IL DANNO TANATO(IL)LOGICO: QUANTO COSTA UNA VITA?
di
Norberto Fragiacomo
Oggi parliamo di diritto, cioè di sovrastruttura, e nello specifico di responsabilità extracontrattuale.
Anticipo la duplice obiezione: perché mai questa scelta? Non è un tema da Bandiera Rossa e, anche ammettendo che lo sia, non è di stretta attualità! Mi permetto di dissentire: la querelle sul c.d. “danno tanatologico”, cui dedicherò queste righe, è non meno attuale della brutale privatizzazione della sanità nascosta dietro le sanzioni ai medici “compiacenti”, e lo è assai di più delle patetiche pantomime sul Senato elettivo, utili solo a certificare il gretto opportunismo dei mestieranti che i media si ostinano, sfidando il ridicolo, a definire “Sinistra Dem”.
Il danno tanatologico, infatti, è un’istantanea dell’Italia nell’età del Capitalismo putrescente.
Andiamo per gradi. Il codice civile, approvato al tramonto del fascismo, contiene una norma di capitale importanza: l’articolo 2043 obbliga chi abbia colpevolmente causato un danno ad altri a risarcire il medesimo. In concreto: se con l’auto investo un passante ignaro – ad esempio - risponderò col mio patrimonio delle conseguenze dell’evento.
L’articolo 2043 è norma primaria, nel senso che fonda direttamente la responsabilità del danneggiante. Il problema è che la disposizione sembra riferirsi al solo danno arrecato al patrimonio e alle capacità di guadagno dell’individuo: pertanto se ad essere travolto è un riccone l’investitore ci rimetterà la camicia, se un poveretto pagherà pochi spiccioli.
La giurisprudenza più attenta (ed umana) si rese subito conto che la previsione urtava con i principi costituzionali, e più precisamente con quello di uguaglianza fra gli uomini: una persona è qualcosa di più che un percettore di reddito. La perdita della salute, si teorizzò, va risarcita indipendentemente dalla condizione socio-economica, ma non risultò facile aggirare l’ostacolo rappresentato dall’articolo 2059 c.c., che testualmente stabiliva che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. E che diceva la legge? Poco, davvero poco: l’articolo 185 del codice penale sanciva (e tuttora sancisce) che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento. Il danno non patrimoniale veniva identificato con la sofferenza morale patita dalla vittima del crimine.
I giudici si scervellarono, e un bel giorno (correva l’anno 1986) la Corte Costituzionale trovò una soluzione: la lesione alla salute non incontra il limite di cui all’articolo 2059, va risarcita a mente del principio guida contenuto nell’articolo 2043. Si coniò la distinzione tra “danno conseguenza”, cui fa riferimento la prima norma, e “danno evento”, sufficiente – in caso di pregiudizio biologico – a fondare giuridicamente la pretesa del danneggiato. Sembra un bisticcio linguistico, ma la distinzione è abbastanza agevole: per la dottrina penalistica, l’elemento oggettivo del reato consta di tre componenti – la condotta, il nesso causale e l’evento. Nel caso dell’investimento stradale la condotta è rappresentata dalla guida spericolata o disattenta, l’evento dall’investimento stesso, il nesso di causalità dal fatto che l’incidente sia, in concreto, riconducibile al comportamento dell’autista e non a fatti eccezionali (come, ad esempio, un imprevedibile colpo di sonno).
L’evento, però, non coincide col danno, che potrebbe non sussistere: pensiamo all’ipotesi in cui, per un colpo di fortuna, il pedone rimanga illeso (perché l’auto andava piano, perché la reazione è stata istantanea ecc.).
Qual è la debolezza di questa ricostruzione? Che si tratta di una fictio: il danno è una perdita, e se questa manca non v’è nulla da ristorare, malgrado l’urto sia avvenuto.
La Consulta si avvide della difficoltà logica e, a dieci anni di distanza (con sent. 372/1994), rettificò il tiro: veniva confermato il richiamo all’articolo 2043, unica norma disponibile, ma il danno evento finiva in soffitta, lasciando campo libero al danno propriamente detto, inteso come conseguenze dannose. In quell’occasione la Corte si misurò con quello che sarebbe stato in seguito denominato “danno tanatologico”, negandone la risarcibilità: chi perisce cessa di essere soggetto di diritto, e per l’effetto non può avanzare pretese di nessun tipo. Ragionamento ineccepibile, condito dalla considerazione che – nel nostro ordinamento – il meccanismo risarcitorio presenta un carattere compensativo anziché punitivo: questa finalità è demandata alla norma penale.
Dal punto di vista logico-giuridico una soluzione più convincente alla problematica del danno alla salute sarebbe stata offerta, nel 2008, dalle Sezioni Unite della Cassazione, che “costituzionalizzando” l’articolo 2059 ne avrebbero finalmente esteso l’applicabilità (con conseguente “rilascio” del 2043, meritoriamente ma impropriamente utilizzato); come in un racconto nero di Buzzati, tuttavia, la morte (altrui) ha continuato a bussare alle porte dei tribunali, ponendo domande difficili e insidiose.
La dottrina ha offerto argomenti ad avvocati non sempre disinteressati: com’è possibile che a chi sopravvive sia riconosciuta una compensazione in denaro e a chi soccombe no? Non è forse la morte la lesione massima alla salute? Arduo sottrarsi alla suggestione di una simile tesi – ma il diritto, si sa, ha i suoi totem (la capacità giuridica – nel caso di specie – che si acquista con la nascita e si perde all’atto della dipartita) – e allora toccò cimentarsi con soluzioni alternative, che personalmente giudico soddisfacenti, almeno in parte.
Si disse, a più riprese: se tra l’incidente e la morte trascorre un “considerevole lasso di tempo” (settimane, mesi, addirittura anni) si può configurare un danno temporaneo alla salute, che andrà risarcito in forma personalizzata, tenuto conto di tutte le circostanze del caso. Fin qui nulla di nuovo: già nel ’25 la Corte di legittimità aveva sostenuto qualcosa di simile. In seguito si fece un ulteriore passo: per fondare il diritto della vittima sarebbe sufficiente un lasso “apprezzabile” (giorni, al limite ore), accompagnato da lucidità e consapevolezza della fine imminente. Il danno, in questa seconda evenienza, andrebbe configurato come “morale” (o catastrofale), non potendosi parlare – in tempi così ristretti – di compromissione della salute. Necrofilia giuridica? Obbiettivamente sì, ma tocca apprezzare lo sforzo fatto dai giudici per ospitare, nella capanna del diritto positivo, questioni gigantesche, dense di implicazioni filosofiche.
Residuava il problema di “dare soddisfazione” a chi muoia sul colpo, o precipiti in un coma irreversibile. Che fare con lui? Da un punto di vista pratico, si noti, la questione è stata risolta da un pezzo: i familiari hanno diritto, infatti, al pieno risarcimento dei danni patrimoniali (se, poniamo, la vittima li manteneva o contribuiva finanziariamente al menage familiare) e non patrimoniali (afflizione, eventuali malattie, come una depressione “di rimbalzo” ecc.). Non bastava e non basta: occorre incasellare convenientemente ferita, malattia e morte, completare il puzzle che raffigura il reale.
Ecco allora la sentenza 1361 del 2014: la Suprema Corte, smentendo una giurisprudenza ventennale, ripesca la dicotomia danno evento-danno conseguenza e afferma la risarcibilità dell’evento morte indipendentemente dai presupposti della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo e dalla cosciente e lucida percezione della fine imminente, “giacché la perdita della vita, bene supremo dell’uomo e oggetto di tutela primaria da parte dell’ordinamento, non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico”.
E’ un’affermazione nobilissima che, calata nella realtà volgare, si traduce in più soldi per gli eredi.
Nei cieli dell’astrazione il danno tanatologico brilla per un istante di luce propria, poi scompare come una stella cadente: il 22 luglio scorso le Sezioni Unite (sent. 15350) hanno ribadito l’orientamento tradizionale, secondo cui “la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della collettività e ciò giustifica la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso. La perdita di essa vita, tuttavia, non consente il risarcimento del danno non patrimoniale in favore del suo titolare, per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio. Il danno tanatologico non è risarcibile.”
Amen. Giuridicamente la soluzione è inattaccabile, ma resta un dubbio: che nel caso del danno tanatologico i giudici – non tutti, ma molti – abbiano provato a vuotare il mare con un secchiello. Con un secchiello, perché le categorie giuridiche sono troppo anguste per comprendere i grandi temi dell’esistenza: sono talmente inadeguate che, dopo essersi riproposte di numerare le stelle, finiscono per contare quattro soldi.
In fondo, quella sul danno tanato(il)logico è solo una questione mal posta: non si tratta qui di stilare una classifica tra beni giuridici di rilievo costituzionale, ma solamente di stabilire quale sia la funzione del risarcimento, che può essere in forma specifica (art. 2058) o per equivalente (in denaro). Quand’è che un pregiudizio è risarcibile? Quando da una misura prevista dall’ordinamento la vittima possa trarre un qualche beneficio: il derubato sarà pago di riavere i suoi soldi, chi ha perso la casa avrà interesse a riceverne un’altra, colui che ha subito una lesione fisica a potersi curare. Se Tizio, travolto da Caio, ha perduto la capacità di deambulare, l’unica compensazione reale sarebbe quella di poter camminare di nuovo – ove questo non sia possibile, menomazione e sofferenza andranno lenite con una somma di denaro, rimedio comunque inadeguato indipendentemente dal suo ammontare. Per chi muore, tuttavia, non v’è risarcimento possibile: perdendo la vita, perde tutto, nulla potrà più recargli giovamento o sollievo. Parlare di compensazione è dunque assurdo.
E’ un’ovvietà, ma la Corte – rincorrendo i suoi fantasmi – non se ne avvede, né si avvede che, con i suoi sinceri sforzi di tutelare il defunto, in verità lo svilisce, riducendolo a “cosa” con tanto di prezzo, riassumendo la sua esistenza e la sua umanità in un assegno non trasferibile.
La colonizzazione capitalistica delle menti e delle società è giunta a tal punto che neppure dopo la morte l’uomo smette di essere risorsa umana, pesata ed etichettata.
E il diritto? Resta ciò che è sempre stato: sovrastruttura, appunto.
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