LA CONCLUSIONE DI UN CICLO. UN CONTRIBUTO DI ANALISI STORICO – POLITICA PER IL CONGRESSO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA
di Franco Astengo
Un punto di premessa
La scelta che traspare dalla lettura dei documenti preparatori al congresso di Rifondazione Comunista appare quella di una sostanziale conservazione di equilibri che ormai non corrispondono, definitivamente più alla realtà della situazione politica e sociale europea e italiana. Un partito stretto tra alcuni “ismi” del tutto negativi: elettoralismo, governativismo (in ispecie ormai ridotto a livello locale e per questo particolarmente deleterio), movimentismo. Un partito che esaurisce in questo modo il proprio ciclo, senza porsi il tema di fondo della soggettività che davvero servirebbe alla sinistra italiana.
Il dato fondamentale che, a mio giudizio, è ancora necessario portare avanti rimane quello della autonomia ideologica, culturale, politica, di una sinistra chiaramente determinata sui terreni dell’alternativa e dell’opposizione.
Genesi e consolidamento del Partito della Rifondazione Comunista
Il Partito della Rifondazione Comunista è nato, nel 1991 a seguito di contingenze storiche che riteniamo davvero di non dover riassumere in quest’occasione, e si è successivamente consolidato come una struttura funzionante in modo assolutamente preminente, secondo la logica dell’identità.
E’ stato nel periodo compreso tra il Settembre del 1990 (convegno di Arco di Trento) e gennaio 1991 (congresso di Rimini) che i leader e le frazioni più decisamente a favore della scissione stabiliscono le alleanze, sulle quali si fonderà il primo gruppo dirigente di Rifondazione Comunista. In questa fase si sono strutturati i modelli di interazione e di conflitto dominanti in quello che poi è stato il gruppo dirigente del Partito della Rifondazione Comunista, perché fu già in questo passaggio che le risorse politiche fondamentali, in mano a ciascun attore, iniziarono a definirsi.
Da un lato, Cossutta possedeva un suo capitale “politico – organizzativo” personale, rappresentato dal controllo della rete organizzativa costituita in più di dieci anni di attività frazionistica svolta all’interno del PCI.
In quel 1991 tutti i componenti del gruppo dirigente del Movimento per la Rifondazione Comunista erano consapevoli che la rete organizzativa personale di Cossutta, avrebbe rappresentato la componente fondamentale su cui avrebbe dovuto, per forza di cose, fondarsi la nuova organizzazione.
Al tempo stesso, le risorse in mano al leader dell’ex-componente filosovietica dell’ex – PCI risultavano poco spendibili all’esterno, per il ristretto spazio politico occupato.
Cossutta controllava una rete organizzativa molto strutturata, ma con una base di massa ristretta e, inoltre, presentava il grosso handicap di un’immagine troppo connotata in senso conservatore.
Al contrario, quella parte dell’ex-mozione del “no” che aveva fatto la scelta della scissione appariva molto meno coesa e organizzata (soprattutto nei rapporti centro – periferia) ma si caratterizzava per un’area di consenso potenzialmente molto più vasta di quella cossuttiana.
In definitiva i dirigenti provenienti dalla ex-mozione del “no” controllavano l’area di incertezza concernente i rapporti con l’ambiente esterno: da essi dipendeva la chance di sviluppo del movimento verso l’esterno.
Al contrario le aree di incertezza controllate dai cossuttiani attenevano tutte al controllo della struttura organizzativa.
Dopo la costituzione del primo nucleo del futuro gruppo dirigente, il processo per aggregazione del nuovo partito previde altri due passaggi: nel giugno 1991 si aggregò Democrazia Proletaria, mentre entro l’ottobre dello stesso anno aderirono anche un gruppo di quadri dell’ex-PdUP.
Assemblato, a questo punto, il gruppo fondatore dell’organizzazione, il Movimento sviluppò le proprie strutture in periferia, sul territorio, attraverso la costituzione prevalentemente spontanea delle unità di base, i circoli.
Possiamo individuare tre modalità tipiche nel processo di formazione dei circoli, la spontaneità, la fusione e la scissione.
La spontaneità prevaleva soprattutto in quelle realtà in cui lo scontro tra mozioni interne al PCI era stato più acceso, e spesso aveva visto prevalere gli oppositori alla svolta.
La seconda modalità, che abbiamo definito di fusione, non si caratterizzò per un moto di adesione spontaneo ma per l’unificazione di gruppi di militanti, già dotati di proprie risorse organizzative.
Spesso il processo di fondazione dei circoli avvenne, invece, a seguito di una vera e propria scissione, organizzata e pianificata localmente.
In questo caso i circoli non si costituirono immediatamente, ma soltanto nel momento in cui le leadership locali decidevano di staccarsi, trascinando con sé un seguito di massa (l’esatto contrario di quello che accadde a Savona, dove il “no” aveva prevalso, ma i dirigenti non seppero trovare l’occasione e/o la volontà per un’operazione del tipo di quella appena descritta).
Dunque i circoli nati per “scissione” erano quelli posti in continuità “con la natura del partito di massa popolare, fortemente disciplinato e gerarchizzato, che aveva caratterizzato il PCI, in particolar modo nelle zone in cui la subcultura socialista aveva, storicamente, assunto un carattere prevalentemente occupazionale e di classe.
Riassumendo, possiamo identificare tre tratti caratteristici del modello genetico del Partito della Rifondazione Comunista.
Primo, la modalità genetica prevalente appare quella della diffusione, sebbene nella versione particolare della fusione di reti organizzative nazionali.
Secondo, la centralità degli incentivi d’identità a base ideologica come veicolo principale di mobilitazione del sostegno alla neonata organizzazione da parte della leadership fondatrice.
Terzo, il modello cui si ispirava la struttura direttiva originaria era principalmente quello della “democrazia di partito”, con una struttura di potere fondata sulla grande risorsa della militanza, nell’economia dell’organizzazione.
Il consolidamento dell’organizzazione e la competizione maggioritaria
La struttura organizzata realizzata nella fase di avvio, fu considerata dal gruppo dirigente sufficientemente solida per il passaggio dalla fase di Movimento a quella di costituzione del Partito.
Il I Congresso segnò così il punto di passaggio e le elezioni del 1992, con la definizione del proprio terreno di caccia, sancirono il processo di instaurazione organizzativa.
Le elezioni politiche del 1992 segnarono, per il Partito della Rifondazione Comunista, lo “status” di legittimo erede di una parte dell’eredità comunista in Italia, con un processo di exit dell’elettorato del PCI verso Rifondazione, inversamente proporzionale alla forza dell’insediamento sociale del vecchio PCI.
Il Partito della Rifondazione Comunista iniziò così un’opera di consolidamento della propria organizzazione centrale e di sviluppo periferico stimolato dal centro.
Ma la struttura divisa e instabile della coalizione dominante che reggeva il partito, in quella fase, esplicò i suoi effetti destabilizzanti, allorché il mutamento delle regole elettorali si configurò all’orizzonte, come una sfida che poteva mettere in pericolo la stessa sopravvivenza istituzionale dell’organizzazione.
Di fronte alla leadership si pose il problema dell’adattamento rispetto al nuovo scenario proposto dal maggioritario.
Le elezioni amministrative del 1993, le prime svoltesi con il nuovo sistema maggioritario e nel pieno dell’effetto “Tangentopoli”, registrarono un forte balzo in avanti del Partito nelle grandi città del Nord.
L’improvviso (e insperato) successo, mise in crisi l’organizzazione, provocando la spaccatura del gruppo dirigente sul tema della politica delle alleanze.
Il successivo congresso pose, in modo esplicito, il dilemma tra la tutela dell’identità e l’inserimento nel gioco della competizione maggioritaria.
Tra il Dicembre 1993 e il Gennaio 1994 il gruppo dirigente centrale raggiunse il massimo della divisione interna, proprio attorno al nodo “Identità/competizione”: da un lato si poneva in campo un’idea di resistenza rispetto alla sfida del nuovo sistema partitico bipolare e di arroccamento sulla rappresentanza dell’elettorato di appartenenza, mentre dall’altra parte si cercava di imporre l’inserimento del partito all’interno della struttura politica bipolare e dell’adattamento al sistema maggioritario.
Il passaggio di leadership da Garavini a Bertinotti avvenne, appunto, proprio sulla base di quello scontro: il Partito della Rifondazione Comunista sceglieva, a quel punto, la competizione maggioritaria come suo terreno di riferimento, abbandonando l’idea di una tradizionale politica delle alleanze, e avviandosi di fatto verso una forma politica più simile a quella di un soggetto radicale “di movimento” (come era del resto, nel bagaglio politico del nuovo segretario), piuttosto che verso la forma di un soggetto organizzato in funzione di un’identità ideologica definita.
Si tratta di un punto che vedremo meglio in seguito, al momento dell’emergere sulla scena sociale del movimento no-global e che fornirà un esito sul quale ci soffermeremo più avanti.
Quello che interessava far capire a questo punto è che la dicotomia tra “autonomia del politico” e “flessibilità di movimento”, che ha caratterizzato la realtà politica del Partito della Rifondazione Comunista almeno fino alla formazione della Lista Arcobaleno, il successivo congresso e la scissione di SeL, ha origini abbastanza lontane nel tempo, almeno fin dal 1994.
Nei due anni successivi, i processi di personalizzazione della politica italiana, il ruolo sempre più crescente dei mass media e una crescente centralità politica del Partito della Rifondazione Comunista, trainarono la crescita della leadership personale del segretario, Fausto Bertinotti, all’interno della coalizione dominante che reggeva il partito.
Si trattò di un processo attraverso cui il leader del partito convertì l’indubbio prestigio e la capacità di comunicatore e, quindi, il consenso conquistato nelle arene esterne, in una crescita del proprio peso all’interno del partito e, soprattutto, nei confronti dei militanti di base.
Durante la fase 1995 – 1997 e, principalmente, dopo il successo elettorale del 1996 il Partito della Rifondazione Comunista sperimentò il tentativo della leadership di aumentare il livello di istituzionalizzazione del partito.
Da un lato si registrò l’aumento del livello di coesione e di stabilità del gruppo dirigente centrale, sancito dal congresso del Dicembre 1996.
Tentò , allora, di sorgere e di consolidarsi una coalizione dominante interna che si costituì attraverso la liquidazione, prima e durante il 1995, della frazione di destra, e dopo a partire dal giugno 1996 fino al III congresso del dicembre, mettendo in angolo la frazione di sinistra, che si opponeva al nuovo ruolo pivotale che il Partito della Rifondazione Comunista stava giocando, a livello istituzionale, grazie all’indispensabilità del proprio appoggio parlamentare per il governo di centrosinistra.
La coalizione dominante interna tentò di costruirsi le proprie condizioni di legittimità verso il Partito, attraverso la definizione di una propria strategia di competizione nei confronti del resto della sinistra, con la linea politica delle cosiddette “due sinistre”, con la quale si teorizzava la funzione del Partito della Rifondazione Comunista di collegamento con la società civile e le sue domande e le istituzioni governative.
La leadership del partito articolò, di conseguenza, la proposta di uscita dalla nicchia della rappresentanza dell’elettorato d’appartenenza, attraverso un ambizioso progetto di utilizzo della propria posizione istituzionale per erodere l’elettorato della sinistra moderata e allargare il più possibile il proprio spazio elettorale (il progetto era contenuto nella tesi della lotta per l’egemonia, tra le “due sinistre”).
Il tentativo fallì, e nello spazio di due successive crisi di governo, nell’ottobre del 1997 e dodici mesi dopo, si verificò la fuoriuscita dalla maggioranza.
L’analisi dei documenti interni, in questa fase, suggerisce due considerazioni di fondo.
In primo luogo la leadership colse la principale difficoltà politica del partito nella contraddizione tra una linea che mobilitava il consenso nella società, attraverso quelli che si potevano definire come incentivi orientanti allo scopo utilizzando l’inserimento del partito nel gioco competitivo bipolare, e un partito che, nella sua struttura territoriale, si era consolidato sulla base dell’utilizzo, per il funzionamento dell’organizzazione, di incentivi di identità che presupponevano l’esaltazione dei tratti di diversità del partito, rispetto all’ambiente circostante.
Le vicende di quegli anni, tra il 1996 e il 1998, rappresentarono il punto di espressione più significativo di una frattura tra un partito che nella società continuava ad agire secondo le logiche dell’identità, e un partito che nelle istituzioni era portato a perseguire la logica della competizione, sotto la sferza di un sistema maggioritario che iniziava a esercitare anche i suoi effetti psicologici sull’elettorato.
Questo processo modificò le basi di potere dei leader nazionali.
Da un lato, Cossutta si collegò sempre più saldamente al ceto dei militanti carrieristi legati al mantenimento di un profilo competitivo da parte del partito e di un rapporto di alleanza con la coalizione del centrosinistra.
Dall’altro lato il segretario, alla ricerca di basi di potere interne per scalzare la tutela che l’altra carica monocratica esercitava su di lui, tentò di collegarsi sempre più alla base militante interpretandone l’attaccamento all’identità antagonista.
Questa dinamica si sviluppò fino alle estreme conseguenze della rottura del partito e del riflusso all’opposizione nel biennio 1998 – 1999.
Ritorna il dilemma: Partito o Movimento?
Ristrutturate le linee di autorità interne dopo la scissione, il punto di svolta successivo fu rappresentato dalla sconfitta alle elezioni europee del giugno 1999.
Il Partito della Rifondazione Comunista rimase inchiodato a una percentuale inferiore a quella del 1992 (4,7%) e vide sfumare ogni velleità di superare indenne la crisi dell’autunno precedente.
Nello stesso spazio politico, intanto, si era insediato un concorrente pericoloso, che amplificava nelle urne l’effetto della scissione.
Soprattutto, però, il Partito della Rifondazione Comunista scoprì l’estrema debolezza del suo rapporto con l’elettorato di riferimento.
Ciò che è importante, a questo punto, far notare, è che la sconfitta fu interpretata dalla leadership come un evento addebitabile all’inadeguatezza del modello organizzativo a quel punto a disposizione del partito.
Soprattutto l’inadeguatezza della propria organizzazione fu esplicitamente paragonata alla maggiore adeguatezza rispetto ai processi di “americanizzazione” della politica, da parte di modelli organizzativi agli antipodi, come le organizzazioni leggere e allo stesso tempo completamente leaderizzate.
Allora fu posto, esplicitamente, il problema dell’efficacia dell’azione del partito territoriale e furono lanciate alcune campagne che si proponevano di stimolare un’azione della base, modulata su campagne “single issue” tipiche di formazioni senza una struttura articolata come quella che il Partito della Rifondazione Comunista aveva ereditato dalla tradizione del movimento operaio.
Il tema dell’innovazione organizzativa si collocò al centro del V congresso del partito, sulla base di un nuovo tipo di rapporto tra partito e movimento “no – global”.
L’irrompere di questo nuovo soggetto nell’ambiente politico italiano, surriscaldò la temperatura interna al partito, mettendo di nuovo in discussione la stabilità e la coesione della coalizione dominante interna.
La proposta formulata allora dalla leadership (già anticipatrice di quella successiva relativa alla “non violenza”) rappresentò un punto di vera e propria innovazione al riguardo della tradizionale impostazione dei partiti comunisti.
Il Partito della Rifondazione Comunista propose, così, la sua internità al movimento ribaltando la tradizionale posizione di subalternità che la dottrina leninista (ma non solo) assegnava al movimento rispetto al partito.
Fu apertamente sconfessata l’idea che il partito dovesse tenersi distaccato dal movimento e fornirgli una coscienza politica – ideologica.
Al contrario la leadership del Partito della Rifondazione Comunista concettualizzò il nuovo soggetto di movimento come parte di una nuova sinistra alternativa, che avrebbe dovuto contenere sia il Partito della Rifondazione Comunista, sia l’insieme dei soggetti sociali e politici che stavano muovendosi contro la “globalizzazione liberista”.
In questo senso il movimento era concepito come una leva per scardinare il sistema bipolare e ampliare lo spazio politico da “terza forza” del partito.
I fattori- chiave dell’impianto organizzativo
I fattori chiave che, inizialmente, hanno modellato l’impianto organizzativo del Partito della Rifondazione Comunista possono essere individuati nell’impulso determinante di alcuni leader carismatici e in uno sviluppo per “penetrazione/diffusione” territoriale.
Il Partito della Rifondazione Comunista si è caratterizzato, dunque, per uno sviluppo di tipo misto, ma con la prevalenza di uno sviluppo per diffusione territoriale, anche se di tipo particolare.
Da una parte, infatti, si è assistito a un processo in cui l’appello unificatore del gruppo di “imprenditori politici” che avevano lasciato il PCI, coagulò una galassia di gruppi locali germinati nel corso del processo di scioglimento del vecchio partito.
Dall’altra parte, e oggi appare l’elemento determinante, l’organizzazione nacque attraverso la fusione di una pluralità di leader nazionali e locali che controllavano le proprie reti organizzative, consolidatesi prima della creazione del nuovo partito, e che proprio su queste reti fondavano le loro aspirazioni alla leadership.
Dunque, all’interno del Partito della Rifondazione Comunista, sono sempre stati presenti componenti e strati d’élite che esprimevano idee, interessi e culture organizzative differenti.
L’equilibrio tra queste componenti si è rivelato difficilmente stabilizzabile, ed ha dato luogo a continui conflitti per il controllo del partito.
Proprio durante la fase di maggiore consolidamento strutturale la leadership del Partito della Rifondazione Comunista ha tentato di aumentare il controllo sull’ambiente operativo del partito.
Con l’elaborazione della linea delle “due sinistre” e la teorizzazione della lotta per l’egemonia tra sinistra di governo e sinistra antagonista, il “centro” del partito realizzò un’articolazione dei fini (Panebianco 1982) che fondava la legittimità della leadership sull’espansione del territorio di caccia del partito, oltre la semplice nicchia dell’opposizione e della difesa dell’identità comunista.
Di fatto, l’analisi del dibattito interno e della strategia del partito, in quella fase, hanno mostrato l’esistenza di un rapporto tra variazioni della coalizione dominante interna e delle modalità con cui, fino ad allora, il partito si era rapportato con l’ambiente esterno.
Nelle fasi in cui la coalizione dominante interna riusciva faticosamente a raggiungere un suo equilibrio, pur rimanendo divisa in frazioni organizzate, il partito tendeva a chiudersi in difesa delle posizioni conquistate.
Fatta eccezione per i primissimi mesi di espansione organizzativa, durante i primi due anni di esistenza, il Partito della Rifondazione Comunista sembrava seguire questa linea d’azione.
Sia la base del partito che il suo gruppo dirigente si rinserrarono nella difesa della “diversità comunista” e l’organizzazione apparve entrare in una fase di stasi strutturale.
Successivamente è stata perseguita, da un lato, una strategia di espansione, attraverso un’apertura dei confini organizzativi ai nuovi soggetti che via, via, andavano comparendo nell’ambiente operativo del partito: in definitiva, attraverso una strategia di dominio dell’ambiente.
Dall’altro lato, emergeva una strategia mirante alla difesa degli equilibri interni già raggiunti, che vedeva come una minaccia alla stabilità interna, qualsiasi allargamento dei confini dell’organizzazione e che perseguiva l’adattamento ambientale.
E’ chiaro come queste due strategie abbiano comportato anche una differente visione del necessario grado di confini organizzativi, con i sostenitori del secondo corso d’azione più inclini a elevare barriere verso l’esterno e a sorvegliare maggiormente il reclutamento.
Il modello organizzativo
Per tutto il dopoguerra il PCI ha rappresentato l’esempio più “puro” di partito di massa operante nel panorama politico italiano.
Il PCI disponeva di una forte articolazione verticale delle strutture organizzative, di una centralizzazione dei processi interni, di un’ampia e ramificata burocrazia rappresentativa, di una subordinazione del gruppo parlamentare agli organi dirigenti, di un forte controllo delle organizzazioni collaterali, di una capacità di inquadramento “morale e intellettuale” della propria membership: queste erano le caratteristiche fondamentali che rendevano il “partito nuovo” un esempio particolarmente calzante di “istituzione forte”, autonoma rispetto all’ambiente nazionale e dotata di un’elevata coerenza strutturale interna.
Se, dunque, vi sono pochi dubbi al riguardo della collocazione del PCI, all’interno della tradizionale distinzione fra differenti tipologie di partiti, la caratterizzazione del Partito della Rifondazione Comunista, sotto questo aspetto si presenta certamente più difficile.
Sicuramente si può affermare che l’organizzazione del Partito della Rifondazione Comunista presenta un assetto fortemente decentrato, quasi federativo, ma con una significativa eccezione: il processo di selezione delle candidature, sempre fortemente accentrato nelle mani di un vertice ristretto.
La posizione della leadership nazionale all’interno del partito non ha mai, invece, goduto (fino ad ora) di quella autonomia tattica, che era invece consentita alla leadership comunista grazie al “centralismo democratico”.
Altre due variabili strutturali importanti per caratterizzare il modello organizzativo del Partito della Rifondazione Comunista sono la professionalizzazione del partito e il tipo di sistema di finanziamento (Tan, 1997, Katz e Mair 1994 – 1995).
Il Partito della Rifondazione Comunista è stato un’organizzazione in cui il lavoro volontario dei militanti ha avuto ancora un certo peso nel garantire il funzionamento dell’organizzazione su vari fronti(attività politica extra – elettorale, candidature per le cariche pubbliche, lavoro volontario durante le campagne elettorali, ecc.).
Tuttavia, per comprendere il ruolo del processo di professionalizzazione nella struttura del partito, si deve distinguere una professionalizzazione di tipo “burocratico – partitico” (la classica burocrazia rappresentativa o esecutiva, diffusa nei partiti di massa) da una professionalizzazione che potremmo definire di tipo istituzionale, derivante cioè dall’occupazione di ruoli pubblici di autonome risorse selettive.
Questo secondo elemento, della professionalizzazione di tipo istituzionale ha avuto, come vedremo, un ruolo molto importante anche nel definire gli schieramenti congressuali nel 2008, all’indomani dalla fuoriuscita forzata dal Parlamento e, successivamente, nell’orientare i termini della nuova scissione che ha portato fuori dal partito lo stesso ex-segretario Bertinotti.
Altra caratteristica molto importante per delineare il modello strutturale del partito è rappresentata dalla virtuale assenza di organizzazioni sociali fiancheggiatrici, e quindi dal bassissimo grado di controllo organizzativo esercitato dal partito sul proprio ambiente esterno.
Se, dunque, la struttura organizzativa che caratterizza il Partito della Rifondazione Comunista è difficilmente inquadrabile all’interno delle tradizionali dicotomie partito di massa/ partito pigliatutti, oppure partito burocratico di massa/ partito elettorale professionale, come possiamo definire il modello organizzativo adottato da partito?
Per le caratteristiche suaccennate, la natura organizzativa del Partito della Rifondazione Comunista può essere accostata a quella di un moderno partito di quadri (modern cadre party, Koole, 1992, 1994).
Un modello organizzativo che, se da un lato, si distingue per le sue caratteristiche strutturali democratiche dal classico partito di quadri ottocentesco (Duverger 1964), dall’altro lato per via delle ridotte dimensioni della membership porta a concepire questo partito come un canale utile soltanto per i membri attivi, piuttosto che per l’integrazione politica delle masse (Koole, 1992 , 1994).
La scelta dell’area di governo, il fallimento della Lista Arcobaleno e la scissione di SeL
Abbiamo già avuto modo di far rilevare come l’entrata in scena di un nuovo soggetto, il cosiddetto movimento anti globalizzazione, ha fatto emergere l’asse su cui sta ruotando il conflitto tra i vari schieramenti, rimettendo in gioco la definizione dei confini dell’organizzazione e il rapporto tra partito e movimento.
E’ andata in discussione, a partire dalla disgraziata scelta di internità al “Genoa Social Forum”, l’identità di un partito in cui si mette l’accento sulla necessità di uscire da un rapporto troppo stretto con la tradizione organizzativa ed elettorale del vecchio PCI, per esplorare nuovi potenziali terreni di caccia, rappresentati da una nuova generazione che si ritiene orientata a sinistra (in questo senso, ad esempio, il dibattito sulla nonviolenza, in adesione ai fermenti di tipo cristiano presenti nel movimento pacifista) mentre la leadership preparava la svolta di governo.
In questo quadro è così precipitata la scelta, compiuta con il congresso di Venezia del 2005, di approdo organico alla formazione di uno schieramento di centrosinistra destinato -nel caso di un prossimo successo elettorale – ad alternarsi al governo, in luogo dello schieramento di centrodestra.
Questa scelta, compiuta a maggioranza e pagando il prezzo di un ulteriore inasprimento nel contesto delle difficoltà di relazione già instauratesi da tempo nella coalizione dominante interna fino al punto di provocare, nell’immediata vigilia delle elezioni del 2006, un’ulteriore scissione dell’ala trotskista che ha formato il Partito Comunista dei lavoratori, si collegava, prima di tutto, al tentativo di semplificazione dell’offerta politica contenuta nel tentativo di semplificazione del sistema contenuta nella proposta di formazione del PD (già “in fieri” al momento dello svolgimento della tornata elettorale del 2006) e nella modifica della legge elettorale del 2005, in direzione proporzionale con premio di maggioranza e l’introduzione di diversi livelli di soglia di sbarramento. In quel momento il Partito della Rifondazione Comunista (saltando la mediazione offerta dalla prospettiva di una più ampia alleanza di tipo “radical”, formata da altri soggetti quali sinistra DS, Comunisti Italiani, Ecologisti) offriva aderendo in pieno al meccanismo maggioritario esercitato in funzione della governabilità e di personalizzazione della politica, da un lato una copertura sul terreno delle istanza programmatiche considerate più avanzate (pacifismo, situazione sociale ed economica, critica dell’Europa liberista, precarietà del lavoro, ecc.) e dall’altra parte una posizione di “ascolto” e di “interpretazione” dei movimenti, in una sorta di ruolo del partito quasi “border – line” tra democrazia delegata e democrazia partecipativa, anche attraverso una modificazione del sistema di riferimento a livello locale, sotto forma di “rete”.
L’ operazione cadeva in una fase di persistente incompiutezza nelle forme definite del sistema politico italiano dove, nella sostanza, il tipo di bipolarismo sorto all’indomani della grande trasformazione del sistema verificatosi attorno agli anni’90 del secolo scorso, pareva, invece non corrispondere più alle fratture sociali dominanti.
Per questo motivo l’offerta politica presentata dai due schieramenti di centrodestra e di centrosinistra, apparve più frammista di quanto non apparisse dallo svilupparsi delle polemiche giornalistiche e televisive.
L’indeterminatezza dei profili programmatici dei due poli è stato causa, quindi, di un limitato interscambio sul piano elettorale, e, di conseguenza, ha originato il risultato elettorale del 2006, con una disparità di maggioranza tra Camera e Senato , cui seguì la profonda incertezza nell’azione di governo del centrosinistra, fino al rapido esaurirsi della legislatura.
Rifondazione Comunista fallì completamente l’obiettivo prefisso e che abbiamo cercato, fin qui, di riassumere, non riuscendo a interpretare la radicalità politica necessaria per realizzare un’attività funzione di governo, e mostrandosi subalterna, complessivamente, anche rispetto alle istanze di movimento, generando una forte ambiguità sul terreno sociale, poi pesantemente pagata anche sul piano elettorale.
Le elezioni del 2008, con la scelta della Lista Arcobaleno, furono il frutto dell’idea di tornare a recitare un ruolo egemone e di “cerniera” tra le varie istanze politiche della sinistra e la realtà sociale, mantenendo diverse identità: non fu compiuta, insomma la scelta che -eppure e nonostante la sconfitta dell’ipotesi governativa – era già matura di offrire una possibilità di ricomposizione politica, sotto l’aspetto di una proposta di nuova soggettività, per la quale – essendosi formato il PD su basi di ambiguità e debolezza ancora maggiori – potevano aprirsi spazi politici particolarmente interessanti.
In questo errore ebbe un peso fortissimo, lo ripetiamo, l’idea di autoconservazione propria di piccoli nuclei dirigenti, emersi senza un vero e proprio processo di selezione di quadri, bensì per cooptazione fidelizzata: fidelizzazione dovuta alla presenza di incentivi selettivi di grande portata.
Il PRC aveva, nel frattempo aderito completamente all’ipotesi maggioritaria di personalizzazione della politica partecipando anche, con suoi esponenti, alle elezioni “primarie”, sia in sede nazionale, sia in sede locale, indette dal PD per suffragare la propria idea del “partito liquido” e della “vocazione maggioritaria”.
Il dato più importante, però, nell’itinerario di “spiazzamento” del PRC dalla possibilità di incidere direttamente sulla vicenda politica italiana e internazionale è derivato, però, dall’esplodere della crisi economica: crisi economica che ha riportato in primo piano elementi di analisi politica e di progettualità che erano stati accantonati, accettando attraverso la funzione “interna” al movimento “no global” l’idea della marginalizzazione liberista, cui opporsi – per l’appunto – dall’interno, rinunciando a elaborare un diverso modello di sviluppo, una diversa idea del ruolo dello Stato e delle relazioni internazionali : nulla di diverso, comunque, dal tipo di crisi che ha colpito i partiti della sinistra europea tutti raccolti in un’accettazione acritica del “liberalismo” temperato.
La situazione determinatasi nel PRC con il congresso di Chianciano del gennaio 2009 è stata quella di condizione di vera e propria marginalità, rispetto a un progetto di rilancio di una nuova soggettività politica della sinistra che è necessario si ponga, complessivamente, un obiettivo unitario, uscendo da quella dimensione di subalternità e di assenza di autonomia che, appaiono, in questo momento i veri limiti “trasversali” per tutti i partiti e movimenti che si collocano in quest’area politica, priva, oltre tutto, di capacità di rappresentanza istituzionale.
Rinunciando a partecipare a questo processo o, peggio, pretendendo di egemonizzarlo senza avere capacità di elaborazione e di quadri per muoversi in questa direzione, il Partito della Rifondazione Comunista si è trovato così a dover rinunciare ad un modello organizzativo orientato verso la produzione di una spinta organica verso la trasformazione della società, attraverso una classica funzione politico – pedagogica, riducendosi ad una sorta di movimento “radical” all’americana, e, di conseguenza, ad una funzione di mera sopravvivenza organizzativa.
A questo proposito va aggiunta una riflessione sulla ulteriore scissione operata da SeL.
Sel, infatti, è ancora qualcosa di diverso dal movimento “radical” all’americana ,che costituisce comunque il riferimento più probante in questa fase, anche per i soggetti sbrigativamente identificabili come “no global” collocatisi ormai definitivamente nell’alveo del centrosinistra come gli “ex-disobbedienti” e la redazione del Manifesto, liberatasi ormai da made e padri fondatori, avendo introiettato anche gli elementi fondativi del “partito personale”, esasperando se possibile i tratti distintivi portati avanti dalla leadership di Rifondazione Comunista tra il 2001 ed il 2008.
Con un gruppo dirigente del PRC allora e di SeL adesso per il quale vale riprendere le dizioni di “cooptazione fidelizzata” e fidelizzazione dovuta alla presenza di incentivi selettivi di grande portata, dovuti pressoché esclusivamente al ruolo di “affabulatore” del leader.
Rifondazione Comunista ha, successivamente, insistito nella ricerca di un nuovo percorso di legittimazione istituzionale attraverso la ricerca di una strategia di confluenza all’interno delle residue espressioni di movimento presenti nell’arena politica italiana operando in una dimensione di vero e proprio “entrismo” privo di principi e di strategia politica. In quel modo fallì, alla vigilia delle elezioni del 2013, il tentativo di “Cambiare si può”: a quel punto il PRC, giocando ancora una volta erroneamente la carta della personalizzazione, finì con il confluire all’interno della coalizione massimalista – pseudo legalitaria raccolta attorno ad Ingroia e ad altri magistrati, Di Pietro, De Magistris passati avventurosamente in politica pur privi di un qualche plausibile entità d progetto.
Il risultato relativo alle elezioni del febbraio 2013 risultò del tutto negativo, tale da spingere ad un’ulteriore più marcata dimensione di marginalizzazione politica e sociale del partito (salvo alcune “isole” di presenza istituzionale a livello locale, comunque in via di esaurimento), mentre SeL, pur di mettere a disposizione del proprio gruppo dirigente un meccanismo di incentivi selettivi, abdicava definitivamente ad un proprio embrione di autonomia riducendosi ad una sorta di vassallaggio nei confronti di alcune correnti del PD.
Il PRC che si appresta a celebrare il proprio congresso è dunque classificabile come un soggetto marginale, in piena crisi ed in forte difficoltà dal punto di vista dell’espressione di una potenzialità di plausibile dinamica politica collegata alla realtà.
Questo perché si è rinunciato, ormai da molto a includere nell’agenda politica il tema di una nuova soggettività della sinistra italiana, intesa come partito radicato sul territorio, strutturato organizzativamente, in grado di produrre assieme capacità di coesione sociale e politica ed egemonia culturale, ed un programma di coerente alternativa sulla linea di una vera e propria “diversità di sistema”.
Il tema di una nuova soggettività della sinistra italiana, comunista, anticapitalista, di opposizione per l’alternativa appare comunque complessivamente disatteso anche da altre forze che appaiono dedite, ormai, a coltivare una cultura di tipo spiccatamente movimentista, senza porsi più di tanto il tema assolutamente decisivo del “recupero della politica”.
Pur nella difficoltà dei tempi, stretti tra un politicismo di bassa lega e un movimentismo privo di prospettiva politica è, comunque, il caso di portare avanti assieme ricerca culturale e iniziativa politica.
dal sito sinistrainparlamento.blogspot.it
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