anno in anno, fra i 12 ed i 20 miliardi di dollari[2]
.
Ma l’ambizione è molto più ampia. Si tratta di
reingegnerizzare completamente l’uomo, fin nei suoi più reconditi spazi di
umanità, ed in questo viene in soccorso, strombazzando, l’industria privata della
genomica. La posta in gioco è sintetizzata da Steven Pinker, che, baldanzoso,
annuncia che “il 2008 ha visto l’introduzione di una genomica diretta al
consumatore”. Ecco: non vi piacete più? Siete poco assertivi, timidi, oppure
avete il naso troppo lungo? Una risistemata al vostro DNA e vi rifacciamo
nuovi! Eccheggiano le parole tetre di Francis Fukuyama, il genio che ha
previsto la “fine della storia”: secondo lui, i tentativi di realizzare una
razza umana “nuova e perfetta” (sulla base di quali parametri etici,
psicologici, culturali non è dato sapere) saranno finalmente realizzati dalla
genetica. Sullo sfondo, si intravede il mondo da incubo di Aldous Huxley, in
cui una élite irraggiungibile, invisibile e chiusa di coordinatori, unici
depositari della memoria storica e del progetto sociale complessivo, realizza,
con gli strumenti dell’eugenetica (Huxley scrive prima della scoperta del DNA,
avvenuta definitivamente solo nel 1953) un mondo in cui ogni singolo essere
umano, sin dalla nascita, è programmato in vista di un inserimento
predeterminato nella società. Dove il libero arbitrio, persino il concetto di
destino individuale, vengono completamente svuotati di senso, da una ingegneria
genetica che diviene ingegneria sociale.
La posta in gioco è enorme. Nel
2012, le compagnie biotech mondiali hanno fatturato 89,8 miliardi di dollari,
in crescita, nonostante la crisi, dell’11,4% rispetto all’anno precedente. Il
segmento delle biotecnologie rosse, quelle destinate cioè all’uomo in via
diretta, e che includono la ricerca farmacologica ma anche l’ingegneria
genetica (che inizia negli anni Settanta, con alcune fondamentali scoperte,
come la prima molecola di DNA ricombinante – che non è ovviamente un organismo
vivente ma una semplice molecola – ottenuta mischiando frammenti di DNA di
organismi diversi, creata nel 1972 dall’americano Paul Berg, o il primo Ogm,
realizzato nel 1973 da Boyer e Cohen, ricercatori dell’Università della
California, clonando, cioè copiando un forma identica, un gene di una rana
tramite un batterio-veicolo) cresce più rapidamente, in termini commerciali,
degli altri segmenti (ivi comprese le famigerate biotecnologie verdi, ovvero
gli Ogm). Secondo il finanziere Francesco Micheli, il futuro della finanza
ruota attorno alle biotecnologie. Il motivo è semplice: la ricerca
biotecnologica costa moltissimo, e soprattutto ha un time-to-market, ed un
punto di ritorno degli investimenti (un break even point) molto spostato in là
negli anni. Dalle prime sperimentazioni all’immissione sul mercato di un
farmaco biotecnologico, ci possono volere dai 10 ai 20 anni. Secondo uno
studio, già datato poiché riferito al 2003, condotto dalla Bain & Co., il
costo di R&S e commercializzazione di un farmaco biotecnologico è
dell’ordine degli 1,7 miliardi di dollari. In tutto il lasso di tempo che va
dall’idea di ricerca fino al break even point dell’investimento, l’azienda
biotecnologica ha bisogno di enormi anticipazioni di risorse, che mettono in
moto in modo rilevante la finanza, a fronte di guadagni futuri molto ingenti,
come dimostra il rapido sviluppo del fatturato del settore.
Uno schema che mostra l’industria biotech e le sue ramificazioni
applicative
Il tutto è ottenuto tramite una
vera e propria mercificazione del concetto di vita umana. Riporto testualmente
un passaggio del “Dossier Ogm” (A. Gallippi, Aracne Editrice, 2009): “la
possibilità di considerare la vita come servizio e bene commerciabile ha
ampliato notevolmente le prospettive della biotecnologia”. Il tutto ovviamente
grazie ad una ossequiosa obbedienza della politica. Nel 1980 il governo degli
Stati Uniti approva il Bayh–Dole Act, che incoraggia esplicitamente le
università a brevettare e privatizzare i risultati delle ricerche nel campo
biotecnologico. Il 16 giugno dello stesso anno, la Corte Suprema degli Stati
Uniti emette un’importante sentenza, che decreta la possibilità di brevettare
un organismo vivente ottenuto con le tecnologie del DNA ricombinante, cioè le
tecnologie che danno luogo agli Ogm. Il
12 maggio 1998, Parlamento e Consiglio Europeo hanno approvato la direttiva
sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, anche se il
mercato agricolo europeo è ancora (penso molto temporaneamente) al riparo
dall’invasione degli Ogm (ricordo che uno dei punti principali del negoziato
attuale del Transatlantic Trade And Investment Partnership è la richiesta
statunitense di aprire il mercato agricolo ed alimentare europeo alle sementi
Ogm prodotte negli USA).
Questa mercificazione porta ad un
concetto riduzionista, anzi, direi volgarizzante, della vita umana, e che è ben
rappresentato da quel vero e proprio pioniere della vita artificiale per conto
del profitto privato che è Craig Venter. Il reduce di guerra del Vietnam, oggi
fondatore e capo di Celera, una bio-tech acquisita dalla multinazionale Quest
Diagnostics nel 2011, ci dice che “è ora di cambiare non solo il modo in cui
concepiamo la vita, ma la vita stessa”. Gli fa eco il filosofo Dan Dennett:
“quando non ci sarà più bisogno di mangiare per restare vivi o di procreare per
avere figli, o di mezzi di locomozione per avere una vita piena di avventure,
quando gli istinti residui di queste attività potranno essere disattivati con
semplici ritocchi genetici, forse non esisterà più una natura umana
immodificabile”. Non sembrano esserci limiti: secondo l’ardito Marine Venter,
si potrà creare ex novo batteri che non esistono in natura, e che potranno, ad
esempio, divorare il petrolio sversato in mare da una petroliera, produrre
energie alternative, disinquinare l’aria, ma anche inventare speciali stampanti
del DNA, sulle quali stampare il patrimonio genetico di batteri responsabili di
un’infezione, e progettare in tempo reale il DNA di un organismo batteriofago
in grado di mangiarli, o addirittura inviare e stampare il DNA di un organismo
alieno scoperto in un altro pianeta, e riprodurre tale organismo in
laboratorio, sulla Terra.
Torniamo con i piedi…per terra. E
scansiamo subito un equivoco. Questo articolo non è affatto contrario alla
ricerca scientifica e biotecnologica. Non adotta logiche decresciste o
reazionarie. Un utilizzo mirato e sapiente delle biotecnologie in ambito
medico, industriale, ambientale ed energetico può avere grandissimi impatti
positivi nel curare malattie oggi incurabili, eliminare la sofferenza legata
alle malattie genetiche, migliorare la qualità della nostra vita, contribuire
positivamente all’ambiente. Quello che intendo affermare è che non è
ammissibile una ricerca scientifica slegata da considerazioni etiche, nel senso
proprio del termine “etico”, ovvero “costume”, “consuetudine sociale”,
“comportamento”. Non è cioè ammissibile una ricerca scientifica che sia slegata
da un’idea generale di società, di collettività, di bene comune. E’ dentro tali
categorie che si deve scegliere, ad esempio, se sia lecito sperimentare ed
utilizzare sementi transgeniche che vanno ad introdursi dentro la catena
biologica ed alimentare.
E se l’etica, in senso kantiano,
non è teleologica, non è cioè legata alle conseguenze finali dell’azione, ma è
a-priori ed assoluta, essa allora dovrà discendere da idee generali su che cosa
sia la vita e che cosa sia l’uomo. Parafrasando Levi, verrebbe da chiedersi “se
è questo un uomo”, considerato alla stregua di un insieme di pezzi genetici
combinabili o sostituibili, e se la sua natura, e quindi più in generale la
natura della vita, sia semplicemente un insieme di led, attivabili o
disattivabili a piacere, ristrutturabili a piacere. Come dice Monsignor Carlo
Rocchetta, “Brevettare le sequenze geniche significa brevettare organismi
viventi, e brevettare organismi viventi è brevettare la vita, con il rischio di
ridurla alla fine ad un manufatto, a un qualcosa che è prodotto dall’uomo, e
perciò commerciabile come ogni altro oggetto di consumo. È legittimo tutto
questo?” Questo è il punto sul quale dobbiamo ripiegarci.
Le sfide aperte del concetto di vita.
Quali sfide, allo scienziato,
vengono poste dal confrontarsi con il concetto di vita? La definizione
scientifica della vita organica c'è già, ed è pienamente soddisfacente per finalità
di ricerca scientifica. Deriva, in larga misura dalle speculazioni del grande
fisico Erwin Schroedinger.
Erwin Schroedinger
Un sistema vivente, in base a
questa definizione, che risale al 1944, è quel sistema che mantiene un
“disequilibrio statico” rispetto alla seconda legge della termodinamica che,
come è noto, implica che un sistema isolato accresca la sua entropia in funzione
del passare del tempo. Un sistema vivente, invece, non accresce la sua
entropia, rimanendo, fino alla sua morte, in disequilibrio stazionario, perché
sostituisce l'energia che perde alimentandosi con energia esterna (“entropia
negativa”, secondo la definizione di Schroedinger). Questo “steady state”
presuppone un ordine interno di carattere informativo, perché è questo ordine
informativo che contrasta la crescita dell'entropia, che per definizione è
disordine. Ecco spiegato perché la vita organica (cioè basata su una qualche
associazione interna di carbonio a livello molecolare) ha bisogno di un codice
genetico, cioè, in ultima analisi, di un codice informativo ordinato. Tale
ordine informativo interno deve potersi, parzialmente, trasmettere da un sistema
vivente ad un altro, in parte modificandosi per via dell'evoluzione, perché
costituisce la parte immanente allo stesso concetto di vita. Quindi il sistema
vivente deve sapersi riprodurre, in modo da trasmettere ad un nuovo esemplare
il suo patrimonio informativo. Ecco perché un virus non è una forma di vita,
perché, seppur dotato di un codice genetico a DNA o a RNA, e seppur in grado di
riprodursi, ma non autonomamente rispetto all'organismo ospite, non assimila
energia esterna, se non tramite l'organismo ospite (gli stessi mimivirus, che
forse potrebbero rappresentare l'anello di congiunzione con i procarioti, non
riescono a fare autonomamente la sintesi proteica e i processi energetici).
Da un punto di vista biologico,
fisico, chimico, tale definizione di vita è pienamente soddisfacente. Ma lo è
dal punto di vista di una disamina completa del concetto di vita? Lo stesso
Schroedinger è costretto ad abbandonare il piano meramente materiale, quando
afferma che “la mia vita cosciente è connessa alla natura e al funzionamento
del mio organismo (soma), e in particolare al sistema nervoso centrale; questi
sono d’altronde in diretta relazione causale e genetica con la natura e il
funzionamento d’altri organismi precedentemente esistiti (…). Proprio la
conformazione di quello che io chiamo il mio Io cosciente è nella sua essenza
frutto diretto di avvenimenti ancestrali, ma non esclusivamente e non
principalmente dei miei concreti predecessori” (La Mia Visione del Mondo, 1960).
Risuona chiaramente il concetto filosofico dell'Unus Mundus, una realtà
unificante, che prescinde e supera il singolo, e la sua coscienza individuale,
e che tutto avvolge, tanto che, affermerà l'alchimista cinquecentesco Gerhard
Dorn, è Dio ad aver bisogno di redenzione, non l'uomo che, di per sé, non
esiste se non dentro una realtà unificante di ordine superiore.
Possiamo accedere a questa
teoria, che di fatto unifica il corpo e lo spirito? Jung, che in definitiva
parifica l'anima universale all'idea di una psiche presente ovunque nel mondo, come
un pneuma vitale che lo permea, afferma che “la psiche non può essere
totalmente altro dalla materia; altrimenti come potrebbe muoverla? E la materia
non può essere totalmente estranea alla psiche; come potrebbe altrimenti
produrla? Il mondo di psiche e materia è il medesimo e l'una partecipa
dell'altra, altrimenti l'interazione sarebbe impossibile.” (Aion, 1950). La
fisica ci dice che, in definitiva, alla radice della materia vi è l'energia.
Due formule semplicissime bastano a tal fine: la prima è la notissima formula
di base della relatività, per la quale e = mc2. Di fatto significa che, al
netto del fattore costante di conversione (c2, il quadrato della velocità della
luce) materia ed energia sono la stessa cosa, e che la materia rappresenta una
quantità di energia immensamente superiore alla sua massa. La seconda formula è
la definizione termodinamica dell'entropia, per cui dS = d Qrev/T, ovvero la
variazione di entropia S è pari al rapporto fra la variazione di calore ceduta
in un dato passaggio di stato di un sistema (Qrev) e la temperatura T in cui
avviene questo passaggio di stato. Ciò significa che in un passaggio di un
corpo da uno stato all'altro, l'energia di questo corpo non si distrugge, ma
una parte di questa energia si disperde, per cui in un sistema la quantità
totale di energia (quindi la materia) cambia, in parte diventa qualcosa di non
riutilizzabile fisicamente (va in entropia) ma non si distrugge mai, quando
passa da uno stato all'altro. Quindi la materia non è altro che energia molto concentrata,
e l'energia non si distrugge mai, quando subisce un cambiamento di stato.
Se si
supera la divaricazione fra materia ed energia, fra corpo ed anima, che in
fondo è il portato dell'educazione cattolica, si supera anche un riduzionismo
materialistico della concezione di vita, che ci aiuta, e molto, a respingere la
commercializzazione della stessa, che Venter e i suoi colleghi ci vogliono
propinare. Forse il miglior interprete di un riduzionismo intelligente è il
neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux. I suoi esperimenti hanno
contribuito in modo enorme ad un progresso complessivo del funzionamento del
cervello, aiutandoci a localizzare l'area, quindi la base biochimica, dei
ricordi e della coscienza, riducendola in termini di epifenomeno neurobiochimico.
Nel
modello completo di funzionamento cerebrale che Changeux ricostruisce in modo
chiarissimo, anche per un profano, il neurone, grazie alla separazione della
sua membrana, scambia atomi di sodio e di potassio, generando elettricità,
tramite un enzima-pompa, l'ATP. Il neurone agisce da pila elettrica e da
oscillatore, emanando ondate di impulsi elettrici tramite i nervi e le
connessioni cerebrali, attivando i processi mentali coscienti, ed anche quelli
inconsci (quando dormiamo e sogniamo, l'attività elettrica cerebrale è molto
intensa).
Sappiamo
perfettamente che la coscienza ed il comportamento sono gravemente modificati
da danni cerebrali. In particolare, la ricerca criminologica ci spiega che
lesioni al lobo frontale stimolano l'aggressività e l'incapacità di formulare
pensieri logici di fronte a stimoli ambientali, lesioni al lobo temporale pregiudicano memoria ed
affettività, lesioni all'amigdala provocano difficoltà a gestire la paura e
distorcono le emozioni. Numerosi serial killer psicopatici presentano lesioni
cerebrali, o hanno una storia di ferite o malfunzionamenti dell’apparato
neuropsichico.
Quindi
la base organica della coscienza è un dato scientificamente inoppugnabile, così
come lo è la sua natura di epifenomeno di processi biochimici e bioelettrici
che avvengono nel cervello e nel sistema nervoso. Il che, però, è del tutto
coerente con il concetto di fondo dell’Unus Mundus, di una identità di fondo
fra energia, materia e spirito, in manifestazioni esterne evidentemente diverse,
ma non intrinsecamente separate.
La coscienza e la vita
D’altra
parte, lo stesso riduzionismo di Changeux dice cose molto interessanti. Ad
esempio, conversando con il filosofo Paul Ricoeur nel bellissimo libro “What
makes us think?”, sostiene la tesi, tipica degli empiriocriticisti, secondo la
quale il cervello è un sistema proiettivo, che proietta continuamente le sue
ipotesi sul mondo esterno, dando un significato a ciò che i sensi percepiscono,
arrivando persino, a volte, a dare significato anche a ciò che non ha
significato, come nel caso di superstizioni magiche o religiose. In altri
termini, sembrano esservi delle rappresentazioni cerebrali “precedenti”
all’esperienza diretta del mondo, che vengono messe dialetticamente in
confronto con quest’ultima, dandole un significato, in realtà già presente a
monte nelle rappresentazioni intrapsichiche, e che forse potrebbero, con
qualche forzatura, assimilarsi agli archetipi dell’inconscio collettivo della
teoria junghiana.
Questo
modello inficia alla base la possibilità che il cervello umano funzioni come
l’intelligenza artificiale, che invece è basata su un più semplice modello di
tipo input-output, nel quale non vi è una sedimentazione di significati
“innati”. Ed è una conclusione estremamente importante, perché significa che
l’intelligenza artificiale non potrà mai replicare quella umana, che c’è un
“quid”, che rende umana la coscienza, che l’intelligenza sintetica non può
possedere. D’altra parte, è possibile obiettare a tale considerazione che le
intelligenze artificiali potranno, in futuro, incorporare funzioni di
auto-apprendimento, con software auto-didattici in grado di incorporare nella
memoria sintetica ogni nuova esperienza, non prevista ex ante dai
programmatori, ed in base ad algoritmi interni, in grado anche di fornire delle
regole di comportamento nuove, da adottare a fronte di tali eventi, quando si
dovessero ripetere. In questo modo, l’intelligenza artificiale arriverebbe,
progressivamente, ad incorporare un set di significati preesistenti, come
quelli del cervello umano.
Interviene
però un teorema fondamentale della logica matematica, ovvero il primo teorema
di Gödel (1931). Detto teorema, in parole semplici ma chiare, afferma che in
ogni sistema matematico formalmente coerente (cioè dotato della proprietà
secondo cui i teoremi possono essere sviluppati a partire dall'insieme degli
assiomi alla base del sistema stesso) ci sarà sempre almeno una proposizione
sintatticamente corretta che non potrà essere né dimostrata né confutata
all'interno del sistema stesso. Il corollario è che solo i sistemi
inconsistenti (cioè i sistemi affetti da assiomi iniziali in contraddizione
l'uno con l'altro) possono dimostrare qualsiasi affermazione. Il teorema di
Gödel ci fornisce il limite estremo insuperabile dell'intelligenza artificiale.
Il sistema informatico o la rete neuronale che rappresentano la base
dell'intelligenza artificiale funzionano sulla base di algoritmi, sono cioè
sistemi matematici coerenti, costruiti a partire da un set di assiomi, che
sviluppano da questi assiomi regole logicamente coerenti. Tali sistemi sono quindi intrinsecamente
limitati dal fatto che incontreranno sempre
proposizioni che non saranno in grado di elaborare, e che non potranno
quindi incorporare nella loro base cognitiva e comportamentale. Ciò infatti
esclude a priori la possibilità che le macchine possano un giorno acquisire la
coscienza del proprio Io, ovvero la consapevolezza della propria esistenza e
quindi del proprio libero arbitrio. Poiché la macchina opera con un sistema di
regole, cioè con un sistema formale coerente e consistente, essa non è in grado
di dimostrare la veridicità dell'affermazione "siccome opero, allora esisto,
e quindi sono libera di fare della mia esistenza ciò che voglio”, perché il suo
sistema coerente impedisce di formulare un algoritmo che neghi alcune delle
regole di funzionamento della macchina. Noi umani, ad esempio, possiamo sempre
essere liberi di negare la validità di un comportamento derivante da un
apprendimento impartitoci durante la nostra infanzia. La macchina non può
negare la validità di una delle sue regole comportamentali inserite nel suo
software o nella sua rete neuronale, perché ciò equivarrebbe a privare di
coerenza (e quindi di validità funzionale) il suo sistema formale di
intelligenza.
La
coscienza potrebbe quindi avere qualcosa di sfuggente, di “umano”, non
replicabile, non costruibile a priori in forma sintetica? E ammesso che ci sia,
lo possiamo chiamare anima personale? Si. La possiamo chiamare coscienza
individuale? Anche. Qualcosa che si esprime su una base organica di meccanismi
biochimici, che ha quindi base materiale, e dunque energetica (perché fra le
due non vi è differenza, se non esteriore) e che quindi può cambiare stato, ma
non disperdersi insieme alla disgregazione dell’ordine dell’organismo vivente
dopo la sua morte, che forse, per via della sua conseguente caduta in entropia,
può perdere i suoi legami interni di percezione, analisi, attribuzione di
significato e determinazione di una risposta ai vari livelli (fisico, emotivo,
intellettuale, ecc.)? E che quindi, forse, spingendoci un po’ più in là con
l’immaginazione, diventi una sorta di coscienza a circuito chiuso,
autoriflettente ed eternamente ripiegata a rimuginare sui significati preconsci
acquisiti in vita (dall’osservazione dei suoi sogni e di una sua esperienza
pre-morte, Jung ipotizzò che la vita serva ad assimilare esperienze, nozioni e
significati, cioè il substrato di rappresentazioni a-priori, poiché l’anima
dopo la morte non apprende più niente, ed in qualche modo si limita a
riflettere eternamente su tali rappresentazioni)? Sono tutte domande ovviamente
a cui nessuno ha una risposta, perché travalicano il campo della scienza, e
finiscono nella fede. Ma, sulla base degli studi di Changeux, possiamo dire che
la coscienza umana non adotta il metodo input/output dell’intelligenza
informatica e cibernetica. E possiamo ritenere che la vita e la coscienza non si
riducano unicamente ad un patchwork di sequenze di DNA liberamente
ricombinabili in modo da fornire ad un frustrato cliente il carattere che
vuole, assortito da un catalogo (della serie: “vuoi il carattere coraggioso di
Arnold Schwarzenegger? Oppure il carattere sognante ed introverso di un grande
poeta romantico? Oppure potresti gradire la personalità di Rodolfo Valentino”).
Persino
le lesioni a determinate parti del cervello possono portare ad esiti diversi,
cioè ad avere individui più aggressivi, oppure no, in funzione di elementi
psicologici, educativi e di ambiente sociale in cui i diversi individui sono
immersi. Persino lo studio psichiatrico delle schizofrenie suggerisce, stante
l’enorme variabilità delle combinazioni sintomatologiche, che si sia in
presenza di una famiglia di psicosi, e non di una malattia specifica. E sebbene
la radice genetica della schizofrenia sia stata molto studiata, anche per il
tramite di fattori ereditari, oltre che di correlazioni statisticamente significative,
ad esempio con fenomeni di delezione del cromosoma 22, così come sia ben
documentata la sua radice organica (si riscontrano in almeno la metà dei casi
differenze organiche nel cervello dei pazienti, così come determinate patologie
subite allo stato fetale favoriscono l’insorgenza della malattia) essa si
sviluppa, generalmente, in un ben preciso “set” di fattori sociali ed
ambientali. Una ricerca del 2006 ha stabilito che circa due terzi dei pazienti
con schizofrenia avevano sperimentato eventi di violenza fisica e/o sessuale
durante la loro infanzia[3]. Altre ricerche hanno
evidenziato robuste correlazioni con fattori come l'isolamento sociale e le
avversità sociali dovute all'immigrazione, la discriminazione razziale,
problematiche familiari, la disoccupazione e condizioni abitative precarie
(Picchioni, Murray, 2007; Selten, Cantor-Graae, Kahn, 2007).
Diventa
allora molto difficilmente argomentabile, di fronte a tali evidenze, che la
coscienza umana non abbia una componente individuale immutabile, non
ricostruibile/modificabile a piacere in laboratorio, su una base puramente
materiale. Anche supponendo di aver perfettamente delimitato la base genetica
ed organica della schizofrenia, o di qualsiasi altro disturbo psicotico, così
come anche dei comportamenti umani “normali”, rimarrebbe da spiegare il grande
mistero sul “come” l’ambiente familiare e sociale, l’educazione, il vissuto
personale, inibiscano o incentivino, a parità di condizioni genetiche ed
organiche, lo sviluppo di una determinata personalità, sia essa psicotica o
clinicamente sana.
Qual è
la fonte, l’origine del déclic che porta ad uno sviluppo della personalità di
un certo tipo? Solo la metà dei casi di schizofrenia presentano modifiche
organiche al cervello. Le recentissime scoperte di alcuni “geni della schizofrenia”,
cioè di alcuni elementi del genoma che ,se alterati, favoriscono
statisticamente l’insorgere della malattia, al netto dei fattori sociali ed
ambientali, lascia intatti molti interrogativi. Fargnoli et al. (2011)
evidenziano come “l’ipotesi dell’origine
genetica della schizofrenia non trova conferme definitive né negli studi
epidemiologici condotti su popolazioni di gemelli e figli adottivi, né negli
studi di biologia molecolare. Anche dagli studi di Genome wide association, a
tutt’oggi la metodica più promettente, è emerso
che benché siano numerosi i geni
candidati a determinare una suscettibilità genetica alla schizofrenia, nessuno
di questi ha mostrato fattori predittivi
elevati e anche volendo trascurare questo dato epidemiologico è emerso che la
maggior parte dei genotipi mutati non è in grado di fornire un contributo preponderante nella
patogenesi della malattia. Si tratta
infatti di geni cosiddetti “a piccolo effetto” codificanti cioè per
molecole il cui ruolo è sottoposto a meccanismi regolatori estremamente
complessi. L’individuazione della relazione fra alterazione molecolare e
malattia risulta pertanto macchinosa e troppo spesso del tutto aspecifica
essendo tali mutazioni riscontrate anche nel contesto di malattie neurologiche.
I punti deboli di tali ricerche riguardano non solo gli aspetti più
strettamente metodologici delle indagini statistiche, ma soprattutto i criteri
diagnostici in base ai quali le popolazioni indagate sono selezionate. La
diagnosi di schizofrenia effettuata con i criteri diagnostici del DSM-IV è
stata ripetutamente criticata perché ad essa manca un fondamento
psicopatologico, un criterio che consenta di individuare il cosiddetto nucleo
generatore della psicosi”.
Inoltre,
uomini geniali come Martin Heidegger o il matematico John Nash, vincitore del
Premio Nobel per l’Economia del 1984 per le sue ricerche sulla teoria dei
giochi, erano o sono affetti da schizofrenia diagnosticata. Nonostante ciò, la
psicosi non ha impedito loro di effettuare ricerche molto importanti e
complesse, o di arrivare a realizzazioni creative molto elevate. E ciò sembra
destituire di fondamento l’ipotesi di un “deficit cognitivo” associato a
determinate aberrazioni, malfunzionamenti o lesioni neurocerebrali. Vi è di
più: il nostro John Nash guarisce dalla sua schizofrenia da solo, dopo il 1970,
smettendo di ingerire i farmaci psicotropi prescrittigli, semplicemente, come
dirà sua moglie, grazie al fatto di poter “vivere una vita tranquilla”, e di
essere accettato dentro una comunità terapeutica in cui la sua malattia non era
considerata una stranezza inquietante, degna di isolamento, ma un fatto normale
ed accettato. La storia dell’infanzia del nostro genio della teoria dei giochi
è invece una storia di solitudine, isolamento dagli altri.
L’ingegneria genetica e la vita artificiale
Allora,
è possibile accettare la tesi riduzionista dei due fondatori della genetica,
ovvero Watson e Crick, secondo cui “la
caratterizzazione chimico-fisica di un sistema biologico è sufficiente a
spiegarne le proprietà ed il comportamento, ovvero che i livelli di
organizzazione al disopra di quello molecolare diventano irrilevanti o
ridondanti”?
Questo
paradigma riduzionistico, nato con la nascita stessa della genetica, che ne ha
condizionato tutta la storia, fino a pervenire alle tesi di Craig Venter,
secondo le quali è possibile manipolare la coscienza arrangiando un po’ il
genoma, per cui non esiste una “umanità per sé”, è la base sulla quale gli
stessi Watson e Crick hanno costruito la cosiddetta “legge aurea” della
genetica. Secondo tale legge, semplice e lineare, i geni contenuti nel DNA
trascrivono l’informazione in una molecola più semplice, di RNA, che la
trasporta fin ad una struttura della cellula che è responsabile della
produzione di un determinato enzima, e che si chiama ribosoma. Gli enzimi
prodotti sulla base di questa sollecitazione assemblano una sequenza di
aminoacidi, che sono il “mattone” costitutivo delle proteine. Queste ultime,
una volta prodotte, vanno a costituire il tratto biologico ed il comportamento
caratteristico di ciascuno di noi.
In
realtà, questa legge aurea, che per di più è considerata, inizialmente, a
direzione unica (si va dal DNA all’RNA, agli enzimi, agli aminoacidi, alle
proteine, ed infine alle caratteristiche fisiche e comportamentali), è
clamorosamente smentita dalle scoperte successive, che ad esempio isolano i
retrovirus, dei virus a filamento di RNA, che sono caratterizzati dalla
trascrittasi inversa, cioè da un flusso di informazioni che non codifica l’RNA
dal DNA, ma fa il percorso inverso. Più in generale, come sottolinea il biologo
statunitense Richard Strohman, “l’illegittima estensione di un paradigma
genetico dal livello relativamente semplice della codificazione e
decodificazione genetica a quello complesso del funzionamento cellulare
rappresenta un errore epistemologico di prima grandezza”. In altri termini, la
genetica tradizionale, e qui vi è il suo grande, enorme limite, non tiene conto
della complessità. Come ci dice F. Capra, negli organismi eucarioti la semplice
corrispondenza “un gene, una proteina”, tipica della legge aurea, non esiste
più. Negli organismi superiori ai semplici batteri, infatti, i geni che
codificano le proteine non sono più in sequenza continua, ma frammentati,
inframmezzati da lunghe ripetitive sequenze che non codificano niente, e la cui
funzione ci è oscura. Le sequenze codificanti possono dunque essere ricombinate
in modi diversi, e dare luogo ad una pluralità di proteine diverse, ed inoltre,
tramite una molteplicità di meccanismi, la cellula può modificare la proteina
prodotta, per renderla funzionale ad uno scopo preciso piuttosto che ad un
altro. Inoltre, pur essendo il genoma complessivo identico per tutte le
cellule, esse sono altamente differenziate: abbiamo cellule muscolari,
epatiche, nervose, ematiche, ecc. Quindi, pur avendo lo stesso genoma, le
diverse categorie di cellule lo attivano con schemi diversi, che lo
differenziano. Tra l’altro, pur avendo un patrimonio genetico molto simile, per
non dire quasi identico, l’uomo, lo scimpanzé, il topo ed il maiale sono
animali molto diversi fra loro.
Il
colmo è che il meccanismo di attivazione del genoma che specializza le cellule
e differenzia moltissimo animali con un patrimonio genetico di base quasi
identico, non è nemmeno di tipo genetico, ma risiede nella rete epigenetica
della molecola, nella quale sono coinvolte numerose strutture della cellula, ma
anche ormoni, reti di enzimi e molecole complesse, formate da una pluralità di
proteine semplici, come la cromatina. Tutte queste componenti strutturali della
cellula influenzano l’attivazione ed il funzionamento dei geni con azioni non
lineari, dove il feed-back è la regola e non l’eccezione.
Come
quindi ci avvertono i genetisti più preparati, la questione non può risolversi
nei termini semplicistici con i quali la pone Venter: “datemi la sequenza
genetica di un batterio o di un virus responsabili di una malattia, ed io
realizzerò un controvirus che li distrugga”, oppure “datemi la sequenza
genetica di una cellula cancerogena, ed io la modificherò, in modo da evitare
che si duplichi”. Nel caso di malattie alle coronarie, ad esempio, sono stati
identificati più di 100 geni che a qualche titolo hanno una responsabilità, e
che agiscono dentro una complessa rete epigenetica cellulare, piena di
retroazioni ed effetti non lineari. Lo stesso vale per molte malattie genetiche
(nella distrofia muscolare, agisce un solo gene, che però codifica una proteina
molto complessa, costituita da 1.500 aminoacidi, e tale gene può mutare in circa
400 forme diverse, in base ai meccanismi di attivazione della rete cellulare, e
una sola di queste mutazioni è responsabile della malattia). Lo stesso vale per
la schizofrenia, malattia in cui i geni responsabili vengono attivati in forme
molto complesse dalla rete cellulare, forme che sfuggono al campo di conoscenza
della genetica in senso stretto, e che hanno a che vedere con complessi
fenomeni chimici e biologici intracellulari, ed intercellulari.
Questa
complessità, ancora molto poco esplorata, potrebbe forse essere, almeno in
parte, individualizzata, cioè assume forme diverse da individuo ad individuo,
anche all’interno di una specifica specie, e può, in termini scientifici,
rappresentare gran parte della diversità biologica e comportamentale che
osserviamo da uomo ad uomo. Cioè quell’umanità che ci è propria, e che sfugge
ad un semplice esame del DNA individuale, che anch’esso presenta differenze
distintive, minime ma misurabili, da uomo ad uomo.
In
sintesi, dunque, ecco le sfide principali che il concetto di vita pone allo
scienziato:
-
Potrebbe non esservi
soluzione di discontinuità fra materia ed energia, e potremmo immaginare che
l’energia si conservi, sia pur in forme diverse ed entropiche, quindi non
ordinate, dopo un passaggio di stato fondamentale;
-
La vita, in un certo
senso, per preservare il suo disequilibrio stazionario, viola il secondo
principio della termodinamica, per cui è dotata di funzioni omeostatiche che
contraddicono il principio secondo il quale il funzionamento di un sistema
accresce la sua entropia nel tempo. Non esiste alcuna macchina che possa
violare il secondo principio della termodinamica, in quanto tale principio è
generale, ed è matematicamente dimostrabile;
-
Quanto sopra impedisce
di poter considerare la vita come una ”macchina anatomica”, fabbricabile in laboratorio. Qualsiasi
macchina, infatti, produrrebbe nel tempo un aumento dell’entropia, esattamente
ciò che la vita non fa;
-
La vita funziona in base ad un proprio codice
informativo, costituito dal DNA, ma nelle forme di vita più complesse del regno
degli eucarioti, cui apparteniamo anche noi uomini, sembra impossibile
stabilire una relazione diretta fra codice genetico e tratto biologico e
comportamentale, in quanto il funzionamento del patrimonio genetico è
intermediato da una rete molto complessa di azioni e reazioni a livello
cellulare, rispetto alle quali abbiamo ancora una conoscenza molto precaria e
modesta; ciò vale a relativizzare moltissimo anche la possibilità di curare le
malattie genetiche e le altre malattie, del corpo e della mente, soltanto
mediante interventi di ingegneria genetica, che non tengano conto della
complessità della rete epigenetica cellulare;
-
Analizzando le forme
di vita complesse e dotate di coscienza, ed in particolare il funzionamento
psichico dell’uomo, esso non sembra essere meramente proiettivo, ma sembra invece
procedere da significati preesistenti alla percezione, acquisiti
ereditariamente, che in gergo junghiano potremmo identificare con gli archetipi
dell’inconscio collettivo, e che di fatto rendono impossibile costruire, con
gli strumenti “input-output” tipici dell’intelligenza informatica, forme di
coscienza sintetica analoghe a quelle umane;
-
Peraltro, il primo
teorema di Goedel impedisce all’intelligenza artificiale, anche quando dotata
di strumenti di auto-apprendimento, di andare oltre un funzionamento meramente
algoritmico, come è invece quello della mente umana;
-
Non appare possibile,
alla luce dell’esperienza psichiatrica e psicoanalitica, spiegare il
comportamento e la personalità umana, sia nell’ambito della normalità che della
psicosi, senza passare per fattori sociali, ambientali e culturali, che
possono, forse, lasciare un segno organico nel sistema nervoso e nel cervello,
ma che, ovviamente, nella loro molteplice diversità ed individualità non sono
replicabili in laboratorio. Poiché una parte fondamentale della coscienza è
determinata da fattori ambientali, e tali fattori non sono interamente
riproducibili in laboratorio, non è possibile costruire in laboratorio una
coscienza umana.
Quelle
sopra sintetizzate sono le sfide cui dovrebbe rispondere un programma di
ricerca volto a creare la vita ex nihilo. Non ho l’intenzione di minimizzare
gli straordinari progressi scientifici che i prodotti della ricerca di Venter
hanno messo in campo, e tantomeno le grandi prospettive che si schiudono
tramite tali risultati. Però chiederei molta più cautela nell’affermare, come
fa lui, che “la vita alla fine è abitata
da macchine biologiche guidate dal DNA. Tutte le cellule viventi girano con
questo ‘sistema operativo’ che dirige centinaia di migliaia di robot chiamati
proteine. Disegneremo e ridisegneremo gli organismi”: oppure che “dato il carattere digitale
dell’informazione, saremo in grado di ‘teletrasportare’ questi dati ovunque in
tempo reale, per assemblare a distanza proteine, virus, cellule viventi”.
Mettiamo un po’ di ordine. Cosa
ha fatto Venter, con la sua società, nel 2010? Ce lo racconta il suo
ricercatore-capo, Hamilton Smith: “abbiamo
sequenziato in maniera accurata il genoma del Mycoplasma mycoides (un
batterio che vive nei polmoni di alcuni ruminanti, causando malattie polmonari,
Nda), che consiste di un po' più di un
milione di coppie di basi, e l' abbiamo messo in una banca dati. Abbiamo poi
ridisegnato al computer il genoma, cancellando alcuni geni, aggiungendone
altri, e inserendo delle watermarks, "filigrane". Questo per far sì
che la cellula sintetica non fosse esattamente uguale a quella originaria (le
filigrane, che non fanno parte del genoma del batterio, sono triplette di nucleotidi,
dette codoni, riordinate nel DNA batterico in un ordine tale da rappresentare
una frase o un messaggio, e rappresentano il “trademark”, la “firma d’autore”,
che Venter ha voluto metter per far riconoscere il DNA così rielaborato come
frutto della sua società, Nda). A questo
punto abbiamo chiesto alla Blue Heron Biotechnology di sintetizzare il nostro
genoma. E loro ce l' hanno restituito suddiviso in 1078 pezzi, ciascuno dei
quali era lungo un migliaio di basi e si sovrapponeva al successivo o al precedente
per 80 basi. Abbiamo dovuto assemblarlo in un' unica catena. Ci siamo accorti
che, mettendo i vari pezzi dentro una cellula di lievito, l' assemblaggio
avveniva automaticamente. In altre parole, non l' abbiamo dovuto fare noi, e ce
lo siamo fatti fare dal lievito. Abbiamo impiantato questo DNA, originario del
Mycoplasma Mycoides, in un Mycoplasma Capricolum (cioè un altro batterio,
appartenente alla stessa specie, quindi caratterizzato dal più stretto livello
biologico di parentela esistente, tanto da poter ottenere una prole feconda in
caso di incrocio, un po’ come l’Homo Sapiens e l’Uomo di Neanderthal, NdA). Abbiamo così ottenuto due genomi, quello
originale e quello impiantato, che vengono segregati nella divisione cellulare,
ed eliminato le cellule col genoma originale mediante un antibiotico. Le
cellule col genoma originale sono eliminate dall' antibiotico, e quelle col
genoma sintetico sopravvivono. Alla fine, rimangono solo quelle. Come verifica
finale, abbiamo sequenziato il loro genoma, e controllato che fosse
effettivamente quello che ci avevamo messo noi. Aveva tutti i cambiamenti che
avevamo fatto noi, comprese le filigrane. Ma c' erano state delle mutazioni.
Una era stata prodotta dal lievito, nel processo di incollamento dei pezzi. Altre
otto erano avvenute nel processo di copiatura, ovviamente nessuna letale”.
Il Mycoplasma mycoides di partenza
Il Mycoplasma Capricolum usato come veicolo
L’ibrido che ne è risultato
Sostanzialmente, quindi, un DNA
di un organismo, riprodotto al computer, e modificato aggiungendovi e
togliendovi geni “non essenziali”, cioè geni che non influiscono sul processo
vitale (un po’ come i geni inutili del genoma umano, di cui ho parlato prima) e
aggiungendovi basi di DNA di riconoscimento (le filigrane), è stato inserito in
un organismo biologicamente e zoologicamente molto simile a quello di partenza,
ottenendo un organismo ibrido, in grado di vivere e di riprodursi.
Naturalmente non è stata creata
la vita ex nihilo. Il termine di “vita sintetica” attribuito a tale esperimento
è fuorviante. E’ stato preso un organismo vivente già esistente in natura, il
suo patrimonio informativo è stato modificato, limitandosi però soltanto a
toccare geni inattivi e privi di una funzione vitale, o a riordinare in un
ordine diverso altri geni (per costruire la filigrana), ed è stato inserito
dentro un altro organismo vivente, creando un ibrido. Non c’è assolutamente
niente di sconvolgente, ma in fondo una evoluzione, in ambiente controllato ed
in laboratorio, di fenomeni che si verificano anche in natura. In natura un
processo simile dà luogo all’evoluzione dei batteri. Poiché i batteri non si
riproducono per via sessuale, ma per divisione, la loro evoluzione è garantita
da due meccanismi principali: quello delle mutazioni e quello delle
ricombinazioni. In particolare, nel meccanismo della ricombinazione, un
batterio donatore trasferisce delle sequenze nucleotidiche al batterio
ricevente, che le integra nel proprio genoma. Tutto ciò porta all'acquisizione
di nuovi caratteri, come la capsula, la capacità di produrre particolari
tossine, fattori di resistenza agli antibiotici ecc. Cioè da luogo ad un nuovo
batterio.
Tra l’altro, tutto l‘esperimento
ha avuto luogo partendo da due organismi viventi preesistenti, e non da
materiale non vivente, elaborato in modo tale da dar luogo alla vita. Quindi
non si è creata ex nihilo la vita. Come spiega onestamente lo stesso Smith, con
onestà intellettuale “abbiamo dovuto
accontentarci di usare il repertorio della natura. Ci vorrà molto tempo, prima
che si riesca a fare un gene veramente artificiale. Non siamo ancora così
intelligenti da progettare una proteina da soli. Per ora solo la natura e
l'evoluzione lo sanno fare”.
Di conseguenza, va molto
qualificata, per poterla considerare corretta, l’affermazione di Venter, a
commento del suo esperimento, per cui “è
abbastanza sorprendente vedere, quando sostituisci il "software" Dna
nella cellula, come questa immediatamente inizi a leggere il nuovo software, e
inizi a produrre un nuovo set di proteine; in breve tempo tutte le
caratteristiche della prima specie scompaiono e iniziano a emergere le
peculiarità della nuova cellula batterica. Quando guardiamo alle forme di vita,
tendiamo a vederle come entità fisse. Ma questa ricerca mostra come in realtà
siano dinamiche, come cambino da un istante all’altro. La vita è principalmente
il risultato di un software, di un processo informatico”. Innanzitutto
parliamo di vita batterica, che ha, ovviamente, una coscienza, in quanto essa è
coessenziale alla vita (come dirò meglio tra breve), molto diversa da quella
umana. Non avendo cervello e sistema nervoso, i batteri hanno una coscienza che
muove da linee evolutive ed ereditarie, e che appare ampiamente
“collettivizzata”, condivisa cioè all’interno dell’intera colonia batterica, e
non individuale, come nel caso degli animali superiori. Inoltre, l’esperimento
di Venter ha riguardato due batteri biologicamente molto simili tra loro (cfr.
anche per un confronto visivo, le due immagini sopra riportate delle due
sottospecie di mycoplasma utilizzate), appartenenti ad una medesima specie, con
materiale genetico e biologico pressoché identico, quindi in larga misura
“compatibile”. In questo contesto, ed
esclusivamente in questo contesto, si può affermare, con una certa
approssimazione al vero, che il DNA funziona come un software, che modifica il
funzionamento del batterio. Peraltro un software non del tutto funzionante
secondo i desiderata di chi lo programma, atteso che genera, sin da questo
stadio così elementare e controllabile, mutazioni del tutto impreviste.
Ma in generale, ancora una volta,
non c’è niente di sconvolgente: già in natura i batteri mutano, evolvono,
cambiano, per processi già analizzati di mutazione e ricombinazione, che fanno
cambiare il funzionamento delle nuove generazioni rispetto alle precedenti (ad
es. si creano nuovi ceppi che iniziano a produrre sostanze chimiche, che li
rendono immuni agli antibiotici). Questa forma non è altro che la forma con cui
si sviluppa la coscienza di quelle forme di vita. E Venter non ha fatto altro
che riprodurre questo sviluppo naturale in laboratorio. Il cambiamento della
vita che Venter osserva non è altro che il frutto dell’evoluzione, che possiamo
copiare, riprodurre ed in parte modificare (fino ad un certo punto: anche
l’ibrido prodotto in laboratorio da Venter, ove rilasciato in natura, dovrebbe
seguire le leggi naturali dell’evoluzione e della selezione della specie).
Le forme di vita più complesse,
cui apparteniamo come uomini, possiedono, lo abbiamo già discusso lungamente,
reti epigenetiche di funzionamento che di fatto costruiscono una coscienza che
supera il semplice meccanismo di azione/reazione ad apprendimento ereditario, e
l’aspetto meramente collettivo e non individuale, tipico della coscienza
batterica. Per stadi superiori di complessità della vita, mi dispiace, la
metafora del software genetico non funziona. Non è semplicemente vera.
Il mistero della vita, il mistero
profondo di essa, dunque, non è stato toccato in nessun modo. Gli esperimenti
che tentano di riprodurre in laboratorio la vita, dalle sue condizioni
iniziali, a partire dal pionieristico lavoro di Miller ed Urey del 1953, sinora
non hanno condotto a nient’altro che alla produzione delle molecole, inanimate,
che sono alla base della vita, ma che di per sé non sono vive: monomeri di
aminoacidi, di adenina (un composto presente dentro gli acidi nucleici),
membrane chiuse che ricordano quelle delle cellule. Il problema è che nessuno è
in grado di aggregare questi elementi, di passare da monomeri ai polimeri, fino
a strutture più complesse come la cellula. Ci manca cioè completamente la
capacità di passare da molecole semplici e inanimate a cellule complesse e
viventi. Non abbiamo la capacità di ricostruire la complessità e l’ordine
interno, che differenzia un organismo vivente da qualsiasi altro sistema che,
funzionando, produce entropia crescente. Dobbiamo convenire con ciò che
Teilhard De Chardin chiama la legge di complessità e coscienza, ovvero, nelle
sue parole, l’osservazione secondo cui “più
un essere è complesso, in base alla nostra Scala di Complessità, più esso è
centrato su se stesso e per questo diventa più consapevole. In altre parole,
più elevato è il grado di complessità in un essere vivente, maggiore è la sua
coscienza; e viceversa”. In altre parole, la complessità della vita, che
alla scienza sfugge ancora, è legata in modo crescente allo sviluppo della
coscienza, in modo tale per cui, per dirla con Bergson, la coscienza diviene
coestensiva alla vita stessa.
Per terminare questa lunga
riflessione, possiamo dunque dire che la vita è coscienza, nelle sue varie
scale di complessità, da quella rudimentale di una colonia batterica a quella
evoluta dell’uomo. E la coscienza non può essere costruita a partire dalla
materia, perché, come ci avverte sempre Bergson, “la vita porta con sé qualcosa che ci allontana dalla materia bruta. In
condizioni determinate, la materia si comporta in un modo determinato, niente
di ciò che essa fa è imprevedibile (…) La materia è inerzia, geometria,
necessità. Ma con la vita è apparso il movimento imprevedibile e libero.
L’essere vivente sceglie o tende a scegliere”. Noi oggi sappiamo che
persino i batteri più primordiali, simili alle primissime forme di vita sul
nostro pianeta, pur essendo privi di cervello e sistema nervoso, hanno, entro
certi limiti, la capacità di adattare le loro strategie di sopravvivenza, e mutare,
in funzione dei parametri dell’ambiente in cui si trovano. Recenti scoperte
hanno addirittura messo in evidenza sistemi chimici di comunicazione fra i
batteri appartenenti a colonie. E ricordiamolo, a costo di essere ripetitivi:
l’esperimento di Venter sui mycoplasma ha prodotto mutazioni impreviste, non
controllabili dagli sperimentatori. Cioè ha creato un microrganismo ibrido le
cui caratteristiche genetiche e biologiche non sono determinabili a priori al
100%, perché c’è quel quid di imprevedibilità che la vita stessa produce.
Se la vita è coscienza, che
evolve con l’evolvere della complessità, e segna un momento radicale di
discontinuità dalla pura materia, allora possiamo avere una ragionevole
certezza, e direi anche una speranza, che non si potrà mai costruire la vita in
laboratorio, e che non si potrà mai determinare sperimentalmente una coscienza.
E che questo è il vero tesoro che ci separa da un monomero di aminoacidi o da
una pietra. Qualcosa che va al di là della materia inerte, e che vola, potremmo
dire, con le ali dell’anima.
E se così è, allora troviamo
anche un limite a ciò che può fare il capitalismo nella sua evoluzione verso la
conquista della biologia e della vita: può costruire sementi geneticamente
modificate partendo da materiale genetico preesistente, con effetti
potenzialmente disastrosi sull’ambiente e la vita umana; può, manipolando tale
materiale, produrre nuovi principi attivi a fronte di nuove malattie, spesso
indotte dal progresso; può modificare un genoma; potrà influenzare la coscienza
degli uomini riprogettando gli elementi ambientali e culturali entro i quali
essi vivono e crescono; ma non potrà mai creare ex nihilo una coscienza in
provetta, in tutto e per tutto controllabile e parametrizzabile, non potrà mai
creare, come nel racconto di Huxley, uomini programmati a priori per diventare
piloti, piuttosto che funzionari di banca. In breve, non potrà mai riprodurre
la vita, che resterà sempre un passo avanti ogni possibile programmazione, ogni
possibile determinazione sperimentale, ogni possibile teoria che la spieghi.
E se così è, allora non possiamo
più permetterci la privatizzazione della ricerca in ambiti così fondamentali
come la genetica. Non possiamo pensare di brevettare la vita. Né di affidare la
ricerca sulla vita a considerazioni meramente basate sul profitto. Se solo
pensiamo che, per un soffio, non vi è stata l’appropriazione privatistica della
sequenza dell’intero genoma umano, e le conseguenze che una simile
privatizzazione avrebbe avuto sulla medicina, la farmaceutica, la salute umana,
allora dobbiamo prendere pubblicamente e chiaramente posizione in difesa della
ricerca pubblica, in questo campo.
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