IL PROGRAMMA*
di Sara PALMIERI
L’ha
persa tre anni fa la voglia di vivere. Quando è morta Teresa, la moglie. Già
facevano progetti per la vecchiaia. Come i giovani per il futuro.
Con i risparmi e due buone pensioni
avrebbero viaggiato, rinnovato il mobilio di casa, scelto nuove letture. A
Teresa piacevano i gialli, Eugenio preferiva l’avventura. Si erano ripromessi
di rileggere i classici: Tolstoj, Gogol, Proust, l’Odissea.
Ora Eugenio non ha più voglia di
leggere, né di viaggiare o di rinnovare il mobilio, si aggrappa al vecchio che
ha condiviso con Teresa.
Solo
a volte parlavano della morte, era un evento che non li riguardava.
Invece la morte è arrivata, di
mattina, una fredda mattina d’inverno, senza annunciarsi, senza essere attesa.
Un incidente di macchina, come altri, per il ghiaccio sulla strada.
Eugenio
è rimasto incredulo, per giorni. Ha pensato che non fosse vero e che lei
sarebbe ricomparsa, a dirgli che era una burla, la burla del Carnevale che
impazzava fuori.
Amici
e parenti a consolarlo, il nipotino che vuole giocare.
Frasi
di circostanza e psicologia spicciola: “Rielaborare un lutto, come per un
trasloco o un divorzio, richiede due anni, poi il dolore si attenua e ricominci
a vivere”.
Così non è stato ed Eugenio odia la
morte. Non è un sentimento originale. Tutti odiano la morte, ma non quanto lui.
Lui ha deciso di prevenirla, guardandola in faccia.
Il giardino dove è sepolta Teresa è
nel paese d’origine, così diverso dalla città dove hanno abitato. E’ su una
collina di terra rossa, su cui si distendono alberi di ulivo. All’orizzonte
occhieggia il mare.
Eugenio le ha piantato intorno i fiori
che più amava, narcisi e giunchiglie.
A fianco del sepolcro bianco, ce n’è
un altro, ancora vuoto, che lo accoglierà quando avrà attuato il programma.
Il programma gli è nato dentro una notte ed è
stato come una folgorazione, una luce che squarcia l’angoscia.
In questo Paese ipocrita, lo Stato
pretende di decidere il tuo destino.
Non
puoi scegliere di morire, neanche quando sei un malato terminale o un centenario
afflitto dalle piaghe. Figurarsi se può farlo Eugenio, che è in salute e non ha
ancora 60 anni. Non importa allo Stato dell’inaridimento che lo prostra dentro
e gli fa sembrare tutto inutile, faticoso.
Eugenio ha un amico a Lugano, medico
in una clinica che consente la morte a chi la desidera.
Una
morte pulita, in un letto candido, tra pareti asettiche. In Svizzera puoi
decidere la tua morte e programmarla come una festa di compleanno o di
matrimonio.
Ha
contattato l’impresa funebre del paese, ha scelto il giaciglio, un vestito
colorato, gli oggetti che vuole con sè (una foto di Teresa sulla spiaggia di
Maratea, il primo ciuccio di Federico, la pipa di radica rossa), ha avvisato
gli amici, il figlio.
Non erano d’accordo, ma è la sua
vita, anzi, la sua morte. Gli ha chiesto di essere felici e di brindare
all’unica scelta che gli è rimasta. Non sa scegliere altro. Tutto lo annoia e
gli è indifferente. Al suo amico Enrico, che gli parla di Dio ha risposto:
“Sta certo che nessun dio mi disturberà e finalmente sarò quieto, accanto a
Teresa”.
La sera prima di partire ha guardato
le foto di famiglia. Il cerchio si è chiuso. Arriva il momento in cui è giusto
andarsene. Quando non hai più niente da dire o da dare.
Alla luce della lampada, ha sfogliato La
Nausea di Sartre.
Ha preso il treno: pendolari come
automi, manager rampanti, studenti vocianti. “Non mi perdo nulla”. Passa
un mendicante, gli allunga cento euro. Quello lo guarda stranito. Lascia
un Paese decadente ed egoista, governato da idioti.
Il
treno varca la frontiera. Ora dal finestrino si alternano ville e giardini
fioriti.
Finalmente un viaggio senza bagagli,
come ha sempre sognato.
Scendendo inciampa sul predellino e si
ferma l’ attimo prima di battere la testa su un palo di ghisa. Sorride al
pensiero della beffa di una morte gratuita mentre ne sta comprando una.
La clinica è una villa antica immersa
nel verde, il taxi si ferma alla fine del vialetto. Il suo amico gli va
incontro, sa che non vuole perdere tempo, che detesta i cambi di programma.
Si spoglia, infila un camice verde. La
camera è come la immaginava, non sembra una stanza d’ospedale o l’anticamera
del buio. Si sdraia e attende. Arriva l’amico. Con lui c’è un’infermiera
giovane, che trascina un carrello di aghi e di flebo. Ne prende una, gliela
infila nel braccio che nel frattempo Eugenio ha diligentemente scoperto. Sta
guardando in faccia la morte, ma non è un teschio coperto di nero con una
roncola in mano. Ha la faccia pulita di una sconosciuta, il volto disteso dell’
amico. Vorrebbe dire una frase adatta all’occasione: si tratta pur sempre di un
congedo dal mondo!
Non
gli viene in mente nulla. Prima di chiudere gli occhi, guarda Maurizio: “Grazie
di tutto”.
E’
l’unica cosa che sa dire.
* Il
racconto è stato ispirato dalla volontaria scomparsa di Lucio Magri, mito della
mia gioventù, anche se i contenuti sono del tutto fantasiosi.
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