Fra una settimana esatta, la Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno, ente pubblico orbitante attorno alla Presidenza del Consiglio, che da sempre svolge il ruolo di osservatorio dell'economia meridionale) celebrerà il suo ennesimo rituale annuale, di presentazione del suo rapporto sull'economia del Mezzogiorno. E come tutti gli anni, pianti ed alti lai si leveranno per lo storico tradimento della promessa di sviluppo del nostro Sud, e per l'inefficacia delle ennesime sperimentazioni di politica di sviluppo (in verità, le lamentazioni sono rese ancora più stridule dal sostanziale smantellamento dell'apparato nazionale delle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno, operato dal centro-destra alle prese con i problemi di bilancio e con i guaiti leghisti). La realtà è molto semplice, per chi vuole guardare al nostro Mezzogiorno non con le lenti della lotta di potere da pollaio che caratterizza la democrazia borghese italiana, ma con quelle della realtà storica: questo articolo mira a spiegare perché politiche di sviluppo mirate a far maturare condizioni di capitalismo nel Mezzogiorno siano inevitabilmente destinate a fallire, e come invece solo una rottura rivoluzionaria del paradigma capitalistico di sviluppo possa consentire al Mezzogiorno di recuperare un percorso autonomo in grado di raggiungere obiettivi di sviluppo egualitario ed a ritrovare la dignità che storicamente gli compete, e che storicamente lo Stato italiano unitario gli ha negato, ripagando questo furto con logiche compensatorie inefficaci e perdenti.
La lezione fondamentale di tutto ciò è chiara: il Mezzogiorno, nonostante il gigantesco sforzo finanziario pubblico, non ha intrapreso alcun processo di sviluppo, perché non è riuscito a tenere il passo con il resto del Paese, accentuando i divari di sviluppo sociale ed economico, e quindi collocandosi sempre più ai margini dei processi di evoluzione del capitalismo globale. Se il tenore di vita ed alcuni elementi di sviluppo si sono realizzati nel frattempo, ma solo in termini assoluti e non relativi, ciò si deve esclusivamente al trascinamento indotto dallo sviluppo del resto del Paese, trascinamento innescato dagli effetti redistributivi, privi di connotati strutturali di lungo periodo, dei grandi flussi di spesa pubblica destinati al Sud, ma non si è mai radicato in modo stabile alcun processo di sviluppo endogeno ed autosostenuto.
E non è che si possa attribuire questo dato di fatto esclusivamente ad errori, omissioni, corruzioni o sprechi nelle politiche di sviluppo messe in campo in questi ultimi 60 anni. Tutto ciò si è verificato, però il punto fondamentale è che dal dopoguerra ad oggi si è tentato di mettere in campo l'intera gamma possibile degli attrezzi teorici che l'economia dello sviluppo di origine borghese e capitalista suggeriva: dagli approcci “top-down” mirati a creare l'infrastrutturazione produttiva e logistica di base ed a polarizzare lo sviluppo a partire da aree forti specificamente attrezzate per accogliere grandi investimenti industriali (come suggerisce la scuola di Perroux e Hirshmann, e come effettuato nella fase “eroica” della prima gestione della Cassa per il Mezzogiorno), alle politiche mirate a diffondere lo sviluppo dai “poli di crescita” alle aree periferiche mediante l'attivazione di circuiti keynesiani di reddito, consumo ed investimento in sede locale (secondo i meccanismi della “causazione circolare cumulativa” ipotizzati da Myrdal), al tentativo di creare filiere mediante investimenti focalizzati su specifici settori ad elevata potenzialità di creazione di un indotto (secondo i modelli dell'industria motrice), dall'incentivazione a pioggia alle imprese, nella speranza di allargare la base produttiva ed occupazionale, come realizzato con il modello della legge 488/92 e della fase delle politiche industriali fatte a colpi di incentivi diretti, allo sviluppo “bottom up” teorizzato dalla scuola dello sviluppo locale, fatto di sostegni alla creazione di distretti industriali o turistici, e di strumenti a supporto di progetti di sviluppo ideati e gestiti in sede locale (la stagione della programmazione negoziata, dai patti territoriali ai contratti d'area, passando per i contratti di programma), fase culminata con la variante più evoluta dello “sviluppo locale integrato” estrinsecatasi nei Pit (programmi integrati territoriali) della passata fase di programmazione dei fondi strutturali, chiusasi senza creare alcuna integrazione fra i territori del Sud. Senza dimenticare i tentativi fallimentari di coinvolgere il capitale privato in progetti di pubblico interesse, o altre diavolerie ridicole, come i progetti di marketing territoriale per l’attrazione di investimenti esterni in un’area assolutamente priva di fattori di localizzazione attraenti per le multinazionali.
Qualsiasi tentativo fatto, qualsiasi approccio sperimentato nella logica delle politiche di sviluppo di tipo capitalista, ha condotto inevitabilmente all'impossibilità di indurre il mitico “breakthrough” strutturale nei fattori del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, avviando percorsi autonomi e sostenuti di crescita produttiva e di sviluppo sociale. La ragione fondamentale è, per noi marxisti, molto chiara. Quello che è mancato è uno sviluppo pienamente capitalistico delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione. Sembra una tautologia o una ovvietà, ma se le condizioni capitalistiche di un territorio non si sviluppano, le politiche di sviluppo orientate ad una logica capitalistica non producono alcun risultato.
Le questioni strutturali e di classe dello sviluppo del Sud
Da questo punto di vista, dalla spedizione dei Mille ad oggi, il Mezzogiorno ha avuto uno sviluppo di tipo capitalistico molto incompleto e parziale. Il Mezzogiorno di prima dell'avvio dell'intervento straordinario era un'area connotata da una certa omogeneità negli assetti sociali di produzione. Nelle aree rurali, vigeva un sistema semi-feudale, nel quale una enorme massa di braccianti, mezzadri e piccoli contadini viveva all'ombra di un latifondo a modesta produttività, in mano ai resti della nobiltà borbonica. In quelle urbane, una piccola borghesia ruotava, in modo semi-parassitario, attorno al mondo della politica e della pubblica amministrazione, mentre il suo segmento produttivo, composto essenzialmente da commercianti, artigiani e titolari di piccole attività nel settore dei servizi alla persona, vivacchiava a stento, insieme ad un proletariato industriale che il sottosviluppo dell'economia meridionale rendeva quantitativamente modesto, e concentrato perlopiù nelle pochissime aree dove, soprattutto per esigenze militari, il fascismo aveva dislocato stabilimenti industriali di proprietà pubblica.
Per dirla con Gramsci (“La Questione Meridionale”) la società meridionale precedente l’avvio delle politiche di sivluppo del dopoguerra, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli (privi cioè di coscienza di classe); piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali. Costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, che fornisce anche gli intellettuali, come Croce o Fortunato, favorevoli al mantenimento del blocco agrario. Di fatto, quindi, secondo Gramsci, la piccola borghesia urbana del Mezzogiorno è stata creata in modo artificiale, tramite l’espansione dell’occupazione nella pubblica amministrazione, e non tramite meccanismi di sviluppo capitalistico, che non si sono realizzati, mentre il ceto intellettuale e politico del Sud è interamente devoto alla causa della difesa degli interessi del latifondo e della manomorta.
E qual è lo stato dei rapporti di classe nel Mezzogiorno di oggi, a più di 84 anni di distanza rispetto a quando scriveva Gramsci, e dopo più di 60 anni di politiche di sviluppo del Mezzogiorno? Abbiamo, in primo luogo, l'unico effetto strutturale generato da 60 anni di politiche di sviluppo, ovvero una “leopardizzazione” del Mezzogiorno che, da area relativamente omogenea quanto a livello di sviluppo, è oggi caratterizzato da una complessa ed articolata geografica di poli a sviluppo differenziato. Vediamo in sintesi i diversi assetti produttivi e sociali creati da tale leopardizzazione.
Laddove le politiche dei “poli di crescita” degli anni '60-primi anni '90 hanno incentivato la creazione di grandi stabilimenti industriali, come a Taranto (e fino al 1989 a Bagnoli, nella siderurgia), o a Gela, Siracusa, Porto Torres, Cagliari (nella petrolchimica) oppure a Melfi, Pomigliano o Termini Imerese, o ancora a Castellammare di Stabia (nell'industria automobilistica o in quella cantieristica, in omaggio ai principi del modello dell'industria motrice) si è formato un proletariato industriale moderno, relativamente ben organizzato e combattivo, cresciuto grazie agli spazi di attività sindacale concessi dall'industria pubblica o semi pubblica. Ma in tali aree non si è formata alcuna borghesia moderna, perché la grande industria, sia a proprietà pubblica che privata, era costituita esclusivamente da stabilimenti di produzione, mentre i centri direzionali erano localizzati nel Centro Nord del Paese, e perché questa non ha generato alcun significativo indotto imprenditoriale locale. Quindi abbiamo un proletariato relativamente moderno ed autonomo, che però non ha un avversario di classe con cui confrontarsi direttamente, non essendovi in loco una vera e propria borghesia. Una situazione per certi versi simile a quella del proletariato di un Paese colonizzato, ma per altri versi anche peggiore, perché perlomeno nel Paese colonizzato vi è una borghesia compradora contro cui confrontarsi, mentre l'operaio siderurgico tarantino si deve confrontare con una proprietà della sua azienda ubicata a Genova, rappresentata in loco soltanto da un mero direttore di stabilimento e dai politici al soldo degli interessi dell'impresa, e niente più. Lo stesso modello si sta imponendo nelle aree turistiche, dove generalmente il mercato viene monopolizzato da pochi grandi investimenti di catene alberghiere o ricettive non meridionali.
Nelle aree a sviluppo “dal basso” e distrettuale (ovvero nelle poche che ancora sopravvivono, dopo la desertificazione industriale degli ultimi dieci-quindici anni), aree che perlopiù sono costituite da raggruppamenti di piccole e piccolissime imprese che operano in regime di subfornitura specializzata/contoterzismo per conto di imprese del Nord e generalmente in monocommittenza (si pensi all'ex distretto del TAC salentino, o a quello che era il distretto della corsetteria di Lavello, o ancora al polo conciario di Solofra) si è sviluppata una borghesia produttiva, ma per così dire il suo sviluppo è soltanto superficiale, poiché tale borghesia, a capo di sistemi produttivi confinati nei circuiti della sub fornitura e del contoterzismo a favore della media e grande industria del Nord, è “eterodiretta” e priva di quella capacità autonoma di generare localmente forme di accumulazione primitiva di capitale e quindi promuovere lo sviluppo del capitalismo, che è il tratto tipico delle borghesie emergenti che hanno fatto le rivoluzioni industriali e generato lo sviluppo delle forze produttive nei loro Paesi. Accanto a tale borghesia “rachitica” fondamentalmente compradora, in tali aree non si è sviluppato un proletariato dotato di quelle caratteristiche di organizzazione, capacità di mobilitazione ed autonomia, tipico delle aree connotate dalla presenza della grande industria, poc'anzi descritte (e che si estrinseca nelle capacità di lotta dimostrate, per esempio, nella vicenda Fincantieri a Castellammare, o nella tenacia dimostrata, nella lotta, degli operai Fiat di Termini Imerese). Infatti, i meccanismi padronali, familistici e paternalisti con i quali le piccole e micro imprese di tali “distretti di sub fornitura” sono governate tendono a disinnescare la lotta di classe, annacquandola nella demagogia dell'impresa come famiglia allargata, nella quale il padrone ed il lavoratore stanno sulla stessa barca (l'ideologia della piccola impresa). Quindi, in tali aree vi è una borghesia rachitica ed un proletariato privo di fondamentali elementi di capacità organizzativa ed autonomia. Lo stesso vale per quei pochissimi distretti “autonomi” (nei quali cioè si crea il prodotto finito, non operando quindi in regime di sub fornitura per committenti non meridionali; un esempio in tal senso è il moribondo distretto murgiano-materano del mobile imbottito) dove, certo, la borghesia è appena più sviluppata rispetto a quella delle aree connotate da “distretti di subfornitura”, ma conserva ancora tratti culturali e comportamentali più vicini a quelli dell'artigiano pre-capitalista che a quelli dell'imprenditore pienamente capitalista (ad esempio, la riluttanza verso l'accumulazione di capitale, preferendo dirottare verso la famiglia il plusvalore, piuttosto che reinvestirlo in azienda).
Nelle aree rurali (ad esempio la Basilicata o la Sicilia interna, le aree aspromontine e silane della Calabria, le are interne, fra Cilento, Sannio ed Irpinia, della Campania), dopo la fine del latifondo, permane una agricoltura a modesta produttività, ed in molti casi ancora di sussistenza (si pensi che l'azienda agricola meridionale “tipica”, secondo l'ultimo censimento Istat, ha una superficie agraria utilizzata di appena 5,9 ettari, contro gli 11,6 ettari dell'impresa agricola media del Nord; l'azienda agricola-tipo del Mezzogiorno è, nel 95% dei casi, a conduzione diretta del proprietario e senza salariati, utilizzando al massimo manodopera stagionale prevalentemente extracomunitaria; il valore aggiunto per addetto dell’agricoltura meridionale è così pari ad appena l’82% del dato nazionale). Gli antichi latifondisti, spesso, sono entrati in politica, perpetuando, tramite la diffusa pratica del voto di scambio e del consociativismo, forme di controllo neo-feudale del territorio, oliando il consenso elettorale con l'assistenzialismo diffuso, assurgendo al ruolo di “signorotti” locali. Oppure hanno investito i proventi della liquidazione del latifondo in altri campi, soprattutto nell'edilizia, che ruotano comunque attorno ai meccanismi consociativi e neo-feudali della politica. Le mezze classi, ieri come oggi, ruotano quindi sempre attorno a meccanismi di controllo neo-feudali gestiti dalla politica e dalla pubblica amministrazione, ridotta a suo braccio operativo (e non di rado cogestiti dalle 'ndrine e dalle cosche, che, creando legami di alleanza con la politica locale, gestiscono parti rilevanti dell'economia e della società). I braccianti ed i mezzadri dei tempi del latifondo, che dipendevano dal latifondista, sono oggi i piccoli contadini, o i membri della piccola borghesia urbana, che dipendono dal cacicco politico locale, con meccanismi di dipendenza non dissimili, nella sostanza, da quelli del passato. Gli intellettuali indipendenti sono quasi inesistenti. Le università sono esamifici privi di una autorevolezza scientifica propria.
In estrema sintesi, potremmo dire che il Mezzogiorno è un esempio paradigmatico di applicazione della legge dello sviluppo diseguale e combinato di Trotzky. E' un'area socio economica nella quale convivono elementi di arretratezza semi-feudali o precapitalistici, assieme a elementi di sviluppo sociale tipicamente capitalisti, ma il cui grado di sviluppo è in generale superficiale, o monco. Alla radice di tale condizione vi sono ovviamente elementi economici. L'assenza di una vera e propria rivoluzione agricola è forse la ragione principale, legata com'è ad una riforma agraria tardiva, pasticciata e parziale, avviatasi soltanto nel 1950 (il fascismo aveva infatti rinunciato alla riforma agraria, per non spezzare i suoi vincoli di alleanza con i ceti latifondisti del Sud, limitandosi ad una mera politica di infrastrutturazione rurale – opere di bonifica, acquedotti, ecc.), su aree specifiche e non su tutto il territorio meridionale, ed oltretutto, in alcune aree, senza provvedere alla necessaria infrastrutturazione, risolvendosi in un fallimento, ed ingessando le prospettive di autonomia cooperativa degli agricoltori all’interno della rigidità accentratrice assunta dagli enti di riforma. Come ci insegna la storia, generalmente la rivoluzione agricola precede le rivoluzioni industriali, poiché l'accresciuta produttività dell'agricoltura libera manodopera utilizzabile nella nascente manifattura, e genera forme di accumulazione primaria di capitale. L'assenza di un sistema creditizio e finanziario autoctono in grado di generare forme di accumulazione originaria di capitale monetario è un'altra ragione: dall'unificazione nazionale in poi, il polmone finanziario del Sud, sia quello pubblico che quello privato, ha sempre risieduto nel Centro Nord, nello Stato o nelle banche settentrionali. La lontananza (o meglio il vero e proprio isolamento) dagli snodi più rilevanti degli scambi commerciali mondiali e dai mercati più ricchi dell’Europa centro settentrionale è un ulteriore fattore che ha impedito quella fase mercantile iniziale attraverso la quale il capitalismo si è sviluppato, in altri contesti.
Ma vi sono anche elementi, per così dire, sovrastrutturali, nello spiegare il fallimento di un paradigma dello sviluppo orientato a integrare maggiormente il Mezzogiorno nelle logiche della competizione capitalista. Fondamentalmente, la ragione sovrastrutturale è che non si può costringere ad essere capitalista chi non lo vuole essere, perché non ha un substrato culturale adatto a recepire lo sviluppo capitalistico. Qualsiasi politica di sviluppo incastonata all’interno del paradigma dello sviluppo capitalistico, quand'anche generosa nelle risorse finanziarie erogate e fantasiosa e diversificata nelle filosofie dello sviluppo adottate, non può ottenere alcun successo, se non vi è una società in cui lo spirito di iniziativa imprenditoriale è diffuso e dove è diffusa la propensione al rischio ed all'autonomia individuale. Se è vero che il protestantesimo non ha fatto il capitalismo nell'Europa settentrionale, è però anche vero che ha fornito importanti stimoli culturali alle nascenti borghesie, incentivandola ad approfondire il lavoro di costruzione del capitalismo. Lo stesso dicasi della cultura dell'autonomia comunale che ha disseminato i primi elementi di capitalismo nell'Italia centro settentrionale dei Comuni e delle signorie rinascimentali.
Nel Mezzogiorno, invece, mancano gli elementi culturali utili per fornire stimoli in direzione della formazione di una borghesia matura e di un capitalismo evoluto. La cultura meridionale odierna oscilla fra elementi di pauperismo cattolico, intrisi di assistenzialismo (che con la dottrina sociale cattolica si sposa benissimo) che, come si è visto, è il meccanismo fondamentale attraverso il quale le classi dirigenti meridionali hanno mantenuto, anche dopo la riforma agraria e l’avvio dell’intervento straordinario, forme di controllo semi-feudale sulla società, e un crescente rivendicazionismo autonomistico, spesso condito da nostalgie neo-borboniche o da miti brigantistici che, seppur giustificabile storicamente, in realtà non conduce a niente, perché mira, o anche solamente vagheggia, al ripristino di assetti sociali fortemente reazionari ed arcaici. E’ invece necessario spingere in avanti lo sviluppo delle forze produttive, in modo da creare condizioni per una rottura in senso socialista degli equilibri di sottosviluppo nei quali il Mezzogiorno versa ancora oggi.
Occorre fondamentalmente tornare alla lezione di Gramsci, ovviamente attualizzandola alle condizioni di classe di oggi. La lezione di Gramsci era fondamentalmente quella di mantenere l’unità di azione fra gli oppressi. Egli vedeva la soluzione della questione meridionale in un’alleanza fra proletariato urbano e rurale, sia all’interno del Mezzogiorno (superando l’artificiosa segmentazione operata nel cuore stesso del proletariato meridionale già dalle politiche fasciste, ed accentuatasi, come si è visto nel presente articolo, con l’azione delle politiche di sviluppo del dopoguerra) che fra Mezzogiorno e resto del Paese. Ed in questa direzione occorre continuare ad andare. Il proletariato relativamente organizzato ed autonomo delle aree meridionali dove si è insediato il modello della grande industria deve fare fronte comune con il proletariato sottoposto a vincoli paternalistici che opera nel pulviscolo delle piccole e medie imprese, a fare fronte comune con il proletariato terziarizzato delle aree urbane, connotato da una estrema alienazione del suo lavoro intellettuale e da una crescente precarizzazione occupazionale ed esistenziale. Il proletariato non ha bandiera, ed al suo interno non ha interessi diversificati. Non è vero che, come sostiene la Lega, l’operaio del Nord ha da temere dal suo collega meridionale. Non è vero, come sostiene Sacconi e il sindacato corporativo, che l’interesse dell’operaio a tempo pieno ed indeterminato diverge da quello del giovane precario della pubblica amministrazione o dei servizi. La segmentazione interna del mercato del lavoro è in realtà il modo migliore con il quale il capitalismo sta procedendo ad una nuova fase di spoliazione dei diritti di tutti, sia del precario che dell’operaio con contratto a tempo indeterminato. Sono convinto che una lezione di unità e di antagonismo possa venire dal Mezzogiorno. Sono convinto che da questo Sud martoriato ed umiliato possa venire il segnale della riscossa. E lo sono non per idealismo o speranza, ma perché conosco profondamente il Sud.
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