IL FALLIMENTO
SOCIALE DEL CAPITALISMO
di Fausto Rinaldi
La crisi del 2007
ha sancito – anche per i più disattenti - un clamoroso fallimento del mercato; meno
evidente, ma ugualmente bruciante (almeno per la pletora di economisti
neoliberisti “organici”, corifei del consolidato ordine borghese) quello della
proprietà e produzione privata.
Come ampiamente
dimostrato in occasione di passate crisi sistemiche, il capitale, fiero
osteggiatore dell’ intervento statale a tutela delle fasce più deboli della
popolazione, torna a concepire un intervento dello Stato per soccorrere il
sistema creditizio e industriale attraverso forme di finanziamento che possano
“aggiustare” i danni prodotti dagli eccessi degli “spiriti animali” incarnati
dagli imprenditori rampanti e, nel caso in questione, finiti con le chiappe a
bagno. Quindi, ecco che si invocano interventi per ripianare i buchi di
bilancio dell’ allegro sistema bancario, lanciatosi a capofitto nel vortice
della finanza strutturata e riempitosi di titoli del tutto inesigibili; oppure,
richiedere provvedimenti legislativi a sostegno della produzione, incentivi,
sgravi, etc..: il più classico degli esempi di privatizzazione dei profitti e
socializzazione delle perdite.
In ogni Paese
capitalista, la funzione subordinata dello Stato nei confronti degli interessi
del capitale è sistematicamente sottintesa; anche laddove l’ aiuto statale
preveda l’ acquisizione di quote di maggioranza di una banca o di una società,
la prassi è quella di un non coinvolgimento nella loro diretta gestione.
E’ evidente che,
fino a quando non si porrà termine a questi squilibri, la speranza che la
collettività possa prendere possesso delle sorti macro economiche dei Paesi
resterà confinata nell’ ordine di una mera, improbabile possibilità.
Il tentativo di
risolvere la crisi attraverso aiuti agli imprenditori privati (pronti, al
momento opportuno, ad aumentare il metraggio degli scafi dei propri yacht con i
denari pubblici) o dilapidando fortune di soldi pubblici nel pozzo senza fondo
della smisurata insolvenza delle banche - che, comunque, continuano a
tesaurizzare questi fondi senza immetterli nel circuito del credito – non può
che condurre ad un ulteriore peggioramento dei conti statali, sulla base dei
quali l’occhiuta UE determina politiche di sanguinolento rigore a carico delle
popolazioni.
E’ di assoluta
priorità la creazione di un sistema pubblico che sia in grado di competere
convenientemente con quello privato, soprattutto nelle produzioni di merci e
servizi di primaria importanza per il benessere della collettività (sistema
bancario, sanità, energia, infrastrutture, servizi di pubblica utilità, etc.);
sarà decisivo slegare il management dal controllo partitico – sistema ad alta
corruzione aggiunta che ha caratterizzato il malaffare e la commistione con gli
“interessi di corridoio” delle grandi imprese private - creando un’ etica che
abbia come base fondativa quella del perseguimento, bilanci alla mano, degli
interessi della popolazione; in funzione, cioè, di tutti quei principi
dimenticati nella deificazione anarchica della ricerca del profitto ad ogni
costo, come, ad esempio, la salvaguardia dell’ ambiente e della salute morale,
psicologica e fisica delle comunità; inoltre, curando che le meccaniche di
funzionamento del sistema siano scandite da rigorosi principi di rotazione da
parte dei vertici aziendali, allo scopo di evitare quei fenomeni di sclerotizzazione
partitica, di stampo para feudale, che hanno condotto a contaminare la gestione
politica dell’ esistenza dei cittadini.
Inoltre, va
affrontato con decisione il problema dello sviluppo delle forze produttive e i
rapporti di produzione: infatti, le scoperte tecnologiche degli ultimi anni
hanno dischiuso enormi possibilità di liberare tempo vitale per gli individui,
anziché declinarne gli effetti verso la creazione di drammi sociali, attraverso
l’ esclusione dal mondo del lavoro e la crescita di una disoccupazione buona
solo a ridurre il costo del lavoro, ad uso e consumo del capitale.
Laddove, quindi,
non si vorranno cedere tutti i vantaggi ad esclusivo appannaggio all’ interesse
privato, sarà possibile ridurre considerevolmente l’ orario di lavoro, per includere
nei processi produttivi anche quella fascia di persone che ne sono escluse,
ampliando, nel contempo, le possibilità esistenziali di lavoratori che potranno
così usufruire di più tempo libero che, sgravato da obblighi forzosi, potrà
permettere di ricreare un modello esistenziale più soddisfacente ed
equilibrato, liberato dalle eterne catene della produzione coatta di
plusvalore.
Esistono enormi
possibilità di creazione di benessere pubblico; se solo fossimo capaci di
liberarci delle gabbie ideologiche innalzate dal sistema di potere
capitalistico e dai suoi prezzolati corifei, appartenenti all’ intellighenzia
borghese, al mondo accademico e scientifico, al giornalismo di regime.
Si tratta, una
volta per tutte, di strappare tutte le ricchezze prodotte dalla società dalle
rapaci mani dell’interesse privato, rovesciato nell’ estorsione da quelle
istituzioni che dovrebbero limitarne la vocazione predatoria.
In una parola,
vanno scardinati quei principi di stampo neoliberista attraverso i quali le
popolazioni sono state inchiodate al complesso di colpa originario del “debito
pubblico”, e alle quali è stata avvelenata l’ esistenza perché inesorabilmente
sottoposte alle perverse logiche vomitate dall’imperio capitalistico.
La via verso un
socialismo non produttivista e solidale è, più che mai, reale.
Solo attraverso la
capacità di prospettare un modello sociale ed economico diverso e innovativo si
potrà dare una risposta alla crisi culturale e civile, prima ancora che
economica, che attanaglia le società occidentali a capitalismo avanzato.
Si sarà capito,
leggendo fin qui: aveva ragione Marx quando osservava che la borghesia tutto
traduce in termini economici; che, nella modernità borghese, il denaro è,
finalmente e in senso assoluto, la misura di ogni valore; che, nel mondo
borghese, i rapporti sociali non sono altro che l’organica e coerente
manifestazione del processo di accumulazione del capitale.
E aveva ragione
GuyDebord quando descriveva la società contemporanea a capitalismo maturo come
“teatro della merce”, dove lo spirito del valore monetario domina, ridefinendo
tutti i valori a partire da sé.
Nella mente
borghese alberga solamente la logica dell’utile, del conveniente, del
profittevole; il mondo borghese è il mondo dei calcoli economici e del mercato;
la borghesia esiste, pensa, lavora, si ingegna per l’ unico estremo fine
dell’accrescimento del capitale, stella polare di una vita degna e operosa.
E’ in questo buio
antro di prospettive esistenziali recise che l’uomo moderno deve riprodurre la
propria vita, con le devastanti conseguenze di fronte ai nostri occhi.
I valori borghesi
hanno invaso e pervaso la coscienza collettiva, asservendo alle proprie logiche
le vittime stesse della società capitalistica. Attraverso la sublimazione dei
consumi a scopo ultimo dell’esistenza, si sono corrotte menti e distrutte
esistenze.
Viviamo nell’ era
del “capitalismo molecolare”, ovverossia in quella forma di evoluzione
capitalistica che ha dato luogo ad un sistema di organizzazione sociale ,
economica e culturale che ha sviluppato una sorta di scientifica capacità di
penetrare ogni ganglio della vita sociale,
impossessandosi di tutte le possibili risorse dalle quali possa essere
prevedibile trarre un profitto.
Difficile
salvarsi: ogni parte dell’ esistenza dell’ individuo viene sacrificata alla
celebrazione dell’ aurea volontà di profitto degli “spiriti animali”, dei
“capitani coraggiosi”, vessilliferi dei valori di accumulazione di capitale e
ricchezza, conculcati nella cultura degli individui dalla bieca ideologia
borghese dell’ appropriazione materiale.
Non resta che
qualche amara ma salvifica conclusione da trarre: il sistema capitalistico non
ha mai superato il modello democratico perché, semplicemente, non lo ha mai
raggiunto.
Di fatto, la
democrazia è un ideale politico piuttosto che una reale forma di governo.
Sarebbe più
ragionevole definire le sedicenti democrazie occidentali come “Stati
capitalistici”. Punto.
Ove un'economia
sia strutturata secondo i principi capitalistici, non è mai sorta un'organizzazione
sociale e politica che possa, a buona ragione, essere detta democratica.
L'ovvia
distinzione tra democrazia «formale» (quella che viene raccontata nei dettami
costituzionali e rappresentata nello spirito delle leggi o propagata dalla retorica
del potere attraverso i media) e democrazia «sostanziale» (quella che
materializza ogni giorno nella vita sociale e politica di un Paese), trova,
nella giustapposizione dei due concetti, la stridente inconsistenza di ogni
possibile assimilazione.
Anche laddove si
ritenga la democrazia «formale» come una condizione preliminare - necessaria ma
non sufficiente - per il raggiungimento di una solida democrazia «sostanziale»,
il conclamarsi di squilibri economici e di profonde diseguaglianze giuridiche,
all'interno di una società rigidamente suddivisa in classi «censuarie» -
proprie di qualsiasi sistema capitalistico - , finirebbero per negare sostanza
democratica ed egualitaria alla società.
Quindi, il
capitalismo si può servire - in qualche sua deriva tattica - di una qualsiasi
concezione formale di democrazia, ma entra gravemente in contrasto con le
configurazioni democratiche declinate nella loro forma sostanziale, cioè di
forme democratiche effettivamente applicate «sul campo».
Inevitabilmente,
le “democrazie rappresentative” prevedono che la loro intima natura debba
contemplare e, conseguentemente, favorire un certo grado di “apatia delle
masse”.
Quanto di questa
strumentale apatia, di questo disinteresse rispetto al funzionamento dei
meccanismi democratici, viene conculcato da un sistema sociale che propone e
propugna, attraverso lo spiegamento della formidabile potenza dei “media”, un
“corpus” valoriale fondato inesorabilmente su un consumismo selvaggio, e che
predispone all’acritica appropriazione materiale, a uno svuotamento della
sostanza sulla quale dovrebbe fondarsi una società sana, cioè, la
collaborazione, la partecipazione, la cooperazione tra uguali?
Il sistematico
sovvertimento degli equilibri tra bisogni primari e voluttuari; la
trasvalutazione dei consumi vistosi e competitivi; l’assoggettamento coatto a
logiche volte a incrementare un consumismo distratto; la perenne costruzione di
bisogni indotti e relati alle necessità dell’infinito consumo, richiesto da un
sistema economico che poggia le proprie fondamenta su un produttivismo
illimitato ed esiziale.
Scrive l’attivista
americano David Bollier:
“Potrà una società
che si è così gettata su una eccessiva commercializzazione funzionare ancora
come una democrazia deliberativa? Potrà il pubblico ancora trovare e sviluppare
la sua voce sovrana? O, viceversa, il suo carattere è stato così profondamente
trasformato dai media commerciali da stroncarne per sempre l’abilità di
partecipare alla vita pubblica?”
La partecipazione,
per così dire, “attiva” deve essere circoscritta entro l’espletamento della
funzione del voto: il giorno in cui sia stato determinato il “ricorso alle
urne” - per naturali scadenze o per l’insorgere di crisi inter-partitiche o di
coalizione - il bravo cittadino votante dovrà recarsi ad apporre una salvifica
crocetta sul simbolo del partito sancito dal nostro come preferenziale.
Evidentemente,
individui che non siano dotati di conoscenze sufficientemente solide e
articolate, e di convinzioni culturalmente fondate, saranno più agevolmente
manipolabili dal potere politico; saranno semplificate le procedure che
potranno spingerlo ad acquisire tutti quei convincimenti necessari (e
sufficienti) a fargli assumere certezze che - meglio - riterrà di aver maturato
attraverso un qualche vaglio critico.
La “democrazia
rappresentativa” può avere successo nella misura in cui sia in grado di
assimilare la più grande porzione possibile di popolazione ai valori della
“classe media”, i bassi “valori borghesi”. La capacità di far confluire
desideri, atteggiamenti e modelli di consumo nell’unica figura del “cittadino
democratico”, sancisce di per sé la vittoria di una vuota retorica nei
confronti dell’essenza dei valori di convivenza civile, negati dalla
declinazione consumistica e superficiale dell’esistenza.
Quindi,
l’imperativo è allontanare con tutti i mezzi le masse dalla loro percezione di
sé - rendendole incapaci di maturare una qualsiasi coscienza di classe - e
spingerle lontano dal concetto di “democrazia partecipativa”, contaminando
inesorabilmente la definizione concettuale di “socialità”, “ad usum Delphini”
delle élites dominanti.
A questo scopo, il
ruolo svolto da un sistema mediatico sfruttato professionalmente, permette di
creare una “rappresentazione” della democrazia che si manifesta e si sostanzia
attraverso la proclamazione di riti e celebrazioni volti a conferire una certa
solidità a un impianto istituzionale svuotato, negli anni, di ogni
attendibilità.
Dio, Patria,
Nazione, Costituzione sono gli individuanti, i simboli, deputati a identificare
una costruzione meramente teorica, un vuoto modello di democrazia, la cui
inconsistenza non tarderebbe a manifestarsi, a fronte di un’indagine
minimamente accurata.
Inesorabilmente,
la retorica del potere - sottilmente affilata - mette in atto tutte le risorse
che possono derivare dall’uso sapiente del potere ideologico, lasciando poco
scampo alle vittime individuate nel collimatore.
Alla costruzione
di una coscienza collettiva mediocre contribuiscono, in varia forma e misura,
gli organi di informazione (tv e stampa, mondo internet); l’intellighenzia (élite
intellettuale integrata e asservita alle logiche e agli interessi del potere);
la classe tecnocratica (professionisti depositari del sapere scientificamente
riconosciuto, cioè dotato di una qualche legittimazione accademica); i
rappresentanti del potere economico (industriali, Money manager, AD di grido,
etc. ); mondo ecclesiastico (CEI, Papa, gerarchie vaticane, etc.); mondo
politico (eletti ed eleggibili, principalmente dediti a comparsate radiotelevisive:
infatti, attualmente, la conformità rispetto alla carriera politica viene
stabilita dalla capacità del soggetto di interagire e sfruttare il mezzo
televisivo); il cosiddetto “mondo dello spettacolo”, costituito da attori,
sportivi d’élite, personaggi televisivi e figure varie, incaricate
dell’intrattenimento di masse bovine, assise davanti a un televisore.
In questo magma
denso e maleodorante, si consumano gli ultimi afflati di coscienza collettiva e
di rispetto del giudizio individuale di ognuno; un mirabolante florilegio di
suoni, luci, colori, pianti, urla, tesi bizzarre e falsificazioni informative;
un profluvio inarrestabile di stimoli sensoriali, capace di provocare
assuefazione e desensibilizzazione e, peggio, sopore della coscienza.
Certo, le
difficoltà del cittadino non si fermano al problematico rapporto con l’autorità
delle forze di potere che lo sovrastano: altre e più forti entità hanno
cominciato a gravare sull’ormai residua resistenza dell’individuo .
A oggi, sono
evidenti i danni prodotti dal “fondamentalismo di mercato”, insufflato nelle
nostre vite dalla monocultura neoliberista.
Le formule di
“risanamento” delle economie europee, partorite dall’UE di concerto con la BCE
– e su indicazione “filosofica” del FMI – , stanno gettando l’Europa in una
tragica recessione. L’assurdità di una terapia che pratichi salassi a un
anemico è sotto gli occhi di tutti; la deriva iatrogena originata dalle
politiche di austerità promosse dai vertici dell’ Unione Europea è ormai
qualcosa di più di un pericolo latente.
L'attuale
situazione dei Paesi a capitalismo avanzato vede gli Stati nazionali - e,
conseguentemente, le classi lavoratrici, che ne sono il cuore - sottoposti alle
volontà di un' articolata catena di comando che, di fatto, trasforma nazioni sovrane
in sorte di protettorati.
Il primo livello è
rappresentato da quella specie di «Cupola» costituita dalla finanza
internazionale che, muovendo a proprio agio quantità inestimabili di denaro,
dispone di un consistente potere di pressione; il secondo livello è composto
dai rappresentanti dell'oligarchia economica europea (BCE, Commissione Europea,
UE, etc.) fortemente sensibile agli orientamenti imposti dalla Bundesbank; al
terzo, e ultimo, livello troviamo i governi nazionali i quali, pesantemente influenzati
nella loro composizione dalle spinte tecnocratico-bancarie di stampo “neoliberista-eurocratico”
(quando non direttamente cooptati da veri e propri «putsch» istituzionali, come
in Italia e Grecia), sono composti da accordi tra forze politiche ormai assolutamente
slegate dal loro ruolo di rappresentanti della volontà della società reale.
Se a ciò sommiamo
la presenza di mezzi d'informazione oramai fortemente ideologizzati - ed
incapaci di assicurare un sufficiente circolazione di tesi competitive nei confronti
del pensiero unico neoliberista - e di una categoria di intellettuali umanisti
e di tecnici desolatamente asservita alle munifiche lusinghe del potere
economico, ci potremo rendere conto con insolita sveltezza della gravità della
situazione raggiunta dalle società capitalistiche.
Il tessuto sociale
delle popolazioni sottoposte all'imperio dell'ultima mutazione del capitalismo
moderno - il neoliberismo - viene sistematicamente eroso da misure economiche volte
a preservare interessi di élites dominanti.
La società civile
viene espropriata di risorse materiali e di garanzie sociali; ad essa vengono
addebitati tutti i costi sociali ed ambientali che le misure regressive
applicate dalla monocultura neoliberista provocano. I profitti vengono
intascati dagli «spiriti animali» dei capitani coraggiosi dell'economia;
debiti, inquinamento e distruzione di risorse naturali sulle spalle della
collettività, con lo Stato borghese a stendere il tappeto rosso agli interessi
del capitale.
Storicamente, le
crisi strutturali delle società sono coincise con la fine di sistemi politici e
sociali ormai anacronistici, ponendo le basi per fenomeni rivoluzionari.
L’attuale, gravissima crisi che si sta vivendo, soprattutto a livello europeo,
sembra incontrare un mancanza di reattività delle popolazioni, che assistono
passivamente alla dissoluzione del proprio modello di vita.
Questa passività è
da mettersi in relazione alla falsa cognizione che, dei meccanismi e delle
origini di questa crisi, è stata diffusa. Anche in questo caso, la massiccia
applicazione dei principi cardine delle metodiche di condizionamento ideologico
delle masse ha prodotto consistenti risultati, funzionali alla propagazione di
false interpretazioni da parte dell’opinione pubblica. Questo immobilismo sociale
è la conseguenza perversa dell’ “individualismo metodologico” con il quale sono
state foraggiate le masse, chiuse in un ambito dove è stata profondamente
modificata l’antropologia sociale dei popoli occidentali, anche per mezzo della
modificazione della “Gestalt” individuale. Il sistema economico si spinge a
servirsi delle individualità per giungere a un divenire autopietico in grado di
garantirne la perpetuazione: perché ciò possa essere fatto con la massima
efficacia è necessario poter disporre di individui indifferenziati, fungibili,
appunto “immobili”, onde poterli plasmare e integrare convenientemente nel
ciclo produttivo e di consumo della società prona alle istanze del mercato
globale.
A forza di brodini
“riformisti”, la classe lavoratrice sta morendo affogata. Il problema di fondo
è se esista ancora una “classe lavoratrice” o, meglio, una classe
“rivoluzionaria”, capace, cioè, di produrre un pensiero realmente antagonista e
non un sottoprodotto socio-culturale buono solo a generare “passeggiate” di
protesta ed happening danzanti, suggeriti dai partiti o sindacati (ormai
perfettamente inglobati nelle logiche della “governamentalità” borghese e,
pertanto, parte integrante del sistema di potere), e prive di qualsiasi forma
di salvifico spontaneismo, utili solamente a rimarcare la subordinazione
politica delle masse.
L’individualismo
proprietario viene fatto assurgere a fondamento della natura umana; attraverso
l’individualismo si vuole pervenire a precludere il raggiungimento della
coesione e della solidarietà sociale, motori di quei fenomeni in grado di
creare un’opposizione forte e organizzata ai poteri presenti, contro la
disgregazione sociale. L’essere sociale dell’ uomo viene connotato
negativamente, lo sradicamento rispetto alle proprie naturali inclinazioni
portato alle estreme conseguenze. L’individualismo viene posto alla base della
sfrenata competizione liberista e della spietata selezione social-darwiniana a
cui sono sottoposti i soggetti, costretti a una perenne competizione per non
scivolare in posizioni sfavorevoli in quella che, oramai, è diventata una lotta
per la sopravvivenza. Consumo, mantenimento e incremento del proprio “status”
sociale, propulsione delle proprie ambizioni personali, perseguimento di
obiettivi carrieristici, sostanziale banalizzazione dei valori sociali : questi
i caposaldi “etici” esibiti dall’ individuo nella giungla sociale in cui
consuma la propria esistenza. La drammaticità della condizione umana,
sottoposta all’ imperio economico e sociale della predazione capitalistica,
risulta in tutta evidenza in quegli ambiti in cui si manifesta quel profondo
disagio esistenziale denunciato dall’ ossessiva partecipazione a riti o
attività patologiche proprie della società moderna (il gioco del calcio con le
sue mitologie identitarie; le file notturne in attesa del nuovo prodotto
tecnologico; la creazione di “eroi” sportivi, televisivi o cinematografici; la
squallida proliferazione del “gossip”, in cui le persone abdicano alla propria
esistenza per frugare in quella altrui; etc.).
Dunque, una
società immobile e disintegrata per mancanza di prospettive e per il
progressivo depauperamento del patrimonio umano dell’individuo, scaraventato a
viva forza entro i meccanismi schiaccianti di una società interamente votata
alle logiche della produzione materiale.
Ecco, in tutto ciò
prolifera il germe della decadenza europea (la cui dipendenza culturale,
sociale ed economica dagli Stati Uniti d’America si conclama, vieppiù, con la
propagazione della crisi provocata da “sortilegi” d’ oltreoceano) in cui, la
generazione dei nostri padri, è stata forse l’ ultima in grado di testimoniare
di una società con valori, concezioni e stili di vita estranei alle logiche
della società di mercato.
Quello che bisogna
assolutamente evitare è qualsiasi forma di condivisione valoriale con questo
tipo di società, fondata su ipocrisia e diffusione a scopo retorico di un
insieme di valori per la grande maggioranza doppi e falsi, e che affondano le
loro radici in una sorta di appiccicoso perbenismo gregario in cui i rapporti
di forza vengono sanciti e conclamati, negando ogni possibile forma di riscatto
sociale alle classi subordinate.
E’ la decadenza
che conduce alla rassegnazione, alla chiusura nella solitudine egoista, alla
rincorsa di un individualismo antropologico in cui l’uomo, divenuto referente
di sé stesso, limita le proprie prospettive esistenziali ad un rassegnato
solipsismo valoriale. Decadenza significa rinuncia a dare un senso alla propria
vita, significa estraniazione da sé stessi, significa sopore della coscienza:
la decadenza dell’ Occidente si sostanzia nell’arretramento delle conquiste del
mondo del lavoro e nella caduta della consistenza dei valori fondativi di una
civiltà; nello sfruttamento sistematico degli individui da parte di altri
individui, determinati a servirsi di loro per raggiungere più agevolmente i
propri obiettivi; nella rarefazione della solidarietà umana e nella
sostituzione di questa con volontà di appropriazione e di dominio.
Affascinati dalle
oscene lusinghe del capitalismo, proni ai suoi dettami di consumo illimitato
abbiamo sacrificato risorse naturali, materiali e morali ormai non più
riproducibili e, quindi, inevitabilmente perdute.
Nella vittoriosa
lotta di classe sostenuta dalle classi egemoni nei confronti di gruppi sociali
subalterni – e che ha visto una riconquista completa delle posizioni perdute
durante il periodo di concertazione fordista - si inscrivono le certificazioni
di rapporti di forza che vedono i vincitori imporre i loro valori, la loro
interpretazione della storia e della realtà, il loro potere dominante.
Solamente la ricostituzione
individuale di valori esistenziali solidi e lontani dalla vocazione
materialistica della “ratio” capitalistica, potrà ricongiungerci con equilibri
vitali più vicini alla nostra “naturalità”, al nostro essere parte di un mondo
che non può essere ridotto a mera brama di impossessamento materiale.
I valori celebrati
e propugnati da una società cristallizzata sulla gestione della miriade dei
rapporti di potere che le sciagurate logiche produttivistiche portano con sé, trasformano l’ individuo in una entità
pericolosamente chiusa, competitiva e tendente all’ esclusione, al
disconoscimento dei diritti altrui.
Si tratterebbe di
spingere solo un po’ più in là i limiti della nostra immaginazione
In ultimo, un
pensiero a tutti gli algidi cantori delle democrazie occidentali, probabilmente
facenti parte di un disegno o, peggio, complici della sistematica negazione di
una reale concezione collettiva e fondata su “beni comuni” dell'organizzazione
sociale . Asserviti o prezzolati, comunque, parte di una strategia di mistificazione
dalla verità proiettata su una opinione pubblica permeabile (peraltro colpevole
di non aver acquisito una preparazione sufficiente a sviluppare quegli
«anticorpi» che si producono dall'assunzione di informazioni solide e slegate
da fonti provenienti da chi abbia interessi specifici di potere).
Se è vero che
l’esistenza ha bisogno di una realtà stabile e dotata di senso - e se è vero
che la nostra dignità personale deve rifiutare che questa realtà e questo senso
possano essere disposti a formare un «simulacro» in cui la verità si fonde con
la propria defezione - , è anche vero che la costruzione dell'ordito a sostegno
della struttura del reale non può essere passivamente consegnata nelle mani dei
nostri carcerieri, di coloro i quali - in virtù di un potere esasperato fino a
diventare «biologico» - si sono impossessati delle nostre vite.
Se non saremo in
grado di riappropriarci della nostra dignità e autonomia di persone, la
stabilità e significatività non saranno che illusioni prodotte dalla volontà di
qualcun altro, determinato a usare le nostre esistenze per raggiungere
efficacemente la soddisfazione delle proprie brame.
Sfuggire alla
domesticazione sociale e battersi per raggiungere livelli di consapevolezza
capaci di condurci all' autodeterminazione - nei confronti dei quali non sia
più possibile esercitare pressioni ideologiche in grado di condizionare il
pensiero individuale - diventano necessità fondamentali per mantenere, almeno,
intatta la propria dignità di “uomini”.
Determinato e
accettato tutto questo, non si può far altro che convenire che non esistano
alternative: il superamento del sistema capitalistico, e la costruzione di una
società più giusta e solidale, sono obiettivi che non possono mancare nel
bagaglio morale e culturale di un uomo che voglia dirsi migliore, di un uomo
che sia in grado di consegnare ai propri figli un mondo finalmente ricostruito
su basi morali ed etiche completamente affrancate dall'avidità, dall'egoismo e
dalla volontà di appropriazione.
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