IN VIAGGIO CON RYSZARD
di
Norberto Fragiacomo
Mi pare che mi trovassi proprio a Varsavia, in quel gelido principio del 2007, mentre in una sala operatoria della capitale il cuore generoso di Ryszard Kapuściński cedeva all’improvviso, sotto i ferri del chirurgo. Grave perdita per l’affezionato lettore, a quattro anni appena da quella altrettanto dolorosa di Tiziano Terzani.
La parola, il pensiero, le riflessioni, per fortuna, durano più dell’uomo, e così ieri – nell’asettica libreria di Stazione Termini – mi sono imbattuto nel vecchio reporter polacco. Il libro, pubblicato in Italia nel 2011, ha un titolo evocativo (“Cristo con il fucile in spalla”), e ci presenta, in copertina, un’immagine potente di Camilo Cienfuegos, sguardo assorto, barba messianica e fucile in mano; ma le pagine, che mi hanno fatto compagnia mentre la freccia attraversava spedita i verdi paesaggi del centro Italia e le balze dell’Appennino, sono finestre su paesi lontani, visti con l’occhio limpido di un uomo coerente e sensibile. Sì, perché di Kapuściński colpisce questo: il rifiuto istintivo di inforcare occhiali ideologici, l’onestà intellettuale e spirituale, lo sforzo inesausto di capire, condizione necessaria per poter (poi) spiegare il mondo a chi legge. Sembra una cosa scontata, ma non lo è, specie se si considera che il nostro faceva l’inviato per l’agenzia di stampa della Polonia comunista, e che il periodo era quello della Guerra Fredda – specie se si considera che, più in generale, il giornalista medio, anche nell’Occidente sedicente “libero e democratico” cerca, per fini di guadagno, di anticipare i desideri di direttori e lobby di riferimento, più che di offrire un punto di vista personale.
Cristo con il fucile in spalla… ha la barba e le facce ossute di giovanissimi fedayn palestinesi votati alla morte, di romantici cavalieri sudamericani dell’ideale, di un guerrigliero diciottenne della Frelimo mozambicana che, dopo la Rivoluzione dei garofani (una rivoluzione vera e schietta, oggi cancellata dall’ingordigia capitalista nel Portogallo ammazzato dai delinquenti della troika), pattuglia le strade fianco a fianco con un soldatino portoghese. Sorprende e affascina, del nostro Ryszard, la volontà di intendere cause e ragioni, di non accontentarsi mai di verità precotte – ma ciò che lo rende unico è quel malinconico lirismo, tipicamente polacco, che, come una luce bassa, ma diffusa, illumina la scena e le vicende dei protagonisti. Ed ecco sfilarci davanti palestinesi giovani e anziani, che nelle fatiscenti tendopoli esposte alla furia israeliana, provano a restare umani aggrappandosi al ricordo di un villaggio o di un campo di grano; guerriglieri adolescenti che, più per dignità che per odio, tentano di restituire la pariglia a un nemico strapotente, evitando però di far torto ai vecchi ebrei palestinesi, in cui vedono fratelli (quasi) altrettanto angariati dal totalitarismo sionista; alla fine, in un miserabile bar all’aperto lungo la carrozzabile, assistiamo ad un dibattito sul futuro tra palestinesi appartenenti a generazioni diverse, fra realismo politico e rabbia per l’ingiustizia subita. Kapuściński ascolta e prende nota perché, ci assicura, “in mezzo a un gruppo di persone che discute, il palestinese si riconosce a prima vista poiché dice sempre cose valide e interessanti anche quando non ha ragione (pag. 40).” A volte il racconto, la cronaca scivolano improvvisamente nella poesia, come quando – al tramonto – il nostro scorge “un pastore, un uomo alto con una veste fino ai piedi, il volto intento e la barbetta bionda. Una di quelle figure che in Europa si vedono sulle vetrate (pag. 39).”
L’umanità del reporter – anzi, no: del poeta – è racchiusa in frasi come questa, desolata, commovente e amara: “Sulla sabbia in riva al mare stavo seduto accanto al fedayn Ahmed Shury di Bet Shemesh. Accanto a noi, sulla chiglia di una barca rovesciata, sedevano i fedayn Kamal Bakr di Gerico, Hassan Khatib di Ramallah e Zahir Saadeh di Balatah. Trascrivo i loro nomi per ricordarli, perché può darsi che quei ragazzi non siano più vivi (pag. 25).”
In effetti, questa raccolta di articoli svela – come promette la quarta di copertina – “la visione del mondo (di Kapuściński), la sua sensibilità sociale e la sua empatia come metodo di scrittura e attitudine”, e chi vi cercherà un criptodissidente, o un ammiratore del sistema occidentale, resterà certamente deluso. Perché il polacco è, per l’appunto, uno spirito libero, un uomo che riflette e sdegna le briglie ideologiche; e se si concederà, anni più tardi, una documentatissima critica al vetriolo del sistema sovietico (in Imperium), lo sguardo che egli posa sull’universo capitalista è colmo di indignazione.
“Perché è stato ucciso Karl von Spreti” è un lungo reportage su un paese dimenticato, il Guatemala, balzato agli “onori” delle cronache per il rapimento e l’uccisione, da parte dei guerriglieri di sinistra, dell’ambasciatore tedesco occidentale. L’evento, ammonisce il giornalista, è la conseguenza necessaria di una serie di concause, risalenti in parte al secolo precedente. Kapuściński indaga, approfondisce, valuta, racconta – e ci regala, con la maestria di uno storico classico, una galleria di mostri, di dittatori alcolizzati e sanguinari, analfabeti e corrotti. Dietro di loro, infinitamente sopra di loro, il potere osceno della United Fruit nordamericana e dell’Ambasciata per eccellenza, quella a stelle e strisce – uomini, o demoni (l’ambasciatore John Puerifoy, il sinistro Foster Dulles) privi di remore e scrupoli, determinati a punire un presidente onesto e niente affatto comunista – il povero Arbenz – per l’imperdonabile colpa di aver osato sognare un paio di scarpe per ogni bimbo guatemalteco, e di aver strappato (pagandolo pure) un pugno di terre incolte all’avida multinazionale. Il presidente si arrende, abbandonato da tutti, e attraversa le strade della capitale avvolto in una bandiera messicana, onde evitare che gli sputi dei mercenari armati dalla CIA si trasformino in pallottole e sassi. L’epilogo del film è di una tristezza infinita, squarciata da un lampo di dignità umana: “Gli uomini della colonna di Armas (l’assassino al soldo degli yankee) si avvicinarono al presidente e gli imposero di denudarsi. Arbenz cominciò a spogliarsi. La folla urlava e fischiava. Arbenz rimase in mutande e non lasciò che gliele togliessero. (…) Ancora oggi Arbenz continua a vagare per il mondo. Tace, non concede interviste, non rilascia dichiarazioni. (…) Ma ogni tanto qualche fotografo riesce a rubare uno scatto e allora sui giornali compare la faccia oblunga di Arbenz, l’uomo che ha osato spezzare il silenzio necessario alle banane della United Fruit, e che era comunista perché voleva che ogni bambino del Guatemala avesse un paio di scarpe (pag. 122).”
Dignità: è questa la parola chiave, il filo rosso che attraversa vicende distanti nello spazio e nel tempo, il messaggio di Ryszard il polacco. La dignità dei giovani idealisti che, con poche armi e senza speranza, si ribellano in Sud e Centroamerica all’ottusa crudeltà dei colonnelli dai baffetti sottili e dei loro onnipossenti mandanti, e vanno a morire nella selva dopo aver dedicato un ultimo, romantico pensiero all’innamorata che li attenderà invano.
Contro il potere disumano si erge allora, in tutta la sua disperata grandezza, l’Uomo cantato da Kapuściński. Alla domanda, per lui insensata, se avesse ragione Guevara o Salvador Allende, lo scrittore risponde con impeto: “l’avevano entrambi. Hanno agito in circostanze diverse, ma lo scopo della loro azione era il medesimo. Hanno commesso errori? Risposta: erano esseri umani. Entrambi hanno scritto il primo capitolo della storia rivoluzionaria dell’America Latina. Una storia che è appena agli inizi, che si sta appena creando (pag. 169).”
Queste le riflessioni, questo il testamento di uno spirito libero e illuminato, che nella Polonia dominata dall’imperialismo russo aveva, in fondo, potuto calzare scarpe, studiare ed esprimersi – possibilità negata ai servi incatenati alla terra, alla paura e all’ignoranza nei feudi di zio Sam.
Più di altri e meglio di altri Ryszard Kapuściński ha saputo osservare da vicino la lotta incessante tra ingordigia e nobiltà umana e, senza mai rinunciare al dubbio, si è sempre schierato dalla parte giusta. Quella sbagliata è facile da riconoscere, se ci strappiamo dagli occhi la benda della propaganda hollywoodiana: il male che minaccia la civiltà è il nazional-capitalismo americano (quello che, prima di trovare in Milton Friedman il suo Alfred Rosenberg, è stato mirabilmente descritto da Graham Greene), oggi come cinquanta e cento anni orsono.
Fosse ancora tra noi, lo farebbe anche oggi il polacco, lacerando, a colpi di frasi, la cortina di ipocrisia e menzogne tessuta da tanti suoi “colleghi”, disponibili – per qualche soldo e una carriera senza meriti – ad imbrattare concetti come libertà, democrazia e diritti umani.
Lui però appartiene ormai alla Storia, a quella che ha saputo narrare con la curiosità e l’ansia di comprendere che, duemilacinquecento anni prima, avevano animato il suo modello, Erodoto il viaggiatore.
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