di Riccardo Achilli
La Grecia ha votato. Si è
affidata ad un Governo filo-merkeliano che, fra Nd e Pasok, avrà 163 seggi,
quindi la maggioranza assoluta. Il risultato elettorale ottenuto da Syriza
lascia però più spazi per un moderato ottimismo che per un senso di sconfitta,
anche se naturalmente chi è ostile all’unità della sinistra radicale (e per ciò
stesso ostile alle ragioni del lavoro e degli oppressi) ne trarrà motivi per
criticare, o addirittura per gioirne, in nome di un purismo ideologico dello
zero virgola qualcosa.
I motivi di ottimismo non sono
soltanto nel risultato elettorale in sé, che è straordinario, poiché Syriza
arriva al 26%, ed è oggi, in Europa, il più importante partito che si richiama
al socialismo radicale ed all’antiliberismo reale (che va cioè oltre un
riformismo di maniera, inadatto ad affrontare le sfide sociali che il degrado
del capitalismo, e la sua ennesima metamorfosi guidata da istinti animali di
tipo liberista, pone).
I motivi di ottimismo risiedono
nel fatto che il progresso di Syriza (che nel giro di un mese guadagna quasi
dieci punti percentuali, fra una tornata elettorale e l’altra, e ciò in assenza
di effetti matematici attribuibili ad una contrazione della platea di elettori,
visto che il dato sull’astensionismo, in questa seconda tornata elettorale, è
addirittura lievemente più basso rispetto alla prima) evidenzia una
radicalizzazione dell’opinione pubblica greca, nell’unico modo in cui, a mio
avviso, nella presente congiuntura il proletariato di un Paese con una
tradizione di alto livello di benessere (alto livello che esisteva prima del
2010, ovviamente) può radicalizzarsi.
E’ evidente che la vittoria
di Samaras, un esponente di Nd, responsabile,
come il Pasok, della tragedia greca, mette a nudo i limiti del meccanismo
elettorale borghese, influenzato dalla possibilità, da parte delle forze
conservatrici, di manipolare l’opinione pubblica tramite la superiore leva
finanziaria che può essere investita in comunicazione politico-elettorale.
Tutta questa campagna elettorale è stata pesantemente influenzata da una
comunicazione mediatica ostile a Syriza (ancora ieri pomeriggio Repubblica, che
invece di organizzare passerelle mediatiche dovrebbe vergognarsi, proponeva lo
scontro elettorale greco come un referendum pro e contro l’euro, omettendo di
dire che lo stesso Tsipras ha sempre detto di voler rimanere dentro l’euro).
Commentatori politici pagati dalla Siemens o da qualche altra multinazionale
che fa affari sulla pelle della Grecia hanno addirittura detto che in realtà
Tsipras non voleva governare, ma restare all’opposizione. La stessa Merkel, con
un atto gravissimo, che meriterebbe la rottura delle relazioni diplomatiche, ma
che però nessuno ha criticato, ha osato intervenire nel processo elettorale di
un Paese sovrano, invitando gli elettori greci a votare Nd o Pasok, dopo averli
ripetutamente ricattati con la minaccia di non erogare più le tranche di
prestiti del fondo salva-Stati, vitali per la stessa sopravvivenza del Paese,
oramai in default conclamato.
In definitiva, a mio parere il
voto a Samaras è stato guidato, per un buon numero di elettori greci, oltre che
dalla paura irrazionale del salto nel vuoto di una uscita dall’euro, indotta dalla
propaganda politica scorretta effettuata dalla controparte, anche da una
considerazione di pratico cinismo, atteggiamento che tende a prevalere quando
la coscienza di classe si affievolisce e le ideologie vengono considerate
“superate” da una sottocultura di modernismo da trogloditi (che peraltro non
supera le ideologie, posto che anche il liberismo è una di esse, tende solo a
schiacciare quelle considerate “sgradite” al padrone del vapore). Un certo
numero di elettori deve aver pensato che, in fondo, posto che la Ue, prima del
voto, si era dichiarata disponibile a fare qualche ridicola concessione sul
memorandum, un eventuale Governo a guida Tsipras non avrebbe potuto ottenere
molto di più, posto che sarebbe comunque stato un Governo di transizione
dipendente, per la sua sopravvivenza, dai condizionamenti dei filo-merkeliani
del Pasok, e posto che comunque la Grecia non ha il peso economico, e quindi
politico, per influire sulle decisioni europee. Quindi, se secondo molti
elettori Tsipras non avrebbe avuto comunque la forza per ottenere più di quello
che la Ue si era già detta pronta a concedere, allora tanto valeva votare per
il vecchio azzecca-garbugli dei conti pubblici, ovvero Samaras (ex Ministro
delle Finanze e referente per le questioni economiche di Nd), rappresentante di
un partito come Nd che in fondo, con la complicità delle multinazionali
tedesche e della Ue, era riuscito a regalare al Paese diversi anni di una
prosperità basata sul debito (come avvenuto con la mostruosa spesa per le
olimpiadi del 2004, quando proprio Nd, con Karamanlis, era al Governo). La
speranza di molti elettori è che ovviamente alla vecchia faina riesca qualche
altro trucco, per ricostituire in qualche modo il circuito della spesa pubblica,
magari sfruttando il buon rapporto che Samaras ha con la Commissione Ue, e così
salvarli dal baratro.
Questo atteggiamento del tipo
“meglio la vecchia faina che la giovane tigre” è però un errore. Non è vero che
Tsipras non avrebbe ottenuto molto di più di ciò che otterrà Samaras, e che la
Ue è già pronta a concedere. Va infatti ricordato che il prossimo 28 Giugno si
terrà un Eurogruppo fondamentale, dal quale si dovrà uscire con una idea di politica
economica per la ripresa della crescita. Il fatto che in Grecia vi sarà un
altro fedele esecutore delle direttive del Capitale finanziario avrà
sicuramente ripercussioni sulle decisioni di tale vertice.
La presenza di Samaras in luogo
di Tsipras a tale vertice eviterà, a mio parere, che vi sia una vera
mutualizzazione del debito pubblico dei diversi Paesi, consolidandolo a livello
europeo. Infatti, solo la presenza di uno Tsipras in grado di picchiare i pugni
sul tavolo e minacciare il congelamento unilaterale del memorandum avrebbe
potuto rappresentare un incentivo agli eurobond. Perché in realtà la Merkel non
ha nessuna pressione reale a fare questo passo. E’ inutile illudersi che
Hollande e Monti, pur se a parole favorevoli agli eurobond, faranno molto per
imporne l’adozione. Questo perché la Bce, che rappresenta gli interessi del
Capitale finanziario, è chiaramente ostile alla mutualizzazione del debito. Il
suo governatore Draghi ha infatti affermato che “non è possibile trasformare
l’eurozona in un’unione di trasferimenti finanziari dove uno o due Paesi pagano
e gli altri spendono. E il tutto finanziato dagli eurobond”. E l’Ocse,
anch’essa legata agli interessi del capitalismo finanziario, ha dichiarato,
tramite il suo segretario generale Gurria, che “la mutualizzazione del rischio
già esiste, nel Fondo salva-Stati” (il che non è vero, poiché il rischio rimane
a carico del Paese debitore, i Paesi che conferiscono risorse nel Fondo
salva-Stati rischiano soltanto la quota di conferimento).
Si può credere che Hollande e
Monti, di fronte alle pressioni del capitale finanziario, e senza la
contropressione di uno Tsipras, difenderanno gli eurobond al punto di piegare
l’ostinata resistenza tedesca? Mi pare impossibile. Alla fine, prevarrà il
compromesso raggiunto fra la Merkel e la Spd, ovvero il “redemption fund”, uno
strumento che non consente di mettere i debiti pubblici nazionali in comune, ma
ne lascia l’onere ai singoli Stati, tenuti a trasferire a tale fondo la quota
di debito pubblico che supera il 60% del PIL, obbligandoli a pagare annualmente
una quota capitale, per l’estinzione entro 20-25 anni, più ovviamente gli
interessi. Tale strumento è perfettamente coerente con la filosofia liberista
del fiscal compact, e non consente alcun alleggerimento del fardello sociale
imposto ai Paesi PIIGS. E’ utile per tranquillizzare l’elettore tedesco. Ma non
per risolvere i problemi. La Grecia, come l’Italia, rimarrà sottoposta alla
stessa pesante disciplina di bilancio, la sua economia rimarrà in recessione o
al massimo di stagnazione per anni, riducendo di conseguenza la stessa capacità
di creare nuova ricchezza necessaria per pagare le quote al redemption fund.
Non si capirà come solo una
soluzione europea e solidale possa consentire all’Europa di uscire dal pantano,
posto che l’Eurozona nel suo insieme è virtuosa: il rapporto tra debito
pubblico e Pil aggregati è infatti molto inferiore a quello di Stati Uniti e
Giappone (87% contro 100% e 200%); il deficit/Pil è addirittura metà di quello
USA (4% contro 8%). Data la bassa rischiosità dell’Europa nel suo insieme, i
rendimenti degli eurobond sarebbero molto bassi e i paesi in crisi debitoria
non avrebbero difficoltà a rifinanziare i propri titoli in scadenza a costi
inferiori. I più bassi tassi di interesse consentirebbero inoltre uan ripresa
degli investimenti e della crescita. Ciò è già stato sperimentato con successo
con la nascita degli Stati Uniti: quasi tutti gli Stati erano sovraindebitati
ed insolventi, ed il ministro del Tesoro di allora li risanò accentrando tutti
i debiti con l’emissione di titoli federali.
Quindi per la Grecia, senza
Tsipras e con Samaras, ci sarà soltanto un po’ di riduzione dei tassi di
interesse sui prestiti del Fondo salva-Stati, un po’ di riscadenzamento
temporale degli impegni del memorandum (che però rimarranno quantitativamente
identici a prima), un po’ di investimenti della BEI in infrastrutture digitali
e trasportistiche (una tipologia di investimento che però, nell’immediato, crea
soltanto un po’ di occupazione di cantiere, precaria e legata al tempo di
esecuzione dell’investimento, e nemmeno molta occupazione indiretta ed indotta,
posto che il settore delle costruzioni rappresenta il 5,3% del valore aggiunto
greco, a fronte del 6,2% della media dell’area-euro – dato Eurostat 2010;
mentre gli effetti strutturali di tale tipologia di investimento si fanno
sentire solo in tempi medio-lunghi, quando cioè l’opera è realizzata, ma la
Grecia ha bisogno di uno shock di crescita positivo oggi, non fra cinque anni).
Queste concessioni non tireranno fuori dal pantano la Grecia, e nemmeno
l’Europa; l’elettore tedesco terrorizzato dagli eurobond non viene portato da
nessuno ad un ragionamento semplice, ovvero “a chi esporterà la Germania, se
l’Europa centro meridionale viene ammazzata?” Il nuovo tonfo delle Borse e
degli spread di oggi dimostra come gli stessi mercati finanziari siano
consapevoli del fatto che aver tolto di mezzo la minaccia-Tsipras, per
difendere le carabattole liberiste ( il fiscal compact, il redemption fund, i
piani di rientro nazionali, l’ESM, ecc. ecc.), non si traduca in alcuna
soluzione strutturale alla crisi.
Non si va da nessuna parte senza
maggiore solidarietà europea sulla gestione dei debiti pubblici nazionali, e
senza una politica chiaramente orientata alla crescita della domanda per
consumi, partendo dalle fasce più povere ed a maggior propensione marginale al
consumo, e senza un nuovo ciclo di investimenti pubblici su settori ad elevata
ed immediata capacità di creazione di occupazione stabile (non di cantiere)
come energia, ambiente, sanità e protezione sociale, e senza una
regolamentazione europea a statunitense severissima sulle transazioni
finanziarie “over the counter”, e senza una politica monetaria ricondotta sotto
il controllo dei popoli, e non gestita da tecnocrati dietro la sciocca idea
dell’indipendenza delle banche centrali (in realtà dipendenti dai poteri
finanziari) e senza una politica sociale mirata a ridurre le diseguaglianze
economiche e di accesso ai beni comuni, e senza una reale integrazione di
popoli migranti, e senza una attenzione prioritaria alla qualità della vita e
dell’ambiente, e senza un ritorno ad una programmazione pubblica che nasca dal
basso, con idonei strumenti di pianificazione condivisa e partecipata, e senza
strumenti di reale compartecipazione dei lavoratori alle loro imprese, e senza
un rilancio del cooperativismo come strumento che vada al di là della
concorrenza di mercato in nome del benessere degli individui e della società, e
non del profitto.
Tutto ciò è reso più difficile
dalla mancata vittoria di Tsipras. Però, ed è per questo che sono ottimista, in
una fase in cui le condizioni soggettive per una rivoluzione non sembrano
esservi, e non soltanto perché manca un partito-guida, ma anche perché ampie
fasce dei proletariati nazionali dei Paesi sottoposti a piani di rientro, hanno
una coscienza di classe annacquata da decenni di benessere, e quindi non
chiedono un cambiamento di sistema, ma semplicemente il ritorno (impossibile) a
quel benessere precedente, il meccanismo elettorale, pur con tutti i suoi
limiti, segnala una radicalizzazione in senso antiliberista all’interno della
società greca. Ciò non è sufficiente, per ora, a produrre un cambiamento di
paradigma, ma sicuramente contribuisce a dimostrare che, nonostante tutti gli
sforzi messi in atto per imporre il pensiero unico liberista, tale pensiero
unico non solo non è unico, ma è addirittura in regresso fra i popoli più
duramente colpiti dal morbo liberista. La stessa speranza dell’elettorato greco
di riuscire a sfangarla affidandosi alla vecchia faina di Nd sarà sottoposta a
una disillusione, quando diverrà evidente che il vecchio caro Samaras si
allineerà acriticamente a politiche europee che non produrranno alcun effetto
positivo sulla situazione disperata in cui versa il Paese. Ed allora,
inevitabilmente, l’onda antiliberista vista ieri diventerà una marea. Sempre
che Tsipras non commetta l’errore di Mélenchon, e rimanga coerentemente e
lealmente avverso al Governo filo-merkeliano che si metterà in campo con la
coalizione Nd-Pasok.
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