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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 28 settembre 2011

Alcune note sull'articolo “Tornare alla lira e cancellare il debito?”, di Riccardo Achilli




L'articolo recentemente comparso su Utopia Rossa, a firma di Michele Nobile, intitolato “Tornare alla lira e cancellare il debito?” illustra una posizione attenta, che va al di là delle banalità e degli slogan, e nell'insieme interessante e condivisibile. Nella sostanza, l'articolo in questione, che può essere letto al seguente link http://utopiarossa.blogspot.com/2011/09/tornare-la-lira-e-cancellare-il-debito.html confuta l'efficacia, e persino la praticabilità concreta, di provvedimenti animati da spirito rivoluzionario, ma condotti in modo parziale e a livello nazionale, come la recenta proposta di far uscire l'Italia dall'area-euro e di nazionalizzarne il sistema bancario, lanciata dall'appello dell'assemblea di Chianciano. L'articolo di Nobile sostiene, a mio parere fondatamente, la tesi secondo cui tali provvedimenti, se condotti isolatamente e su base nazionale, finiscono per favorire la stessa borghesia e per far pagare il conto ai proletariati degli altri Paesi.
La posizione assunta da tale articolo è quindi interessante, e fa piazza pulita di luoghi comuni e facili soluzioni. Ma, come tutte le posizioni interessanti, stimola anche ulteriori riflessioni, e apre la porta ad ulteriori affinamenti dell'analisi, mirati ad arricchirla, introducendo necessari elementi di complessità, rispetto ad un tema, come quello dell'euro e della crisi dei debiti sovrani, estremamente complesso. E' sempre opportuno, a mio parere, partire dall'assunto che la costruzione dell'euro è stata una invenzione del capitalismo finanziario europeo, al suo esclusivo e totale servizio. Di fatto, un'area monetaria unica favorisce in modo straordinario l'investimento finanziario, eliminando il rischio di cambio e stabilizzando le aspettative inflazionistiche verso il basso. Va evidenziato infatti che la consistenza totale di titoli non azionari denominati in euro passa dai circa 6.000 miliardi di inizio 1999 ai 14.000 miliardi di inizio 2010; i prestiti bancari ad intermediari finanziari non bancari (tipicamente erogati a fronte di investimenti finanziari) nell'area euro crescono costantemente dal 2000 fino al 2009, a tassi tendenziali che raggiungono anche il 25% . La costituzione dell'euro si rivela quindi un ottimo viatico per gli affari conclusi dagli operatori finanziari globali. Peraltro, l'introduzione dell'euro ha anche ocnsentito una maggiore integrazione del mercato finanziario europeo in quello globale. Il saldo netto degli investimenti di portafoglio, nella bilancia dei pagamenti dell'area-euro, che fino a fine 2000 era negativo per circa 2 punti di PIL, dall'inizio del 2001 diviene strutturalmente positivo, raggiungendo valori pari al 3,5% del PIL dell'area-euro nel 2007, e segnalando quindi un crescente interesse per il mercato finanziario europeo da parte di investitori finanziari esterni (fonte dei dati: Banca d'Italia).
Oltre agli interessi legati ai mercati finanziari, la realizzazione dell'euro ha risposto anche ad interessi industriali dei Paesi forti, Germania in primis. Il progetto di moneta unica è stato realizzato, superando le resistenze tedesche nel rinunciare al marco ed alle politiche monetariste austere della Bundesbank, offrendo in cambio la possibilità di far cessare le politiche di svalutazione competitiva attuate dalle economie più deboli, sotto il profilo della disciplina di finanza pubblica ed inflazionistica, che avevano consentito a tali economie di conquistarsi posizioni vantaggiose sul mercato interno tedesco. La condizione posta dalla Germania (ma in realtà posta dai grandi operatori finanziari globali, i veri beneficiari dell'introduzione dell'euro) per far partire l'euro è stata chiara: mai più un utilizzo allegro del tasso di cambio, che avrebbe alimentato tensioni inflazionistiche controproducenti per il rapido sviluppo degli investimenti sui mercati finanziari europei. La volatilità dei prezzi induce infatti indesiderabili elementi di incertezza e rischio nelle transazioni finanziarie di medio termine. La riconduzione, con l'introduzione dell'euro, delle politiche valutarie di tutti i Paesi aderenti verso il paradigma della “valuta forte” che ha da sempre guidato il dogma monetarista Bundesbank, richiede politiche fiscali e monetarie austere, mirate alla fissazione di target inflazionistici decrescenti, con tutto ciò che tali politiche austere comportano sugli assetti distributivi e sulla coesione sociale. Inoltre, l'impossibilità di manovrare la leva delle svalutazioni competitive per sostenere le esportazioni implica, per i Paesi dell'euro, la necessità di rafforzare la competitività strutturale dal lato dell'offerta, tramite una crescente destrutturazione dei mercati del lavoro e dei diritti dei lavoratori, mirate all'obiettivo di aumentare il valore del rapporto fra produttività e costo dei fattori produttivi. Non va infine dimenticato che una unione monetaria fra Paesi con piena sovranità sulle loro politiche fiscali presuppone, per la sua stessa sopravvivenza rispetto a possibili attacchi speculativi, una omogeneità dei parametri fondamentali di inflazione e finanza pubblica, e poiché la situazione di partenza dei Paesi aderenti era (ed è tuttora) molto diversificata, l'unione monetaria richiede un continuo sforzo di riduzione dei disavanzi e dei debiti pubblici rispetto al PIL e di contenimento delle tensioni inflazionistiche, tramite politiche economiche di tipo fondamentalmente monetarista e liberista, sforzo sancito nel patto di Maastricht e successivamente nel patto di stabilità, e che viene pagato tramite una compressione della spesa sociale.
Tutto ciò si traduce in una gigantesca operazione di ristrutturazione sociale ai danni dei proletariati nazionali dei Paesi dell'euro, che la recessione economica non può che accelerare. Infatti, il modello di politica economica impostosi con l'avvento dell'euro è basato sullo smantellamento dei residui delle politiche keynesiane dal lato della domanda e sul rafforzamento degli interventi di irrobustimento della competitività dal lato dell'offerta. La spesa complessiv per protezione sociale, nei Paesi dell'area-euro, passa dal 26,8% del PIL nel 1997 al 25,8% nel 2007. I risultati di ciò sono evidenti. L'indice del Gini, che misura la sperequazione nella distribuzione del reddito, ed il cui valore aumenta all'aumentare delle diseguaglianze distributive, nella UE-15 cresce da un valore di 29,0 nel 1999 ad uno di 30,2 nel 2007 (cioè prima che gli effetti della recessione lo facessero crescere ulteriormente); la popolazione a rischio di caduta in povertà, nell'area-euro, aumenta di circa 3,6 milioni di unità fra 2003 e 2009, la popolazione in condizioni di “grave deprivazione”, quindi che ha superato il rischio di povertà, essendovi pienamente caduta, sempre nell'aera-euro e sul medesimo periodo, cresce di circa 1,56 milioni di unità (fonte: Eurostat, indagine Eu-Silc).
Per quanto detto, non ho dubbi che anche Nobile pensi (e lo pensasse anche senza bisogno del mio articolo) che la costruzione dell'euro risponda a logiche ed interessi della borghesia finanziaria e sia stata pagata dal proletariato, con enormi sacrifici, sia nella fase di avvicinamento all'euro, sia nella successiva fase di gestione del progetto. L'abbattimento dell'euro, senza però tornare a logiche nazionaliste “chiuse”, dovrebbe quindi essere un obiettivo fondamentale per un rivoluzionario, e le forme di "desistenza rivoluzionaria" (della serie...non intromettiamoci nelle beghe della gestione del debito sovrano dei Paesi PIIGS e della difesa dell'euro, che sono problemi fra fazioni del capitalismo) non mi convincono affatto. Il capitalismo, a differenza di noialtri, è molto ben internazionalizzato, e se lasciato da solo, potrebbe (anche se sono scettico al riguardo) forse, trovare il modo di salvare l'euro. E' notizia di oggi che FMI, Banca mondiale, USA e Svizzera reperiranno 3.000 miliardi di euro per traghettare fuori dalla crisi le banche europee creditrici della Grecia, quando questa, a breve, verrà portata verso il default pilotato. Questo non implica la salvezza dell'area-euro nel suo insieme, e peraltro questa ulteriori iniezione di liquidità nei patrimoni bancari non potrà che comportare una monetizzazione del debito, e pressioni inflazionistiche, se le banche la useranno per fare credito o nuovi investimenti finanziari, oppure una ulteriore crisi di fiducia sui mercati, se le banche porteranno a patrimonio netto tale liquidità, senza aprire il rubinetto del credito. Tuttavia, tale mossa dimostra la capacità del capitalismo di trovare soluzioni: il problema del default greco, rispetto ai bilanci delle banche creditrici è probabilmente risolvibile (anche se non risolverà la crisi di credibilità che tale default comporterà per l'intero establishment politico-economico europeo; peraltro, nessuno ad oggi è in grado di prevedere quali sconvolgimenti politici potrebbe comportare il fallimento della borghesia greca nel tentativo di rimanere agganciata all'euro. Non si può nemmeno escludere l'eventualità che tale fallimento possa portare ad una radicalizzazione a sinistra del proletariato greco ed a una riorganizzazione/rafforzamento di tale area politica). Certo non è risolto il problema, ben più grave, del default di Spagna e Italia, ma se, nel frattempo, il capitalismo finanziario globale mette una pezza sulla Grecia, guadagnerà tempo, tempo che sarà speso per imporre ulteriori, tragici sacrifici ai proletariati di Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda, e in misura minore Gran Bretagna, Francia e Germania (che, sia pur su livelli molto inferiori, hanno anch'essi problemi di extra deficit e di crescita tendenziale del debito pubblico rispetto al PIL), in termini di pesanti manovre finanziarie, al fine di recuperare tutto ciò che è recuperabile dei crediti che le banche vantano nei confronti dei governi, spremendo i singoli Paesi come limoni.
Quindi non si può assistere passivamente alle contorsioni dei mercati finanziari, lasciando che il capitalismo prolunghi l'agonia dell'euro, alle spese dei proletariati nazionali, sui quali verranno imposti ulteriori sacrifici in nome dell'euro stesso. Oppure, Marx non voglia, che il capitalismo trovi la soluzione di accentrare le politiche fiscali nazionali a Bruxelles, creando un super-Stato gestito con logiche monetaristiche (che è anche un obiettivo gradito per la Bundesbank, come dimostro nel mio articolo su Stark, pubblicato sul blog di Bandiera rossa qualche giorno fa). Allora, quale è il nocciolo della questione, sul quale concordo pienamente con Nobile? Che non si può proporre il ripudio del debito pubblico e l'uscita dall'euro unilateralmente, come fatto di "autotutela nazionale", ovvero per un Paese solo, come traspare dal manifesto di Chianciano. A pagare i costi sarebbero solo gli altri proletariati dei Paesi creditori. Inoltre si genererebbero fenomeni di guerra commerciale (con rigurgiti di protezionismo) e valutaria che finirebbero per rafforzare il ruolo, agli occhi dell'opinione pubblica, dell'istituzione statuale e della borghesia nazionale, anziché indebolirla, ed è per questo che l'uscita dal debito e dall'euro è caldeggiata da movimenti politici nazionalisti e di destra, che riprendono le posizioni “euro-secessioniste” dell'ex Ministro Paolo Savona.
Va però tenuto conto del fatto che la posizione legata alla fuoriuscita unilaterale dall'euro ha alcuni argomenti, per così dire, di “appeal” per l'opinione pubblica, e quindi le posizioni che spiegano la pericolosità di tale fuoriuscita devono necessariamene farci i conti. Un argomento di appeal in tal senso è che, con l'uscita unilaterale dall'euro, la conseguente recessione che attraverserebbe l'economia nazionale sarebbe, probabilmente, solo temporanea, da adattamento, benché intensa, e potrebbe gettare le basi per una nuova fase di crescita successiva. Tale argomentazione va analizzata con maggiore scrupolo, non liquidata semplicemente ricordando che l'uscita dall'euro prefigurerebbe un recessione, e basta. Certo, la fuga dei capitali, le difficoltà di conversione dello stock di risparmio denominato in euro che paralizzerebbero gli investimenti ed i consumi, lo shock inflazionistico indotto dalla reintroduzione di una valuta nazionale immediatamente sottoposta ad una forte svalutazione, comporterebbero pesanti effetti recessivi. Tuttavia, è anche vero che la recessione da adattamento potrebbe essere particolarmente breve per economie fortemente vocate all'export, come quella italiana, che potrebbero procurarsi dalle esportazioni la valuta pregiata di cui necessitano per fare investimenti e per ripristinare le riserve valutarie della Banca centrale, senza bisogno di aderire all'euro. Il ripristinato controllo nazionale della politica monetaria e la possibilità di ripartire con un debito pubblico alleggerito e con una valuta deprezzata, che stimola la competitività di prezzo delle esportazioni, permetterebbero, probabilmente, una consistente ripresa economica dopo la recessione “da fuoriuscita”. E poi c'è sempre il caso empirico dell'Argentina, che dopo aver abbandonato la dollarizzazione della sua economia e l'ingessamento “ex lege” della politica monetaria (entrambi i fenomeni indotti de facto dalla famigerata legge di convertibilità dell'ex Ministro Cavallo, che stabiliva un tasso di cambio rigido di 1 a 1 fra peso e dollaro e rigidi vincoli all'ammontare di riserve valutarie dela Banca centrale), ripristinando il peso, ed aver ripudiato una parte del suo debito estero, ha attraversato una breve, anche se violenta recessione, e da anni cresce ad un tasso medio dell'8-9%.
A fronte di tali argomenti, ha perfettamente ragione Nobile, nel suo articolo, nel dire che il conto di una simile strategia lo pagherebbero i proletariati dei Paesi creditori, che il ripudio del debito estero rafforzerebbe la nostra borghesia, consentendole di uscire indenne dalla crisi e di ripristinare, tramite la crescita economica, il suo pieno controllo sulla società, che la nazionalizzazione delle banche non condurrebbe di per sé ad un sistema socialista, ma potrebbe bene essere funzionale ad un progetto di salvataggio del sistema creditizio elaborato dalla borghesia, a suo uso e consumo (il primo a nazionalizzare le banche italiane in difficoltà fu Mussolini, con la legge bancaria del 1936). E come non dargli ragione, quando afferma che un simile progetto sarebbe gestito da una “sinistra” composta da partiti, come il PD, l'IDV, la SEL, sostanzialmente asserviti agli interessi della borghesia? Ma il punto di fondo, a mio parere, è che, di fronte agli argomenti dei “nazionalsciovinisti”, indubbiamente affascinanti per parte dell'opinione pubblica, opporre una sostanziale inerzia e desistenza è una risposta troppo debole. Occorre invece proporre una risposta proattiva. Il problema va risolto su scala internazionale. TUTTI I PROLETARIATI EUROPEI dovrebbero unirsi per chiedere la cancellazione dell'euro, la pubblicizzazione del sistema bancario globale, il suo frazionamento su base locale e di comunità, e la sua gestione in forme socializzate, ovvero direttamente dai lavoratori delle banche e dai risparmiatori che affidano a tali banche i loro risparmi, abolendo il tasso di interesse, e destinando il credito a progetti produttivi di tipo sociale, mutualistico e cooperativo, fino all'eliminazione stessa del sistema bancario, che ha senso soltanto laddove vi è un sistema monetario, ovvero uno Stato ed un mercato concorrenziale e di conseguenza la naturale (ed a quel punto automatica) cancellazione dei debiti sovrani.
Naturalmente, al momento tutto ciò è pura utopia. Allora, nell'”hic et nunc”, quali posizioni si dovrebbero/potrebbero realisticamente adottare? Chiedere una regolamentazione stringente dei mercati “over the counter”, permettendo che la circolazione di prodotti finanziari su tali mercati sia legata esclusivamente a motivi, dimostrabili, di mera copertura assicurativa da rischi futuri avrebbe una conseguenza immediata, ed eliminando così le transazioni puramnte speculative: in tal modo, automaticamente, gran parte dei flussi di investimento finanziario sarebbero deviati dall'Europa verso altre zone del mondo, costringendo le borghesie europee a recuperare un approccio al plusvalore di tipo produttivo, e non più finanziario, e quindi recuperando il ruolo centrale del proletariato, che nel capitalismo finanziario viene messo in secondo piano, perché il grosso degli investimenti non ha finalità produttive. Si potrebbe inoltre chiedere la cessazione di ogni aiuto pubblico nazionale o europeo a banche in crisi, chiedere che il debito sovrano dei Paesi in crisi sia pagato dai ricchi, di quei Paesi ma anche degli altri Paesi UE, dalle banche e dai fondi di investimento operanti nell'area UE (mediante un prelievo forzoso sulle loro riserve oppure, alternativamente, ed a scelta delle banche/fondi di investimento, un haircut di pari entità sui loro crediti nei confronti dei Paesi indebitati) e dalle multinazionali, impedendo qualsiasi tassazione sui bassi redditi, sui consumi o qualsiasi taglio della spesa pubblica per finalità sociali in qualsiasi Paese dell'area UE, indebitato o meno. Queste richieste dovrebbero essere avanzate per tutti i Paesi Ue, ed andrebbero quindi sostenute in modo coordinato da tutti i proletariati dei Paesi UE dai rispettivi partiti, e dovrebbero quindi bastare per assestare il colpo di grazia al capitalismo finanziario europeo, all'euro ed al monetarismo delle banche centrali allineate alla Bundesbank. Naturalmente ciò richiederebbe una Quinta Internazionale, che al momento non c'è, e quindi è anche difficile, oggi, pensare di poter coordinare i partiti proletari europei su tali posizioni comuni. Ma comunque ciò che va evitato è la desistenza rivoluzionaria. Quindi, in assenza di una capacità comune e coordinata di lotta su scala transnazionale, quanto meno occorrerebbe provare a lanciare, diciamo così per finalità didattiche e formative, parole d'ordine che superino gli angusti ed egoistici confini nazionali, quali quelle qui proposte (o altre che si ritenessero più realistiche/efficaci), nel tentativo di gettare un granello, insufficiente e piccolo quanto si vuole, sul lungo e difficile cammino della ricostruzione di una coscienza di classe e di una capacità di lotta su base internazionale.

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