La
mesta odissea dei profughi siriani, trasformata in evento mediatico
“live”, è solo un assaggio di future migrazioni di massa che,
come nel IV° secolo d.C., potrebbero cambiare la Storia del
continente
di
Norberto
Fragiacomo
Appena
riemerso da una piccola, ma cocente, Teutoburgo personale, mi trovo
ributtato nel caos di una cronaca che potrebbe sinistramente
preludere ad un’epocale svolta storica.
Ributtato:
participio poco elegante e, forse, linguisticamente sbagliato, ma
assai in tono con una situazione e una propaganda che giudico
ributtanti. Non parlo ovviamente dei profughi siriani, cui vanno la
mia compassione e il mio rispetto, ma della carovana di falsità,
ipocrisie e disinformazione che accompagna – e quasi sempre precede
– la loro marcia affannata.
Gli
ungheresi non li vogliono (e li prendono a bastonate), la Merkel sì:
perciò Orban è un reazionario cattivo, i tedeschi, invece, un
popolo redento. Questo ci raccontano i media e la stampa, Repubblica
in particolare: Andrea Tarquini, che ha guizzi da romanziere, produce
a spron battuto pezzi di colore sgargiante, in cui dà voce a
personaggi meritevoli di simpatia, con i quali è possibile – anzi,
doveroso - identificarsi. E’ però fiction,
non il giornalismo delle 5 W (sarà mai esistito, quest’ultimo?).
D’improvviso
tutti i migranti sono diventati “profughi siriani”: la
descrizione dei fatti cede il passo alla sineddoche. Artifizio e
raggiro, svelatoci da certi riferimenti sottotraccia a decine, forse
centinaia di milioni di esseri umani in arrivo dall’Africa nei
prossimi anni. I siriani non provengono dal continente nero, sono in
cerca di salvezza anziché di fortuna, ma si prestano bene, per le
loro disgrazie, a “riassumere” un fenomeno che dovrebbe
inquietarci tutti, quale che sia la nostra fede politica. Qualcuno,
tra i tecnici, ha parlato di “invasione”, ma il termine è stato
convenientemente espunto dai dibattiti televisivi: ricorda troppo
certi eventi del IV-V° secolo d.C. che furono, anche in quel caso,
non assalti programmati, ma gigantesche migrazioni di popoli.
La Germania, dunque, è pronta all’accoglienza; nelle strade magiare i profughi in marcia (tutti siriani? chissà…) inneggiano alla cancelliera Merkel e sventolano bandiere tedesche. Tarquini ed altri come lui provano a convincerci che quella di Frau Angela è una scelta umanitaria, magari suggerita da giornali come la Bild che, ci viene assicurato, sanno interpretare la confusa volontà collettiva dell’ex Volk. Favole per bambini, baggianate: simili rigurgiti di umanitarismo mal si confanno a chi, fino a un mese fa, se ne strafregava della sorte dei boat people diretti (dall’Africa) in Italia e in Grecia, e per un lustro ha infierito con disumana durezza sul popolo ellenico, portandolo alla fame e alla disperazione e da ultimo, a inizio estate 2015, piegando con un diktat d’altri tempi l’inetto piacione Tsipras. In verità, l’interpretazione autentica della strombazzata generosità federale l’ha offerta la stessa Merkel, quando ha perentoriamente invitato i richiedenti asilo siriani a “imparare il tedesco e a trovarsi un lavoro”. Parole lette giorni fa, su un monitor di Stazione Termini: parole in fondo oneste, che fanno giustizia di tanta melassa giornalistica.
L’arcano
è facile da spiegare: la Germania e la sua industria han bisogno di
braccia; i siriani – provenienti da uno Stato laico culturalmente
progredito, e in gran parte laureati o diplomati – possono mettere
a disposizione anche la mente, ed essendo abituati a relative
ristrettezze si accontenteranno di condizioni di lavoro peggiori di
quelle pretese da molti tedeschi. Scegliersi sagacemente i migliori e
fare pure bella figura: non saranno fantasiosi i nostri vicini
d’oltralpe, ma le somme han quasi sempre saputo farle e – come
avrebbe cantato Dalla – non ragionano male.
Fin
qui la Merkel e i suoi consiglieri, che contano qualcosa. Più in
alto si covano maggiori, forse smisurate ambizioni: mutare
definitivamente il volto dell’Europa. Il fatto che l’abbia capito
pure Giordano, che di certo non è un marxista (si riveda la puntata
di iersera de La Gabbia), mostra che per scorgere le dinamiche reali
è sufficiente tenere gli occhi aperti: dall’approdo di massa
qualcuno, cioè l’elite economica transnazionale, si attende
compiaciuto il definitivo sfarinamento di ciò che resta
dell’identità europea, già indebolita da 30 anni di dittatura UE.
Questo qualcuno ha complici (involontari) anche a sinistra, fra i
cretinetti che esaltano l’inebriante bellezza del “meticciato”,
cioè del formarsi di una massa umana diluita, senza radici e senza
identità culturale, senza patria né punti di riferimento – una
massa umana amorfa, e perciò facilissima da soggiogare e da condurre
la pascolo dove il pastore (economico) desidera. Visto che la Natura
ha l’horror vacui, qualcosa dovrà riempire quei cuori e quelle
menti svuotate ad arte: una frenesia di consumi low
cost, cui dedicare il
poco tempo libero concesso da massacranti settimane di lavoro coatto
sotto l’occhio vigile delle telecamere datoriali. La Merkel infatti
ragiona bene, ma il Capitale anche meglio: individui creati con lo
stampino, abissalmente ignoranti e in perenne simbiosi con vacue
apparecchiature elettroniche sono spaesati e soli anche se ammassati
in greggi.
Si
materializzerà quest’incubo di un continente a metà fra
Bladerunner e McDonald’s? Possibile, ma non scontato: qui si tratta
di correnti migratorie forse inarrestabili, di milioni e milioni di
esseri umani, e il diavolo, si sa, non sempre riesce a coprire le sue
pentole.
Fine
del quarto secolo dopo Cristo: i Goti, popolazione di origine
scandinava stanziata nell’est dell’Europa, sono tormentati da
carestie e dalla paurosa minaccia degli Unni. Fame e guerra: vi
ricorda qualcosa? Ebbene, i loro capi si rivolgono all’autorità
romana, chiedono asilo per popolazioni allo stremo. A Costantinopoli
si fanno due calcoli: questi barbari sono gente laboriosa, frugale;
ottimi contadini, potrebbero venire adoperati, all’occorrenza, per
difendere il confine sul Danubio. Che entrino, ne abbiamo bisogno! I
fuggiaschi si stanziano sul territorio dacico, prosperano e fanno
figli – ma restano fedeli ai loro, di governanti. Tarda estate del
378: ad Adrianopoli (la turca Edirne) i goti, coscienti della propria
forza, scendono in campo contro l’esercito romano guidato
dall’imperatore Valente, lo stesso che li aveva accolti. L’epilogo
è drammaticamente narrato nelle sue Storie da Ammiano Marcellino,
ultimo grande storico della latinità: “La
notte, del tutto priva di chiarore lunare, interruppe queste non mai
risanabili distruzioni, che furono tanto gravi per lo stato romano.
Alla prima oscurità della sera, l’imperatore tra i semplici
soldati, come era dato supporre (nessuno infatti affermò di averlo
visto o di essere stato vicino a lui) cadde ferito gravemente da una
freccia e subito morì, né fu ritrovato poi in alcun luogo (Libro
XXXI 13,11-12)”.
Cosa
voglio intendere riportando un’antica citazione? Che non è per
niente improbabile che l’ingresso massiccio di nuove popolazioni in
uno stato, oggi come allora, di profondo turbamento
economico-valoriale generi attriti immediati e catastrofici, portando
l’intera società al collasso. Questo capitò all’ecumene romana,
questo potrebbe verificarsi anche oggidì, con effetti “tanto
gravi” a lunghissimo termine. Nella prima parte del suo best-seller
Sottomissione, stigmatizzato come anti-islamico da chi non sa
leggere, Houellebecq descrive le prime fasi di questa disintegrazione
sociale: attraversando una Francia muta e ferita, il protagonista
scorge i segni terribili del sanguinoso conflitto in corso fra bande
di salafiti e di nazionalisti cristiani, intente ad ammazzare civili
lontano dai riflettori. Il finale dei romanzo è, a ben vedere, quasi
ottimistico, ma il rischio di una prossima disgregazione è già
avvertibile, i sintomi ben visibili in alcune zone della Francia
meridionale, dove nativi e nordafricani si spartiscono città e
paesi, disdegnando contatti che non siano episodici (provate a
passeggiare per il centro dell’antica Tarascona: se incontrate un
francese doc, sarà senz’altro un turista). Qualche indizio non fa
una prova? D’accordo: guardiamo allora ad Irak e Siria che,
presentatici dalla stampa di regime come dittature, erano Paesi più
simili al nostro di quanto non siano mai state le retrive monarchie
del Golfo, e che in men che non si dica, con l’aiuto fattivo delle
potenze occidentali, sono precipitati nell’anarchia e nel caos.
Siamo
in bilico tra due destini entrambi apocalittici: da un lato la
prospettiva di uno sconcio amalgama al ribasso, con centinaia di
milioni di “epsilon” privi di autocoscienza e pilotati da
un’elite di tecnocrati; dall’altro una lotta senza quartiere tra
fanatismi, etnie e clan in un’Europa riconsegnata ai secoli bui. Si
dirà: è colpa nostra, siamo stati noi a schiavizzare l’Africa, ci
troviamo in debito (così Dario Fo). Vero, ma se il mea
culpa richiede la
rinuncia a filosofia, illuminismo (e marxismo!), tradizioni culturali
e artistiche… beh, permettetemi di concludere che reputo il conto
eccessivamente salato.
Come
operare dunque? Il cosiddetto Occidente, inteso come sistema
economico capitalista, è direttamente responsabile delle disgrazie
di siriani, libici, iracheni e africani – ma anche di quelle, meno
eclatanti, dei suoi cittadini-sudditi, il cui relativo benessere si
assottiglia ogni giorno che passa. Per gli ispiratori delle politiche
euro atlantiche gli Stati sono espressioni geografiche, i popoli
pedine sacrificabili, profitto e accumulazione gli unici scopi degni
di perseguimento: immaginare che essi possano cambiare rotta è
assurdo almeno quanto la pretesa, avanzata dalla rana di autore
ignoto, che lo scorpione disconosca la propria natura rinunciando a
pungerla (che poi nel rigagnolo muoia anche quest’ultimo non è
affatto decisivo ai nostri fini: il Capitale, come detto, potrebbe
essere vittima della sua stessa bulimica bramosia). L’unica
speranza è dunque un radicale sommovimento socio-culturale, che
parta dal vecchio continente e si irradi nel mondo, eliminando le
cause della guerra, dell’instabilità e della diseguaglianza. Più
che un “diritto”, in fondo, migrare è quasi sempre una dolorosa
necessità: l’uomo comune preferirebbe vivere a casa propria,
gustare il cibo cui è abituato, ascoltare le sue canzoni e le sue
storie.
Di
fatto, questa terza soluzione salvifica è, ad oggi, assai più
inverosimile di quelle tratteggiate in precedenza: qualsiasi
rivoluzione genuina è solo l’ultimo anello di una catena forgiata
con il lavoro, lo studio, la volontà, la fiducia e l’abnegazione.
In breve, per fare la rivoluzione non basta essere miseri o
arrabbiati: bisogna aver concepito o fatto propria un’idea di
futuro e ritenerla, sotto ogni aspetto, preferibile al presente.
Nell’odierna torre di babele si odono invece strepiti, anatemi,
grida di spavento e d’indignazione: concime per Leghe, o peggio
ancora.
Quando
milioni di uomini busseranno contemporaneamente alle nostre porte
vacilleranno fedi e ideologie, gli slogan guerreschi si ridurranno a
grotteschi squittii… toccherà forse ai nostri bisnipoti far
ripartire, in condizioni oggi imprevedibili, una Storia degna di
essere scritta.
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