Nel presente articolo si
ripercorreranno i recenti avvenimenti storici della Repubblica Democratica del
Congo, Paese che rappresenta, da solo, l'immagine stessa della tragedia di un
intero continente. L'analisi degli avvenimenti congolesi recenti è propedeutica
ad un esame dei suoi assetti sociali e quindi delle sue prospettive future, che
sarà fatto alla fine.
I primi anni di indipendenza:
l'ascesa di Mobutu
Decolonizzatosi dal dominio belga
nel 1960, il Paese si ritrova in mano ad una giovane classe dirigente
tecnicamente e politicamente impreparata a gestirlo, costituita essenzialmente
da piccoli funzionari esecutivi del governo coloniale e da ex militari della
guardia coloniale belga, sostanzialmente una sorta di mezza classe impiegatizia
che era l'unica ad aver potuto ricevere una educazione di base in un Paese
largamente analfabeta, ma assolutamente priva di esperienza politica di base e
spesso, nel caso di chi veniva dai ranghi militari, anche culturalmente impreparata
a guidare il Paese in forma democratica.
In un tessuto sociale di tipo
tribale frammentato in centinaia di etnie, la dialettica politica che si va
formando nella giovane Repubblica parlamentare si frammenta per appartenenza
politico-ideologica e per linee etnico/tribali, creando un miscuglio esplosivo,
foriero di future tragedie, non appena l'imperialismo occidentale, interessato
alle incredibili ricchezze minerarie delle regioni dell'est e del sud del Congo
accenderà la miccia.
E ciò avverrà immediatamente: le
ricche regioni minerarie del Katanga e del Sud Kasai dichiarano subito la loro
indipendenza, istigate dalla potentissima multinazionale belga Union Minière du
Haut Katanga (che nel Katanga conserva importanti interessi nell'industria
estrattiva) e dagli USA (nel caso della regione diamantifera del Sud Kasai,
infatti, la multinazionale che finanziò i secessionisti era la Société
internationale forestière et minière du Congo, detenuta in quota uguale dal
Governo belga e da businessmen statunitensi).
Accanto agli interessi economici
dell'industria estrattiva, vi è l'interesse politico, da parte degli USA, di
bloccare la possibile estensione dell'influenza dell'Urss sulla neonata
Repubblica, tramite il Primo Ministro Patrice Lumumba, eroe dell'indipendenza e
di tendenza socialista nazionalista, che per contrastare l'influenza
imperialista esterna e la conseguente disgregazione del Paese, con la perdita
delle regioni più ricche, chiede immediatamente l'aiuto sovietico. Lumumba
verrà quindi deposto da un colpo di Stato architettato dalla CIA, dopo esser
stato isolato politicamente ad arte, mettendogli contro il presidente Kasa-Vubu
(ed in questo caso sfruttando abilmente le divisioni etniche; Kasa-Vubu è
infatti un Bokongo che sogna di imporre a tutto il Paese l'egemonia della sua
etnia, mentre Lumumba è un Tetela) e provocando scissioni nel suo partito,
l'MNC (abbandonato dal secessionista del Kasai Kalonji e dal moderato Iléo). Il
colpo di stato che rovescia Lumumba è guidato da un altro suo ex alleato che lo
abbandona, il capo di Stato Maggiore Joseph-Désiré Mobutu, che sfrutta
abilmente le divisioni etniche nell'Esercito nazionale, imprudentemente
“africanizzato” da Lumumba, eliminando troppo rapidamente gli ufficiali belgi
che lo comandavano (e quindi creando, contemporaneamente, uno scadimento
immediato della disciplina e il fiorire di bramosie, da parte dei vari gruppi
etnici, ad occupare le ambite posizioni di comando lasciate libere dagli
ufficiali europei; due ingredienti micidiali che aprono la strada al putsch
militare). I militari baluba e bangala, che non si sentono rappresentati
adeguatamente nella nuova catena di comando, sferrano il golpe, di cui Mobutu
approfitta, grazie alla sua amicizia con il Governo belga, per prendere il
potere a settembre 1960.
A quel punto, eliminato ed
assassinato Lumumba, ed installato al potere Mobutu, l'Occidente provvede a
cancellare gli esperimenti secessionisti del Katanga e del Sud Kasai, varati
strumentalmente soltanto per indebolire Lumumba. Con l'aiuto delle truppe
dell'ONU, che fino a quel momento erano rimaste passive ad assistere agli
eventi, le regioni secessioniste vengono riconquistate dopo brevi ma
sanguinosissime campagne militari, condite da azioni punitive contro le
popolazioni civili sotto lo sguardo indifferente dei caschi blu, e contro la
guerriglia lumumbista.
Nel 1965, Mobutu eliminerà anche
il presidente Kasa-Vubu e, con l’adesione entusiasta degli USA e della ex
metropoli fonderà una dittatura tipicamente africana, basata sui seguenti tratti
caratteristici:
-
L’eclettismo ideologico; Mobutu sarà fino
all’ultimo alleato politico degli USA, tanto da intervenire militarmente contro
la guerriglia comunista in Angola, e da aprire, soprattutto nella prima fase,
il suo Paese ad un enorme flusso di investimenti esteri nel settore minerario,
ma non disdegnerà aiuti militari dalla Cina e dalla Corea del Nord, ed a metà
degli anni Settanta inizierà una disastrosa politica di nazionalizzazione nel
settore minerario, che gli allontanerà i favori del suo alleato occidentale, e
che sarà pagata da un declino economico immediato e dall’allungamento della
manomorta del FMI;
-
un richiamo all’identità culturale
africana, non vissuto però, come fecero Sankara o Nyerere, come richiamo a
forme di socializzazione comunitaria, ma come una africanizzazione soltanto di
facciata, che finisce quindi per assumere toni grotteschi (il Paese viene
ribattezzato Zaire, Mobutu si ribattezza con una espressione che significa “Il
grande guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa
fermarlo” e si fa vedere in pubblico con sontuose vesti in pelle di leopardo,
animale che secondo i Bantu simboleggia coraggio ed astuzia);
-
un culto della personalità associato ad
un consenso basato su legami etnici e tribali, e quindi inevitabilmente su una
catena di corruzione e nepotismo capillarmente diffusa in ogni ganglio della
società, e sul suo risvolto, ovvero una feroce repressione rispetto agli
esclusi da tale cerchia ristretta di privilegiati.
Il dittatore Mobutu
La fine di Mobutu e la prima
guerra congolese
Di fatto, all’ingresso degli anni
Novanta, Mobutu si ritrova in mano un Paese che non ha beneficiato di alcuna
modernizzazione nel suo assetto sociale, con un tasso di analfabetismo in
crescita, un impoverimento drammatico, con l’industria mineraria, l’unica a
fornire le risorse di esportazione, in rovina, dopo le nazionalizzazioni, un
debito pubblico alle stelle e la Banca centrale senza riserve, a causa delle
continue razzie di denaro pubblico del clan mobutista, un Pil che scende a
picco, e che nel 1994-1995 sfiora una decrescita di 15 punti percentuali
all’anno, una iperinflazione che genera una svalutazione mostruosa: se a
gennaio 1990 erano sufficienti 512,8 zaire per comprare un dollaro, a gennaio
1994 ce ne vogliono 355.500.000!! Il malcontento popolare diviene
inarrestabile, e nel 1990 il regime è costretto a reintrodurre il
multipartitismo, mentre lo stesso Mobutu, vecchio e stanco, si isola sempre più
nella sua sontuosa villa nella giungla.
Il puntello tradizionale del
regime mobustista, ovvero l’Esercito, si è dimostrato indisciplinato ed
inefficiente: durante la campagna militare contro la guerriglia comunista
angolana di Agostinho Neto, interi reparti dell’esercito disertano o si mettono
addirittura a combattere fra loro. Nel 1977, quando Neto promuove una
insurrezione secessionista nel Katanga, soltanto l’intervento congiunto di
Francia, Belgio, Marocco, Togo e Costo d’Avorio, sotto l’egida dell’ONU,
salverà Mobutu.
All’estero, poi, i suoi
tradizionali protettori, Francia e Belgio, lo abbandonano non appena, con la
caduta del muro di Berlino, non serve più avere gendarmi anticomunisti. In
questo modo, il grande guerriero che va di vittoria in vittoria senza che
nessuno possa fermarlo paga, nei confronti dei suoi protettori, le sue
ambiguità, le nazionalizzazioni di imprese minerarie occidentali, il suo
opportunismo politico e la sua megalomania.
Manca solo una piccola spinta per
far precipitare un regime oramai debolissimo. E questa spinta arriva da un
vicino dello Zaire, ovvero il Ruanda. Nel 1994, l’esplosione di questo Paese
genera un gigantesco flusso di profughi, soprattutto di etnia Hutu. Circa 2
milioni di persone entrano in un Paese, come lo Zaire, prostrato da una crisi
economica, sociale e sanitaria gravissima, facendo esplodere definitivamente la
situazione. Fra i profughi si trovano i membri della milizia Hutu Interahamwe,
che aveva preso parte al genocidio dei Tutsi ruandesi, armati di tutto punto ed
in cerca di sopravvivenza ed impunità.
Miliziani Interahamwe
La reazione del Governo Tutsi ruandese,
installatosi al potere dopo il genocidio grazie all’intervento dell’ONU, è
immediata: l’esercito governativo ruandese effettua continui raid nei campi
profughi Hutu dello Zaire, sia per scovare miliziani Interahamwe da uccidere,
sia soprattutto per razziare i profughi dei loro miseri averi, al fine di
contribuire a rimpolpare le casse vuote del Governo del Ruanda. D’altro canto,
gli Interahamwe rifugiati in Zaire, riorganizzatisi sotto la sigla RDR,
conducono analoghi raid punitivi contro le popolazioni ruandesi, usando i campi
profughi come basi logistiche.
Oramai la miccia per l’esplosione
dello Zaire è innestata, e nonostante la decisione criminale di Mobutu di
rimpatriare con la forza migliaia di profughi ruandesi, destinandoli a morte
certa, oramai l’est dello Zaire è presidiato stabilmente dall’esercito ruandese
e da milizie irregolari Interahamwe, e sfugge al controllo di Kinshasa. In
questo caos, la provincia orientale del Kivu meridionale diviene lo scenario
dell’ennesima rivolta anti-Mobutu. Quando il governatore mobutiano di tale
provincia ingiunge ai Banyamulenge, una etnia di origine ruandese, di
abbandonare il Paese, nel quadro delle espulsioni decise da Mobutu per tentare
di arginare il contagio allo Zaire dei fatti ruandesi, costoro si rifiutano e,
armati dal Governo Tutsi ruandese, il 7 ottobre 1996 iniziano a scambiare una
fitta sparatoria, a colpi di mortaio, con l’Esercito governativo dello Zaire,
sulle due rive del lago Kivu. Questo episodio è considerato l’inizio della
prima guerra del Congo.
Quasi immediatamente, i
Banyamulenge si uniscono all’opposizione armata anti-Mobutu, rappresentata
dall’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (AFDL).
L’AFDL è composta da residui della sinistra lumumbista ed altre sigle minori,
che rappresentano singoli gruppi etnici. E’ chiaramente una creatura del
Governo ruandese Tutsi e del Governo ugandese di Museveni, dittatore filo
occidentale interessato in modo particolare alle risorse diamantifere del
Paese.
Con l’assistenza militare
ruandese ed ugandese, l’AFDL inizia una campagna contro l’esercito dello Zaire
e contro le forze Hutu dell’RDR, basata su attacchi ai campi profughi dell’est
del Paese, sistematicamente distrutti. Migliaia di profughi vengono massacrati
sul posto, altre migliaia costretti a rifugiarsi nelle foreste, dove saranno
vittime di malattie, bestie feroci e fame. Come era prevedibile,
l’indisciplinato e demotivato Esercito governativo dello Zaire si dissolve
rapidamente ai primi combattimenti contro l’AFDL, mentre emerge, a capo dei
ribelli, la figura di Laurent-Désiré Kabila. Originario di un’altra provincia
tradizionalmente secessionista, il Katanga, estranea allo scenario del
conflitto, che riguarda le province orientali, Kabila negli anni Sessanta guida
una piccola milizia etnica, costituita da Lubas, alleata di Lumumba. Affarista
e trafficante, verrà definito come “un contrabbandiere, più che un
guerrigliero” da Che Guevara nel 1965. Dopo l’ascesa al potere definitiva di
Mobutu, Kabila sopravviverà nella foresta del Katanga, trafficando in diamanti.
Strage di bambini innocenti: l'immagine più emblematica della sporca guerra del Congo
Nel 1997 viene messo a capo
dell’AFDL dal Presidente ugandese Museveni, con il quale traffica in diamanti
da sempre, e provvede ad eliminare il suo rivale politico diretto, Kissasse
Ngandu. Sotto la guida di Kabila, il Nord ed il Sud Kivu vengono rapidamente
conquistati, ed i ribelli iniziano a volgere lo sguardo verso la capitale
Kinshasa. La marcia verso la capitale viene favorita dalla popolazione civile
che, stanca di Mobutu, accoglie i ribelli come liberatori, e dallo sfaldamento
definitivo dell’Esercito governativo. Il 17 maggio 1997 l’AFDL entra a
Kinshasa, Mobutu fugge in esilio e Kabila si autoproclama Presidente della
Repubblica. L’AFDL viene immediatamente proclamata nuovo esercito nazionale.
Fin dall’inizio, la prima guerra
congolese coinvolge altri Stati. Infatti, da un lato i ribelli dell’AFDL
possono contare sull’aiuto militare del Ruanda, del Burundi e dell’Uganda,
mentre dall’altro, Mobutu si fa spalleggiare dalla milizia angolana UNITA, che
in passato aveva aiutato a combattere contro i comunisti, oltre che dagli Hutu
ruandesi dell’RDR. Tale coinvolgimento di altri Paesi non è soltanto dovuto a
motivi etnici (i Governi del Ruanda e del Burundi entrano in conflitto per
spalleggiare i Banyamulenge, ovvero i Tutsi congolesi) ma soprattutto a motivi
economici: il governo ugandese è infatti interessato a mettere le mani sull’oro
e i diamanti,; il Governo ruandese di Paul Kagame è interessato a mettere le
mani sulle ricchezze del Congo per ripagare gli enormi debiti contratti durante
la guerra civile del 1994. Su tutto ciò, aleggiano gli interessi
imperialistici, soprattutto della Francia e degli USA, alleati sia di Museveni
che di Kagame, e che hanno volutamente lasciato l’AFDL rovesciare l’oramai
scomodo ex amico Mobutu, al fine di riprendere il controllo del Paese con
nuovi, ed auspicabilmente più presentabili ed affidabili, leader.
Laurent Désiré Kabila
Il breve governo di
Laurent-Désiré Kabila e la seconda guerra del Congo
Gli interessi esterni sul Paese
(ribattezzato nuovamente Repubblica Democratica del Congo) mettono alle corde
immediatamente il nuovo Governo di Kabila. Il suo tentativo di rendersi
autonomo dal Ruanda e dall’Uganda, che mantengono sul territorio del Congo
reparti dei propri eserciti, nonché di non farsi condizionare dai creditori
internazionali dell’enorme debito pubblico accumulato da Mobutu, che ora
pretendono il rimborso e quindi politiche economiche di estrema austerità, si
ritorce contro di lui: spuntano fuori accuse internazionali per il genocidio
dei profughi dei campi del Kivu, perpetrati nella prima fase della guerra, e
ben presto le sue pratiche di corruzione e nepotismo, del tutto identiche a
quelle di Mobutu, gli allontanano il favore dell’opposizione democratica,
diretta da Francia e Stati Uniti. Ma anche le componenti politiche nazionaliste
si allontanano rapidamente da Kabila, accusato di essere troppo
accondiscendente con i suoi protettori esterni, ugandesi e ruandesi.
D’altra parte, Kabila eredita un
Paese ingestibile: stremato dalla crisi economica indotta da Mobutu, ed
aggravata dalla guerra, il debito pubblico alle stelle, alimentato anche dalle
spese di guerra, le fragili infrastrutture di collegamento, specie verso l’est,
danneggiate, la rete sanitaria nazionale, già fragilissima, stressata da
migliaia di feriti di guerra e profughi, e le condizioni igieniche, già
critiche, che sono arrivate a punti di rottura, specie nelle province orientali
che hanno subito l’immigrazione dei profughi e la guerra. Intere aree del Paese
sono oramai fuori dal controllo del Governo di Kinshasa, specie le aree
minerarie più ricche: all’est, bande paramilitari costituite da Interahamwe
superstiti, ma anche da reparti dell’ex esercito governativo allo sbando, da
Banyamulenge e altri gruppi, imperversano, spesso attraversando tranquillamente
la frontiera con il Ruanda. Il Katanga ribolle, come suo solito, di
irredentismo, il nord est del Paese è presidiato dall’esercito ugandese, e su
altre regioni del Paese operano altre bande armate, spesso costituite da
componenti dell’ex esercito governativo mobutista.
Quando Kabila cerca di riprendere
in mano questa situazione oggettivamente ingestibile, tutto quanto esplode
nuovamente. A luglio 1998, cerca di liberarsi dell’influenza ugandese e
ruandese: sostituisce il capo di gabinetto ruandese con un congolese, ed ordina
alle truppe governative di Uganda e Ruanda di sloggiare dal Paese
immediatamente. I Banyamulenge, preoccupati dalla possibilità che la rottura
fra Kabila ed il Governo ruandese possa essere propedeutica ad un loro
isolamento, prendono le armi, scatenando la seconda guerra del Congo. Il 2
agosto 1998, i reparti governativi di etnia Banyamulenge stazionati a Goma (al
confine orientale con il Ruanda) si ribellano a Kinshasa, assistiti immediatamente
dal governo ruandese che mette in piedi una coalizione anti-Kabila, il
Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD) composto soprattutto da
Banyamulenge, e guidato da Ernest Wamba dia Wamba, che conquista gran parte
della zona mineraria orientale (Kivu). Approfittando della confusione,
l’esercito governativo ruandese entra in territorio congolese, occupando zone
del nord est.
Ribelli indipendentisti del Kivu durante la guerra
Kabila reagisce nel modo peggiore
possibile: per contrastare l’RCD, composto da Banyamulenge (quindi da Tutsi) e
l’esercito ruandese, anch’esso controllato da Tutsi, inizia a fomentare l’odio
contro questo gruppo etnico da parte degli Hutu residenti nel Congo, anche
mediante linciaggi pubblici nelle strade di Kinshasa. Ovviamente tale mossa
fornisce un alibi all’intervento militare ruandese in Congo, spacciato come
intervento umanitario a difesa delle popolazioni Tutsi.
L’Uganda, dal canto suo,
motivata, esattamente come il Ruanda, dal desiderio di spartirsi la ricchezza
mineraria congolese, sostiene un altro gruppo anti-kabila, il Mouvement de
Libération du Congo (MLC), guidato da Jean Pierre Bemba Gombo, uno dei pochi
criminali di questa sporca guerra che sono stati arrestati e processati. Le
truppe dell’MLC, appoggiate da reparti dell’esercito ugandese, prendono quindi
possesso del nord del Congo, scacciando i governativi.
Kabila sembra avere le ore
contate. In una manovra di accerchiamento, dopo aver conquistato l’est, l’RCD
prende possesso della base aerea della città occidentale di Kitona, sulla costa
atlantica, rafforzando questa testa di ponte con reparti governativi
ammutinati, e poi il 13 agosto conquista il complesso idroelettrico di Inga,
che alimenta la capitale Kinshasa, ed il porto commerciale di Matadi, dal quale
passa il grosso degli approvvigionamenti alimentari della capitale stessa.
Kabila si ritrova quindi circondato da ribelli, ad est, ovest e nord,
asserragliato in una capitale senza più rifornimenti elettrici ed alimentari. E
senza più il controllo sul grosso della ricchezza mineraria nazionale, che
potrebbe consentirgli di acquistare armi e mercenari per difendersi (il 23
agosto, infatti, cade nelle mani ribelli anche il grande centro diamantifero di
Kisangani). Più in generale, l’esercito di Kabila appare non molto diverso da
quello di Mobutu: poco disciplinato, poco combattivo, e con un comando
evidentemente impreparato a gestire una guerra contro dei movimenti di
guerriglia. Di converso, i ribelli Banyamulenge, tutti veterani della prima
guerra congolese, utilizzano con efficacia la guerriglia.
Tuttavia, se Kabila è un
mediocrissimo comandante militare, ciò non di meno si rivela un eccellente
politico. Già da fine agosto, con la sua capitale minacciata dai ribelli,
riesce a stringere un patto di assistenza militare con l’Angola, lo Zimbabwe,
la Namibia, il Ciad, la Libia ed il Sudan. Le ragioni dei singoli Paesi sono
diverse: l’Angola vuole cogliere l’occasione di intervenire in territorio
congolese per eliminare le basi della guerriglia UNITA localizzate nel sud del
Paese, e stipula anche un contratto in cui, in cambio dell’intervento militare,
avrebbe ricevuto una grossa partita di diamanti; lo Zimbabwe è attratto da
importanti concessioni minerarie che Kabila accorda alla famiglia del suo
dittatore, Mugabe, e dalla volontà di accreditarsi come piccola potenza
regionale; la Namibia è anch’essa “comprata” con promesse di concessioni
minerarie; il Ciad viene inviato a sostegno di Kabila dalla Francia, desiderosa
di riacquistare una influenza politica nell’Africa centrale, persa dopo il
terribile genocidio del Ruanda del 1994. La Libia di Gheddafi vuole uscire
dall’isolamento internazionale dopo i fatti di Lockerbie, e riprendere una
capacità di influenza sulla politica africana (alcune testimonianze parlano
anche di reparti speciali dell’esercito libico che operavano sul terreno; da
notare come Francia e Libia si siano trovate, in questo frangente, dalla stessa
parte, a sostegno di Kabila); il Sudan ha problemi con il Governo ugandese, che
sostiene i ribelli del Sudan People’s Liberation Army, ed interviene in Congo,
contro l’Uganda, per ritorsione. Oltre a cucire tale ragnatela di alleanze
internazionali, Kabila si allea con i gruppi armati Hutu nell’est del Paese,
che, nonostante il fatto che le province del Kivu siano sotto il controllo
dell’RCD, proseguono in una guerriglia fatta di attentati e sabotaggi, che
provoca danni alle linee logistiche ed ai rifornimenti del fronte avanzato dei
ribelli, diretto verso Kinshasa.
A settembre, le forze dello
Zimbabwe spezzano il fronte ribelle che sta accerchiando Kinshasa, finendo per
scontrarsi direttamente con gli eserciti regolari di Ruanda e Uganda. Grazie ad
accordi commerciali con compagnie diamantifere statunitensi, canadesi ed
israeliane, Kabila riesce a riarmare il suo esercito, ed a gennaio 1999 il
fronte di guerra, di fatto, si stabilizza: Kinshasa controlla l’ovest, il
centro ed il sud del Paese, le fazioni pro-Ruanda l’est, quelle pro-Uganda il
nord. Tale fronte, stabilizzatosi, si sbriciola in una miriade di
micro-scontri, nella giungla e nei villaggi.
Tale esito è una tragedia per le
popolazioni civili, poiché i diversi gruppi armati si insediano in varie
porzioni del territorio, esigendo tributi dai civili, depredandoli, praticando
lo stupro etnico, e avviando al conflitto con la forza migliaia di ragazzini, e
in questo modo creando una generazione che, una volta cresciuta, sarà abituata
a risolvere i problemi soltanto con la violenza (e quindi perpetrando anche nel
futuro lo stato di guerra civile in cui versa il Paese). Inoltre, il ristagnare
sul territorio di gruppi armati impedisce di far arrivare alle popolazioni
alimenti e cure mediche, portando la situazione igienica, sanitaria ed
alimentare verso la crisi finale. Nel 2001-2002, una epidemia di febbre
emorragica da virus Ebola uccide l’80% dei contagiati, prima ancora che le
autorità sanitarie ne sappiano qualcosa.
Bambini-soldato reclutati da una delle fazioni in lotta durante la guerra del Congo
Verso la fine del conflitto
Lo stallo nella linea del fronte,
però, comporta più vantaggi per Kabila. Infatti, i ribelli, non riuscendo più
ad avanzare verso la capitale, si logorano ed iniziano a combattere fra loro,
evidenziando come soltanto il fronte comune contro Kabila fungesse da collante
fra componenti caratterizzate da notevole ostilità reciproca. Quando Wamba dia
Wamba sposta il comando dell’RCD a Kisangani, considerata, dal presidente ugandese
Museveni, avido di diamanti, sua zona di influenza, quest’ultimo stipula un
accordo di cessate il fuoco con Kabila, tramite una mediazione condotta da
Gheddafi. Il Ruanda e l’RCD rifiutano di interrompere i combattimenti, rompendo
quindi il fronte comune con l’Uganda. Ma anche all’interno dell’RCD scoppiano
problemi: la posizione di egemonia dei Banyamulenge è mal tollerata dalle altre
fazioni, e a maggio 1999 si verifica uno scontro armato violento, tutto interno
all’RCD, a Kisangani, con la spaccatura in due.
A Luglio 1999, i ribelli, esausti
da una guerra che non riescono a vincere, e privati dell’appoggio
internazionale, addivengono ad un primo accordo di pace, firmato a Lusaka. Tale
accordo prevede il disarmo di tutti i gruppi armati che operano nel Paese, ma
il Governo ruandese fa il doppio gioco: da un lato, firma l’accordo di pace,
per evitare le critiche internazionali, e dall’altro induce i suoi controllati
dell’RCD a non firmare e continuare nelle ostilità. L’ONU stessa non mostra particolare
entusiasmo nel far rispettare l’accordo, dispiegando soltanto 90 funzionari di
collegamento, evidentemente troppo pochi rispetto alla situazione.
La verità è che il Ruanda non è
affatto soddisfatto della ripartizione ottenuta, poiché le aree diamantifere
sono sotto il controllo ugandese. E le tensioni fra Ruanda ed Uganda non
tardano a scoppiare. Ad agosto 1999, gli eserciti regolari dei due Paesi si
scontrano per il controllo del centro diamantifero di Kisangani. Kabila cerca,
con il supporto ugandese, di riconquistare il Paese, ma viene anticipato da una
larga offensiva delle forze ruandesi, che arrivano quasi fino a Kinshasa, prima
di essere richiamate, a causa delle proteste internazionali, orchestrate da
Francia e Stati Uniti, oramai stabilmente alleati di Kabila.
A Novembre, per proteggere il
Governo di Kabila, l’ONU autorizza l’invio di 5.500 caschi blu, la missione
MONUC. Ma le forze dell’ONU falliscono non soltanto nel tentativo di disarmare
i ribelli, ma anche in quello di evitare nuovi scontri. In particolare, Uganda
e Ruanda si scontrano ancora, durante la guerra dei 6 giorni, per il controllo
dello strategico centro di Kisangani, ad inizio di Giugno del 2000,
distruggendo completamente ciò che restava della città, e facendo 1.000 morti e
3.000 feriti. Ad Agosto 2000, Kabila si volge nuovamente contro l’Uganda, e
lancia una offensiva, che sarà fermata, in una battaglia sanguinosa, lungo il
fiume Ubangui, dalle forze filo ugandesi dell’MLC.
La città di Kisangani distrutta dopo la guerra dei 6 giorni
A Gennaio 2001, Kabila viene
assassinato da una sua guardia del corpo. I mandanti sono a tutt’oggi ignoti,
ma vi è chi sospetta che ad ucciderlo siano stati proprio i suoi più diretti
collaboratori, stanchi di promesse non mantenute circa la democratizzazione del
Paese, e dei continui cambiamenti di fronti ed alleanze. Ma è invece probabile
che ad ucciderlo sia stata una trama di compagnie diamantifere internazionali,
che durante la guerra sfruttano illegalmente le miniere, e che vogliono far
terminare il conflitto, per passare ad uno sfruttamento legalizzato e pacifico.
Kabila si è infatti dimostrato palesemente incapace di pacificare il Paese o di
riprenderlo sotto il suo controllo diretto, ed è dunque divenuto un ostacolo.
A dimostrazione di tale tesi, vi
è che il figlio Joseph, che subentra al defunto padre come presidente della
repubblica, si dà immediatamente da fare per pacificare il Paese, onde evitare
di finire ucciso anche lui. Incontra infatti il presidente ruandese Kagame, al
fine di avviare colloqui di pace. Significativamente lo incontra negli Stati
Uniti, a dimostrazione del fatto che l’amministrazione USA, per conto delle
multinazionali minerarie a stelle e strisce, è interessata ad un ritorno alla
pace, per meglio mungere le risorse del Congo. Si trova quasi subito un
accordo, sia pur nominale, su un piano dell’ONU, ed a febbraio Uganda e Ruanda
iniziano il ritiro delle rispettive truppe. L’accordo di Sun City del 19 aprile
2002 stabilisce una road map verso elezioni multipartitiche ed un Governo di
transizione. L’accordo di pace del 30 luglio 2002, a Pretoria,
stabilisce il ritiro di circa 20.000 militari ruandesi ancora presenti sul
territorio congolese, ma inizialmente non viene rispettato, poiché il governo
ruandese pone, come condizione, il previo smantellamento delle milizie Hutu Interahamwe
ancora attive nell’est del Congo, e ciò si rivela impossibile.
Solo ad ottobre 2002, sotto la
pressione dell’ONU, il Ruanda ritira i propri soldati, seguito dall’Uganda. Il
17 Dicembre 2002 viene stipulato un accordo fra tutte le parti belligeranti
interne al Paese per stabilire con maggior dettaglio il percorso verso la
democrazia. Questa data è considerata la fine ufficiale della seconda guerra
del Congo.
Joseph Kabila
La RDC dopo la guerra
La guerra ha lasciato un’eredità
pesantissima. Si stimano fra i 3,4 ed i 4,4 milioni di morti (praticamente si
tratta del conflitto più sanguinoso dalla fine della seconda guerra mondiale),
l’80% dei quali per malnutrizione e malattie indotte dalla guerra. Circa 3,4
milioni di civili si sono spostati all’interno dei confini del Paese, dopo aver
perso tutti i loro averi, trasformandosi in profughi interni ed altri 2 milioni
si sono rifugiati nei Paesi confinanti. Almeno 40.000 donne risultano vittime
di stupri, condotti per finalità etniche. Decine di migliaia di bambini hanno
combattuto ed ucciso, e ne escono devastati nel corpo e nella psiche,
irrecuperabili per la società, spesso trasformati in bande di delinquenti di
strada, o distrutti dall’assunzione di droghe ed alcool. Per via degli stupri,
della malnutrizione, dell’impoverimento, dello spostamento continuo di truppe e
profughi da una regione all’altra, della distruzione delle infrastrutture
logistiche, idriche e sanitarie, malattie come l’Aids, l’Ebola, il tifo, il
colera, la sifilide, sono endemiche.
Un campo profughi nel Kivu
Fame e malattie indotte dalla guerra hanno ucciso milioni di civili, più che negli scontri a fuoco
La già debolissima economia
congolese ne esce completamente distrutta. Il Pil pro capite è attorno a 300
dollari, il che colloca il Paese ad un modestissimo 226-mo posto nel mondo. Il
tasso di accumulazione è risibile, non raggiungendo il 24% del PIL, a causa
dell’enorme fuoriuscita di capitali, soprattutto esteri, causata dalla guerra.
Il 71% della popolazione vive al di sotto della linea di povertà. La speranza
di vita alla nascita non raggiunge i 56 anni, ed il Paese è fra i primi 13 al
mondo per mortalità infantile. Solo il 23% della popolazione ha accesso a reti
fognarie decenti, solo il 46% ad acqua potabile igienicamente sicura. Quasi il
30% dei bambini con meno di 5 anni è sottopeso. La rete infrastrutturale, in
particolare verso le aree minerarie dell’est, è distrutta.
Villaggio congolese distrutto dopo il passaggio della soldataglia
La violenza che caratterizza il
Paese non si è fermata. Gruppi armati continuano ad operare tranquillamente.
Nel 2003 scoppia una nuova guerra, ancora una volta nella regione mineraria
orientale del Kivu. Il Governo transitorio, infatti, stipula contratti minerari
con la Cina, per lo sfruttamento del coltan (minerale fondamentale nella
costruzione di processori elettronici) a condizioni più vantaggiose, per il
Paese, di quelli preesistenti con compagnie europee e statunitensi. Quasi
immediatamente, nella provincia del Nord Kivu si verifica un ammutinamento
dell’esercito, guidato da un ex combattente dell’RCD, entrato poi nelle forze
armate governative in base agli accordi di pace, il generale Laurent Nkunda.
Gli ammutinati, tutti ex combattenti dell’RCD, sostenuti dalle compagnie
estrattive occidentali estromesse dagli accordi con la Cina (quasi tutte
anglosassoni, belghe, tedesche e svizzere, come verrrà confermato dal rapporto
dell’IPIS del 2008), si nascondono nelle foreste e nel 2004 attaccano i reparti
dell’esercito governativo stanziati nella città di Bukavu, nel Sud Kivu,
occupandola ed abbandonandosi ad un massacro di civili, per poi ritirarsi
nuovamente nelle foreste. Nel 2006, con la colpevolissima neutralità dei caschi
blu della missione dell’ONU, che arrivano a dichiarare Nkunda “innocuo per le
popolazioni locali” (nonostante i ben documentati massacri da lui compiuti a
Bukavu due anni prima) questi attacca nuovamente l’esercito regolare,
ingaggiando sanguinosi scontri attorno alla città di Sake.
A Nkunda è consentito di
aumentare ancora i suoi effettivi, e di attaccare nuovamente le forze governative
nel 2007. Solo alla metà di tale anno, infatti, gli Stati Uniti ufficializzano
il loro appoggio a Kabila junior e quindi l’ONU dichiara ufficialmente che
Nkunda è una minaccia per la stabilità della Repubblica Democratica del Congo
(rimangiandosi quanto detto l’anno prima). Solo in tale anno, di fronte ai
continui attacchi di Nkunda ed a documentati arruolamenti di bambini-soldato da
parte di quest’ultimo, le forze ONU aiutano l’esercito governativo a
schiacciarlo. Ma per poterlo fare, Kabila junior dovrà stipulare nuovi accordi
con le milizie Hutu presenti nel Kivu, di fatto legittimandone l’esistenza. I
combattimenti, sanguinosissimi, vedono però i 4.000 miliziani di Nkunda
riportare numerose vittorie sui 20.000 soldati dell’esercito governativo i quali,
nonostante l’appoggio aereo e di artiglieria fornito dai caschi blu, riportano
perdite umane pesantissime. Nkunda, inoltre, riesce a mettere le mani su enormi
stock di materiale bellico rubato all’esercito regolare ed a conquistare alcune
città del Nord Kivu. Solo alla fine del 2009, e grazie all’improvviso
voltafaccia del governo ruandese, fino a quel momento alleato di Nkunda
(voltafaccia indotto ovviamente dalle pressioni degli USA e della Francia)
quest’ultimo viene arrestato. La guerra del Kivu, fra 2005 e 2009, farà altre
decine di migliaia di morti (quasi per il 100% civili) ed ulteriori centinaia
di migliaia di profughi.
Vittime civili della guerra contro Nkunda
L’est continua ad essere
funestato, ad oggi, da milizie Mai Mai Hutu sostenute dal Ruanda (come la FDLR)
e che raccolgono i componenti delle vecchie milizie Interahamwe, così come, nel
nord est, si registra la presenza del brutale movimento guerrigliero LRA
(Lord’s Resistance Army), un gruppo armato di fondamentalisti cattolici, che,
dopo essere stato sconfitto in Uganda, si è ritirato nel territorio della
Repubblica Democratica del Congo, seminando morte e terrore fra i civili (si
stima che, da quando l’LRA si è stabilito nel nord est della Repubblica
Democratica del Congo, cioè dal 2007, quasi 2.000 civili siano stati uccisi,
900 bambini costretti ad arruolarsi, e 390.000 profughi siano fuggiti).
I gruppi armati sono ancora ben
installati in determinati territori, e ne sfruttano ogni risorsa, taglieggiando
l’agricoltura, arruolando di forza uomini e bambini, ma soprattutto gestendo i
siti minerari, ovviamente in nome e per conto di compagnie minerarie straniere,
che usano tali gruppi armati come loro terminali locali. Nonostante l’embargo
sulle armi e la presenza dei caschi blu, nel 2009 si contano circa 40.000
kalashnikov nel solo Nord Kivu.
Alla violenza dei gruppi armati
si aggiunge quella politica. Nel 2004, un gruppo di nostalgici di Mobutu, tenta
un colpo di Stato, e viene sconfitto dai lealisti. Nel corso delle elezioni
presidenziali del 2006, i sostenitori di Kabila junior e del suo rivale Bemba
si sfidano con armi pesanti nel pieno centro di Kinshasa. A Febbraio 2011, si
verifica un nuovo tentativo, fallito, di colpo di Stato.
Gli assetti sociali del Paese
oggi
Il Paese è devastato socialmente.
Si stimano, al 2010, 1,5 milioni di profughi, totalmente sradicati dalle loro
terre e dalle loro comunità tribali, e quindi trasformati in vagabondi senza
speranza. I giovani, senza prospettive, si arruolano in massa nei gruppi armati
Mai Mai, che offrono soldi facili, riconoscimento sociale, ed anche una
struttura relazionale basata su legami di tipo egualitaristico, assente nelle
tradizionali comunità tribali gerarchizzate. I bambini vengono regolarmente
tolti dalle scuole ed inseriti in una vita di violenza e sangue, dove l’unica
cosa che imparano è uccidere per non essere uccisi, mentre il tasso di
analfabetismo tocca il 33% della popolazione di 15 anni e più, con punte del
47% nelle province più militarizzate, come il Kivu.
I profughi interni al Congo generati dalle guerre e sradicati: un problema irrisolvibile
Lo sradicamento dalle comunità
tradizionali, dovuto alla fuga o all’arruolamento in qualche gruppo armato,
toglie braccia preziose all’agricoltura, in un Paese in cui milioni di persone
sono denutrite, spezza i legami sociali tradizionali, creando centinaia di
migliaia di emarginati, che si urbanizzano in bidonville, senza opportunità di
lavoro decente, e divengono a loro volta vittime e reclute per ogni sorta di
criminalità. La tradizionale autorità degli anziani e dei genitori, che teneva
insieme la struttura sociale tribale, viene meno, in favore di un crescente
individualismo ed opportunismo, che a sua volta alimenta la criminalità e la
corruzione. L’aver vissuto per anni in un clima di morte e violenza educa alla
via delle armi come unico metodo per risolvere i problemi.
Le istituzioni pubbliche sono poco
autorevoli agli occhi dei cittadini, poiché ancora macchiate da nepotismo e
corruzione. D’altra parte, non vi sono avanzamenti significativi verso una
democratizzazione del Paese. Joseph Kabila è ancora al potere, dopo 11 anni, ed
è stato rieletto nel 2011,
in una tornata elettorale con forti sospetti di brogli,
dopo essersi ritagliato una nuova Costituzione ad hoc, ed aver costruito il suo
supporto su legami etnico-tribali e su una incredibile rivalutazione storica
del colonialismo belga. L’Esercito nazionale è fragilissimo, a causa della
lunga pratica di integrare al suo interno, ad ogni accordo di pace, i gruppi
ribelli, facendo sì che oggi, esso sia un mosaico costituito da più di 80
gruppi armati, che hanno mantenuto la loro autonomia.
Questo sventurato Paese paga, in
definitiva, tutte le tragedie tipiche dell’Africa: imperialismo, sfruttamento
di risorse naturali ricchissime, miseria, guerre e violenze, malattie,
corruzione ed autoritarismo, nepotismo tribale, sradicamento dei legami sociali
tradizionali in nome di una modernità dai risvolti negativi, ingiustizia
sociale. In fondo, paga per un processo di decolonizzazione che ha disegnato
sulla carta uno Stato inesistente, facendolo sorgere artificiosamente da un
insieme conflittuale di più di 200 etnie, imponendogli forme statuali e
politiche occidentali, assolutamente inadeguate per la tradizionale cultura di
clan e di etnia, ed una influenza imperialistica successiva devastante. Paga,
come tutta l’Africa, per essere stato gettato nel capitalismo senza averne le
strutture sociali e di classe, finendo quindi per trasformarsi in una mera
terra di conquista per interessi economici esterni, con la fragilissima piccola
borghesia formatasi in epoca coloniale, incaricata di svolgere il ruolo di
borghesia compradora.
Oggi, la struttura sociale di
questo Paese appare come una piramide, al netto delle poche aree in cui ancora
resistono i tradizionali legami etnici e di clan. Al vertice di tale piramide
si situano i leader militari dei vari gruppi armati, a loro volta organizzati
su base etnica, e la ristrettissima borghesia compradora che occupa i ranghi
politici e dell’amministrazione. Alla base, si colloca un proletariato,
occupato soprattutto nell’industria estrattiva ed alimentare e nell’agricoltura,
che non ha una borghesia nazionale contro la quale misurarsi, poiché i centri
di controllo dell’economia sono localizzati al di fuori del Paese e dello
stesso continente, e che quindi non ha modo di acquisire coscienza di classe,
ed un enorme sottoproletariato, alimentato dalla guerra, sradicato dal suo modo
di vita tradizionale, ma al tempo stesso non inserito in alcun modo di
produzione alternativo, abbandonato all’assistenza internazionale nei campi
profughi oppure ad una vita di stenti e lavoretti precari nelle bidonvilles, e
quindi privato di qualsiasi identità sociale. I vertici militari dei gruppi
armati hanno distrutto il modo di produzione tradizionale, sostituendolo non
con rapporti sociali di produzione più avanzati, ma con una mera economia di
rapina, basata sullo sfruttamento predatorio delle risorse delle aree sotto il
controllo della banda armata.
Ancora oggi, i gruppi armati imperversano in tutto il Paese
In questo modo, la società
congolese si ritrova impantanata in una terra di mezzo: sradicata dal suo modo
di produzione tradizionale, ed impossibilitata a tornarvi, ed al tempo stesso
privata della possibilità di evolvere verso modi di produzione moderni, poiché
dominata da aristocrazie guerrigliere e funzionariali che la mantengono
all’interno di modi di produzione basati, per utilizzare i termini dell'analisi
di C. Moffa (1993), sul conflitto interetnico per il controllo e lo
sfruttamento delle risorse del territorio, in cui, all'interno dei rapporti fra
clan, si riproducono forme di sfruttamento fra una aristocrazia dominante,
definita su base etnica, ed i clan dominati e depredati. Tale modo di
produzione basato sul conflitto interetnico per
lo sfruttamento delle risorse del territorio è poi mescolato
all'imperialismo esterno, con gli stessi soggetti (i capi militari dei gruppi
armati a base etnica, ed i loro addentellati nella borghesia urbana compradora)
che fungono da sfruttatori dei clan sottomessi, e da cinghie di trasmissione
degli interessi imperialistici.
Il proletariato congolese schiavizzato nelle miniere del Kivu, per il guadagno delle multinazionali
Tale particolare forma assunta
dal modo di produzione africano, come dimostra sempre Moffa, è la radice di un sottosviluppo persistente, e dal
quale non sembrano esservi vie d'uscita, poiché impedisce qualsiasi evoluzione
ed ammodernamento dei rapporti sociali di produzione. Questa situazione senza
sbocchi è in larga misura il frutto dell'imperialismo occidentale. E non ci
sono aiuti allo sviluppo, o carità da parte delle Ong, che possa compensare il
popolo congolese per essere stato derubato della sua storia e del suo futuro.
Questa tragedia è stata motivata dalla avidità di minerali preziosi, fra i quali il coltan che serve per costruire i nostri personal computer
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