LOST IN LAW
I comuni
alla deriva nell’Italia senza legge (né speranze di resurrezione)
di
Norberto Fragiacomo
Giorni grami per i
comuni, piccoli, grandi o medi che siano – per i loro amministratori,
minacciati di pene draconiane (fino a 20 mensilità di multa se non spediscono
un prospetto in tempo!), ma soprattutto per gli amministrati, cui qualche zuzzurellone
(D. Lgs. 267/2000, art. 3) aveva fatto intendere che l’ente locale “rappresenta(sse)
la propria comunità, ne cura(sse) gli interessi e ne promuove(sse) lo
sviluppo.” Favole, nell’era della crisi indotta e del Fiscal Compact: la realtà
è tutt’altra cosa, ed è devastante.
Non sprecherò tempo a
parlare dei tagli insostenibili, che nella neolingua dei mercanti vengono
definiti “razionalizzazioni”, né della rarefazione del personale, composto da
funzionari spesso encomiabili e sempre bistrattati (Brunettino docet): vorrei regalare qualche parola ai
responsabili degli uffici e a chi è incaricato dei controlli esterni.
Il Patto di Stabilità lo
conosciamo tutti: è una creatura concepita nei laboratori UE (Amsterdam ’97)
che, non appena messo piede in Italia, si è rivelata un multiforme proteo – nel
senso che cambiava aspetto ogni anno. Inizialmente previsto per i soli comuni
di rilevanti dimensioni, è stato poi esteso alle province e infine – dalle
norme figliastre della crisi – alle più minuscole fra le comunità. L’obiettivo
da raggiungere mutava di anno in anno: dal 2008 è un astruso “saldo di
competenza mista”, calcolato sulla base dei risultati di bilancio ottenuti nel triennio precedente,
di cui va fatta la media. Senza scendere nei tecnicismi, osserviamo che il
decreto 112/2008 consentiva ai comuni “virtuosi”, che nell’ultimo esercizio
avessero rispettato il patto e presentassero un attivo di gestione, di
peggiorare lievemente il saldo precedente; oggi questo non è più possibile, e
il premio per chi ha fatto il bravo è uno zero
(cioè la differenza tra entrate e spese deve restare uguale).
Sembrano abracadabra, ma i risvolti sono
tangibilissimi: il saldo entrate-spese prescinde totalmente dalle possibilità
finanziarie del comune, per cui può capitare che un ente, pur avendo soldi in
cassa, non sia autorizzato a spenderli. Poniamo il caso che il comune di
Monrupino riceva, a tardo autunno, una cospicua eredità, che gli permetterebbe
di risistemare una strada: un’immediata iscrizione a bilancio della somma si
rivelerebbe un azzardo, perché, andando ad incrementare le entrate, e quindi
migliorando il saldo per l’esercizio in corso, metterebbe una pesante ipoteca
sull’anno successivo, nel quale – pur in assenza di altre regalie inattese – le
risorse andrebbero spese. Insomma, più soldi entrano nelle casse comunali,
peggio è.
Questo non è tutto: in
sovrano dispregio degli esiti del referendum di giugno 2011, l’italico
legislatore (se così vogliamo definire il portaordini di UE e Fondo Monetario)
ha individuato, tra gli indici di “virtuosità” degli enti locali, la scelta di
affidare i servizi pubblici ai privati anziché gestirli autonomamente. Per
quale motivo, in base a quale logica giuridica? Perché privato è bello,
ovviamente, e perché le lobby che governano l’Europa mercantile pretendono
questo. Vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.
Avevo promesso, però, di
parlare di manager non propriamente milionari, e cercherò di rispettare la
parola data. Uno degli ultimi doni avvelenati del Governo Monti – di gran lunga
il peggiore della storia italiana – è stato il decreto legge 174, convertito in
legge 213/2012.
Cosa prevede l’ennesimo
ammazza-Italia? Tra l’altro, che il responsabile del servizio finanziario del
comune debba mettere un sacco di firme in più, garantendo equilibri economici,
controlli efficienti e bontà delle gestioni pregresse: se non spedisce in
fretta la sua brava “relazione di fine mandato” a un misterioso tavolo tecnico
ministeriale si vede sottrarre, per tre mesi, mezza retribuzione. E se al
sindaco non vanno giù funzionari troppo zelanti? Nessun problema: può
rimuoverlo – quindi il povero direttore resta in braghe de tela comunque.
Non che il segretario
comunale se la passi meglio. Dopo aver zigzagato per un decennio tra il
ministero degli interni e un’agenzia autonoma fatta fuori da Tremonti (con il
decreto 78/2010, lo stesso che ha rubato ai dipendenti pubblici il rinnovo dei
contratti collettivi), il vecchio garante della legittimità amministrativa nei
comuni si è scoperto collezionista di cariche: responsabile della trasparenza e
dell’integrità (sic), sostituto dei
funzionari oziosi; da ultimo, incaricato della lotta alla corruzione nell’ente
locale. Come si combatte la corruzione, per l’ingegnoso estensore della legge
190/2012? Ma facendo ruotare i responsabili degli uffici, è ovvio… magari
all’interno di amministrazioni in cui la stipula dei contratti è sempre stata appannaggio
di un unico funzionario. Niente paura, c’è la formazione… peccato però che il
solito decreto 78 abbia decurtato i fondi del 50%.
E il nostro segretario?
Se ne andrà in chiesa a pregare, immagino, perché, a quanto pare, ove nel suo
comune venissero commessi reati corruttivi, anch’egli dovrebbe risponderne, a
titolo di concorso, dinanzi al giudice penale. Una corruzione senza dolo?
Niente di strano: nell’Europa dell’approccio “sostanzialistico” al diritto,
principi giuridici bimillenari hanno perso qualsiasi valore, e poi – in fondo –
un piccolo funzionario di paese è il capro espiatorio ideale.
Mica solo colpa dei
barbari d’oltrefrontiera, comunque: un Paese che, dimenticata troppo in fretta
la saggezza di De Andrè, innalza Brunetta al rango di ministro e lo applaude
per aver scritto una norma che condanna alla galera più multa più licenziamento
più risarcimento all’ente per danno patrimoniale e all’immagine un funzionario
che, senza timbrare, si assenta dall’ufficio dieci minuti per bere un caffè
(non esagero: perché scatti la sanzione basta un comportamento episodico!)
merita questo ed altro.
E i controlli? Beh, in cauda venenum. La Corte dei Conti,
come ben sa il lettore, è un organo di rilievo costituzionale e, nello
specifico, un ibrido tra magistratura ed organo di controllo. A fine anni ’90
nascono le sezioni regionali: loro compito è esercitare, per l’appunto, il
controllo esterno sulle gestioni degli enti locali, previsto dalla legge 20 del
1994.
L’entrata in vigore, nel
2001, del rinnovato Titolo V della Costituzione – che pone sullo stesso piano
Stato centrale e autonomie – non stravolge il ruolo della Corte, ma in qualche
maniera lo addolcisce: la legge La Loggia del 2003 introduce meccanismi di
valutazione che, seppur finalizzati alla verifica del rispetto del famigerato
patto di Stabilità, vengono definiti “collaborativi”. Lo sono, in effetti:
unico destinatario del rapporto della sezione è il consiglio dell’ente locale,
cui sono affidati compiti di (auto)correzione.
Già nel 2005 cambia
qualcosa: la legge 266 impone una nuova tipologia di controllo, avente ad
oggetto i documenti contabili, col coinvolgimento diretto dei revisori
dell’ente. Ancora, però, di sanzioni non si parla… fino al 2011. Da allora i
decreti si susseguono, e ciascuno di essi porta con sé nuovi poteri per la
Corte (di cui aumentano le competenze, non certo le dotazioni di personale) e
nuove minacce per gli enti.
Il controllo su bilanci
e rendiconti cambia pelle: la collaborazione è terminata, adesso il controllore
dà ordini – e se il controllato non li esegue entro sessanta giorni, la sua
capacità di spesa è bloccata ipso iure.
Il legislatore, però,
non si accontenta: moltiplica i controlli interni agli enti, dopo averne
tagliato gli organici, e impone al sindaco di inviare alla Corte, ogni sei
mesi, un referto su regolarità e legittimità della gestione, nonché sul corretto
funzionamento dei controlli interni citati. Che ne farà la sezione? Beh,
ipotizzo che proverà a coordinare le due tipologie di verifiche, anche per evitare
di disperdere le già poche risorse; il comune, intanto, dovrà vedersela anche
con la Ragioneria dello Stato, i cui funzionari piomberanno negli uffici per
svolgere ulteriori accertamenti.
Un’orgia giuridica, che
potrebbe paralizzare l’attività di enti già in difficoltà finanziarie. A mio
modestissimo avviso, l’esito delle “riforme” sarà proprio questo, oltre ad un
aumento della diffidenza tra soggetti che, in fondo, sarebbe opportuno
collaborassero nell’interesse delle comunità amministrate.
Quanto ai funzionari
(responsabili del servizio finanziario e segretari), non li invidio davvero: impossibilitati
a destreggiarsi tra l’incudine della cattiva legge e il martello di politici
locali frustrati, si ritaglieranno inevitabilmente il ruolo poco ambito di parafulmine.
Testi scritti,
Costituzione, ragionevolezza: nulla viene più rispettato, figuriamoci i diritti
della piccola gente, che non può telefonare alla Cancellieri, né scatenare la
servitù contro una legge dello Stato.
Non so quanto manchi
alla fine, ma arriverà presto, per l’Italia.
Nessun commento:
Posta un commento