di Antonio Moscato
Non vale la pena di partecipare alla discussione penosa sulle cifre. Lo sciopero è stato grande, non grandissimo. Non è il caso di abbellire le cifre reali, come a volte si fa: in un comunicato apparso sulla stampa locale marchigiana sono state fornite percentuali grottesche, che annunciavano una partecipazione al 99% in una fabbrichetta di… 24 persone. Sarebbe stato meglio discutere francamente le ragioni della scarsa partecipazione di certe piccole fabbriche, magari già massacrate, ma che più che allo sciopero generale credono a qualche intervento salvifico degli enti locali. D’altra parte lo sciopero era solo di protesta (non era poco, rispetto al passato) ma senza obiettivi per l’unificazione delle lotte.
Discuterne poteva fornire qualche buon argomento per rispondere a quei sindacalisti che difendono l’articolo 8 della manovra, o propongono sistematicamente la strategia delle lotte aziendali, in un momento in cui come più che mai servirebbe uno sciopero veramente generale combattivo, con cortei diretti a convincere le fabbriche che non partecipano.
Lo sciopero generale è riuscito, nonostante gli sforzi di tanti cialtroni, da mezzo PD a tutto il Terzo polo, per farlo fallire, o per rinviarlo a manovra approvata (con i nuovi licenziamenti facili già in atto...).
È riuscito nonostante le ambiguità di larghi settori dell’apparato della CGIL, compresa la minoranza della FIOM guidata dal cocco della Camusso, Fausto Durante, che puntano a ricostituire l’alleanza con CISL e UIL e a ritornare a un presunto “spirito originario” dell’accordo del 28 giugno.
Per andare avanti è necessario che la CGIL ritiri la firma da quell’accordo indecente, per passare a una forma “aggressiva” di lotta per l’unità della classe. Non può essere infatti con l’accettazione passiva delle condizioni dettate da burocrati staccati da sempre dalla classe operaia che si può ottenere quell’unità sindacale tanto desiderata dai lavoratori: è necessaria una tattica coraggiosa che passi anche attraverso rotture e iniziative autonome di lotta.
Loris Campetti sul “manifesto” del 7 settembre ha scritto che la CISL sarebbe “un’organizzazione che ha una storia nobile e un radicamento di massa”, anche se poi si domanda “se è ancora un sindacato”. Mi sembra un approccio reticente e sbagliato. La CISL non ha proprio una “storia nobile”, è nata grazie a una scissione organizzata e finanziata da sindacati USA non al di sopra di ogni sospetto, e ha incorporato fin dall’inizio settori apertamente filo padronali che poi, in una fase di riflusso, se ne sono staccati per assumere più esplicite caratteristiche “aziendali” (è la storia del SIDA poi FISMIC, alla FIAT). È stata poi scossa, soprattutto a livello metalmeccanico, dalla radicalizzazione cattolica che ha avuto una sua forte ripercussione nella classe operaia nel periodo che ha preceduto il 1968-1969, e ha facilitato la crescita dell’ondata operaia che ha scosso tutti gli equilibri politici e sociali in quegli anni. Lo stesso processo ha investito in quel periodo anche la UILM, che pure ancora nel 1962 era considerata non meno padronale del SIDA dagli operai torinesi, che ne assaltarono la sede a Piazza Statuto. La stessa CGIL non a caso nell’estate del 1969 fu costretta a cambiare linea e a lasciare briglia sciolta alla “sinistra sindacale” di Trentin, Garavini, Bertinotti (avevo ricostruito dettagliatamente questa vicenda nella seconda parte del mio saggio: La rinascita del sindacalismo nel secondo dopoguerra).
L’ondata di radicalizzazione iniziata nelle lotte aziendali del 1967 mutò per qualche tempo anche la CISL, dunque (d’altra parte aveva trasformato perfino gli scout cattolici, che in gran numero aderirono a Lotta Continua…), ma non la sua natura: vi fu poi una brusca frenata appena possibile, dopo i primi segnali di riflusso. Il dirigente della FIM milanese che aveva incarnato il rinnovamento, Piergiorgio Tiboni, fu prima osteggiato, poi espulso, e ancor prima era stato espulso (con tutto il gruppo dirigente centrale della UILM) anche Giorgio Benvenuto, a quell’epoca verbalmente barricadiero e attento a cooptare dirigenti di provenienza gruppettara (soprattutto maoisti del MLD della Statale). Sarebbe stato presto recuperato e promosso, anche grazie all’appoggio di Bettino Craxi, e sarebbe diventato docilissimo. Lo stesso avvenne a Pierre Carniti, anche lui ex sinistro e leader della FIM, che dal 1979 come segretario generale della CISL, ebbe un ruolo importante nel far passare l’accordo truffa dopo i 35 giorni della FIAT (dovette scappare inseguito dagli operai a ombrellate).
Ricordare questi casi serve a capire che anche sindacati pessimi possono essere coinvolti dalle lotte, purché queste non siano castrate in partenza dagli accordi di vertice. Il rinnovamento che per un certo tempo rese utilizzabile per la lotta di classe anche la CISL e la UIL era stato provocato dal movimento dei delegati di reparto, e dalla radicalità delle proposte che scaturivano dalle prime assemblee, non ancora possibili in fabbrica e non ancora riconosciute dai vertici sindacali, ma certo utili per capire gli umori della base. Come bisogna ricordare che in molti casi accordi di vertice discutibili furono fatti saltare dalle pressioni governative e padronali sui “loro” sindacati, costringendo però alla fine la CGIl a rompere le esitazioni e a rilanciare anche da sola la lotta (ad esempio sulle pensioni, che non a caso divennero per un certo periodo le migliori d’Europa).
Per ora nella maggioranza della CGIL non si vede la volontà di imboccare questa strada. E neppure quella di passare dalla denuncia della farsa della manovra a una proposta alternativa, per esempio per la caccia agli evasori basata su una mobilitazione dal basso di lavoratori e utenti, anziché attendere che provveda l’inefficiente o corrotto apparato statale.
Non basta poi dire che è un’ingiustizia l’aumento dell’età pensionabile per le donne del settore privato, ricordando il loro doppio lavoro, in fabbrica e a casa, per l’assenza di strutture adeguate: bisogna smascherare la mistificazione di fondo, non è una misura di “equità” per garantire un futuro ai giovani, ma la semplice rapina di diritti acquisiti, facendo per giunta poca cassa, e togliendo posti di lavoro a chi li attende da anni. Ma per farlo bisogna toccare il tema scottante della riduzione d’orario, che creerebbe posti di lavoro, mentre questo allungamento dell’orario sull’arco di una vita li toglie.
Nell’insieme la risposta della CGIL e del centrosinistra alla manovra è debole e generica. Si discute sull’eliminazione delle province senza porre la semplice domanda: chi si occuperà delle poche cose utili che erano a carico delle province, come l’edilizia scolastica e la rete stradale locale? Le stesse persone? E allora dove sarebbe il risparmio? Oppure chi se ne occupava verrà licenziato aggravando la situazione lavorativa in Italia?
È bene saperlo, per capire se c’è un altro duro attacco all’occupazione (tema che la discussione sulla manovra non ha neppure sfiorato), o un’altra fumosità come l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. Che a me sembra una pura buffonata (come ha detto in forma appena meno brutale Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, in un’intervista al “manifesto”), ma su cui tutti hanno discusso seriamente, come se fosse una cosa risolutiva, magari invidiando la Spagna che l’ha già introdotta in forma più rapida. E senza domandarsi perché proprio questo articolo dovrebbe essere applicato, visto che degli altri quasi nessuno è stato rispettato… E senza domandarsi neppure perché si è arrivati a un deficit come quello attuale: ci voleva proprio una norma costituzionale per sapere che se spendi più di quanto incassi, prima o poi sono guai?
8 settembre 2011
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