Ho finora sempre sostenuto la
strategia della permanenza nell’euro, e della lotta "da dentro", contro le politiche
economiche imposte dai trattati europei. Oggi ho cambiato posizione, sostenendo
l’esigenza di mettere sul tavolo un piano di fuoriuscita, il più possibile
ordinato, dall’euro stesso. Cerco di dare conto delle ragioni di questo mio
cambiamento di opinione.
I non- problemi: per sgombrare il campo
Il problema non è quello di
pensare, come fanno i sovranisti monetari, che recuperando sovranità monetaria
possiamo stampare moneta a go-go, uscendo magicamente dalla crisi. La fragilità
della ripresa giapponese, che nonostante politiche gigantesche di quantitative
easing e di acquisto di titoli del debito pubblico (cfr. grafico) è caduta in
recessione, ma anche la fragilità intrinseca dell’economia statunitense dopo i
grandi Q.E. fatti dalla FED (con una crescita trimestrale del PIL reale caduta
per ben due trimestri in recessione, ed uno in stagnazione, da metà 2009 ad oggi,
e con segnali di rallentamento anche per il terzo trimestre 2014) dovrebbe far
riflettere molto sull’efficacia degli strumenti monetari. Soprattutto per chi
conosce un po’ di teoria keynesiana. Infatti, i meccanismi di trasmissione di
un impulso monetario verso l’economia reale si arrestano in condizioni
particolari, dette di trappola della liquidità, nelle quali le aspettative
degli operatori bancari che ricevono la liquidità primaria dalla Banca Centrale
sono improntate alla certezza che i tassi di interesse non possano scendere,
per cui assorbono qualsiasi quantità di moneta venga loro offerta, senza
rimetterla in circuito nell’economia. Soprattutto se poi questi operatori
bancari sono in difficoltà patrimoniale, come mostra l‘asset quality review
fatto recentemente dalla Bce, in cui quattro banche italiane, di cui due di
rilevanza nazionale (Mps e Carige) risultano in condizioni di carenza
patrimoniale anche dopo le operazioni di rafforzamento fatte quest’ anno, e, in
base allo stress test, il Cet 1 ratio delle banche italiane sarebbe inferiore a
quello medio europeo (10,2%, a fronte dell’11,8%). In tali condizioni, quindi,
le banche assorbirebbero una grande quantità di liquidità emessa da una neonata
Banca d’Italia che tornasse a stampare lire, neutralizzando qualsiasi effetto
reale del Q.E., soprattutto se una uscita disordinata dall’euro comportasse
fenomeni di corsa allo sportello da parte dei risparmiatori.
Asset totali delle principali banche centrali
Fonte:
Financial Times, IMF, Haver Analytics, Fulcrum Asset Management LLP
Il motivo non è neanche quello riferito
ai vantaggi esportativi da svalutazioni
competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010)
pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1],
e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che
la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per
uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le
esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro
verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta
destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da
diversi anni a questa parte[2].
La vera ragione
No. La ragione vera, a mio
avviso, è più profonda, ed è a cavallo fra politica ed economia. Per motivi in
parte di convenienza economica, ma anche di cattura del consenso elettorale
interno, e più in generale per un interesse specifico di ristrutturazione
classista in senso regressivo dell’intera Europa, la Germania e la corona dei
Paesi nordici, supportati dagli organismi tecnici del capitalismo finanziario
globale, impongono, contro ogni razionalità economica una strategia di politica
economica disastrosa. La deflazione non è un tragico effetto inatteso delle
politiche economiche neoliberiste in atto, ma è voluto, anticipato, nel 2013, da una intervista chiarissima di Hans-Werner
Sinn, capo del centro studi economici IFO e consigliere economico della Merkel,
che prefigurava esattamente una deflazione interna come strada maestra per i
Paesi più indebitati dell’area-euro, stimando anche l’entità di tale deflazione
(10% per l’Italia, 30% per la Grecia)[3].
Tra l’altro, la deflazione conviene a milioni di piccoli e medi risparmiatori
tedeschi, stante il valore particolarmente basso del rendimento nominale dei
Bund, che ovviamente richiede una inflazione prossima allo zero. E costoro
rappresentano la spina dorsale dell’elettorato del partito della Merkel, che ha
costruito quella Germania di ceti medi tutelati dalle politiche di austerità
imposte agli altri, che siede sulla polveriera dell’immiserimento del resto del
continente.
E più in generale, la deflazione dei costi è
voluta dal capitalismo transnazionale, finanziario e delle multinazionali, ed
appoggiato anche dai piccoli capitalismi nazionali, pure nei Paesi in crisi,
perché comporta un ovvio spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Il
grafico seguente mostra il calo del rapporto fra retribuzioni lorde dei
lavoratori e Pil, in Italia, fra 2009 e 2013: in questi 4 anni, detto
indicatore perde 0,7 punti. Evidentemente, la ricchezza prodotta che non è più
destinata a retribuzioni, viene destinata a profitti e rendite.
Questo scenario, però, prefigura
la riduzione di ampie parti dell’Europa verso la fascia medio-bassa della
ricchezza, condannandole a sopravvivere di esportazioni di prodotti di fascia
medio-bassa, che giustifichino costi competitivi, o di turismo dall’area
“ricca” dell’Europa, mentre l’industria ad alto valore aggiunto, che garantisce
quindi gli spazi per la crescita dei salari, sarà concentrata in Europa del
Nord. Un vero e proprio progetto egemonico, nel quale borghesie nazionali sempre
più compradore si ritaglieranno spazi di sopravvivenza sulla compressione dei
salari e dei diritti, magari operando come fornitori dei sistemi produttivi più
avanzati del Centro-Nord Europa. Non è infatti un caso se le politiche di
austerità e deflazione sono accompagnate in modo stretto dalle “riforme
strutturali”, miranti ad indebolire i sistemi di difesa del lavoro, ed a
flessibilizzarlo sempre più.
Andamento del rapporto percentuale fra retribuzioni lorde e Pil in
Italia
Elaborazione su dati Istat
Questo sistema avrà i punti di
tenuta, da un lato, in una riduzione progressiva degli spazi democratici e di
espressione a livello nazionale (e nelle riforme istituzionali che convergono
verso un presidenzialismo associato a leggi elettorali dove è forte il
controllo delle direzioni dei partiti sugli eletti si vedono già alcuni
sintomi, accanto a provvedimenti mirati esplicitamente a ridurre lo spazio di
espressione politica sul web, o a dibattiti sempre più frequenti su
regolamentazioni restrittive del diritto di sciopero) e dall’altro proprio
nella sopravvivenza dell’euro. Infatti, l’appartenenza ad una medesima area
valutaria, dove i movimenti di capitale sono perfettamente liberalizzati, crea
un differenziale di credibilità, sui mercati finanziari, fra i Paesi
caratterizzati da alto debito e bassa crescita, ed i Paesi a più basso debito
ed a più alta crescita.
Detto differenziale di
credibilità costringe i Paesi meno virtuosi ad una strategia del tipo “follow
the leader”, fatta di politiche di austerità e di deflazione interna tali da
portarli sullo stesso livello del leader, in termini di saldi di finanza
pubblica, CLUP e inflazione potenziale. Il prezzo da pagare nel non seguire
tale strategia è ovviamente costituito dalla crescita dello spread sul servizio
del debito, fino a livelli da default. D’altra parte, però, la strategia
“follow the leader” comporta una continua rincorsa al ribasso (se il leader
continua a fare politiche di contenimento della spesa pubblica, della domanda e
dei suoi costi interni) che avvita chi insegue in una spirale mortale di
austerità-deflazione-decrescita-ulteriore aumento degli squilibri di finanza
pubblica (endogeni sia alla decrescita che alla riduzione dell’inflazione, che
fa lievitare gli interessi reali sul debito, e riduce la svalutazione della sua
quota capitale) ed ulteriore spinta verso la decrescita e la deflazione. Una
situazione sintetizzabile da una antica fiaba contadina: un uomo sogna di
prendere la Luna che si specchia, di notte, nell’acqua del suo pozzo. Butta nel
pozzo il suo bugliolo, ma quando lo ritira è pieno d’acqua, e il riflesso della
luna rimane dentro il pozzo. A forza di buttare il bugliolo per catturare il
riflesso della Luna, il pozzo rimane senz’acqua. L’uomo muore di sete. Il
riflesso della Luna è scomparso, e l’astro splende, irraggiungibile ed
indifferente a noi mortali, nel cielo.
Per uscire da questa tragedia
annunciata, ci sono solo tre possibilità:
a a) Il
leader cambia direzione alle sue politiche, in senso espansivo, consentendo a
chi insegue di rifiatare. Non ci sono oggi le condizioni politiche per questo.
La Germania non ha alcuna intenzione di veder ridurre il suo straordinario
avanzo commerciale, facendo politiche di sostegno alla domanda interna che vadano
oltre il compromesso fatto, in sede di accordo di Governo, con la Spd (e che in
un mio precedente articolo, http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/11/un-accordo-dignitoso-di-riccardo-achilli.html#more
, stimo avere un impatto di riduzione, nel medio periodo, di circa 2 punti, del
saldo commerciale tedesco, evidentemente troppo poco per rilanciare la crescita
del resto dell’area-euro) ed anche l’annunciato programma di investimenti
infrastrutturali sembra essere piuttosto modesto in termini di impatto sulla
domanda interna tedesca, poiché i 10 miliardi di investimenti annunciati da
Schaeuble saranno coperti dai 300 miliardi di investimenti annunciati da Juncker
(ed è quindi una partita di giro: la Germania si riprende una parte dei soldi
che eroga al bilancio Ue) e comunque gli effetti sul debito interno tedesco
saranno sterilizzati, con tagli alla spesa pubblica in altre voci;
bb) A
livello europeo, si accentrano le politiche fiscali nazionali, lanciando un
programma di crescita della domanda e di rilassamento fiscale, assieme ad una
mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, oppure ad una significativa
ristrutturazione di quelli dei Paesi più indebitati. Manco a parlarne: queste
cose non le vogliono nemmeno i socialisti europei, e tutto ciò che è stato
ottenuto per il prossimo quinquennio è un miserrimo programma di investimenti
da 300 miliardi (pari al 3% del totale degli investimenti fissi lordi fatti in
un solo anno a livello di area-euro, una goccia nel mare, una presa in giro);
c) Si
esce dall’euro (ma non dal mercato unico europeo, né dalle istituzioni della
Ue), nel modo più ordinato e concordato possibile. Più nello specifico, ad
esempio, si potrebbe costituire una parità centrale fra lira ed euro, con
margini di oscillazione ampi (ad esempio, + o – il 20%) e stabilendo un
committment politico di lungo periodo, in termini di mantenimento di una
disciplina di bilancio pubblico coerente (che non significa austerità, ma solo
gestione ordinata e prudenziale dei conti sul versante del solo saldo fra
entrate ed uscite correnti, tecnicamente il cosiddetto risparmio pubblico, che
dovrebbe rimanere tendenzialmente positivo, senza però stabilire parametri
quantitativi, ed abolendo tutti quelli oggi imposti dai Trattati Europei) e di
target inflazionistico positivo, ma non eccessivo (dell’ordine del 4-5%) nelle
politiche monetarie, ristrutturando al contempo il debito, in modo concordato
con le Autorità internazionali, e destinando a riduzione del debito, e non del
disavanzo, le imposte patrimoniali già esistenti (come l’imposizione sulla
casa, ad esempio). Evidentemente, sarebbero i mercati stessi a punire una
deviazione da tale committment.
E’ evidente che, se le prime due strade sono precluse,
l’unica strada per evitare di fare la fine del proprietario del pozzo è la
terza, cioè l’uscita dall’euro, al di là dei dettagli tecnici che poi fornisco
sul “come uscire”, sui quali si può essere o meno d’accordo. Anche perché,
continuando su questa strada, la fine dell’euro avverrà per autocombustione,
perché è diventato socialmente, prima ancora che economicamente, insostenibile.
Ma usciremo in condizioni di degrado degli assetti economici, politici e
sociali, molto più gravi di quelle che otterremmo uscendo subito. Siamo come i
protagonisti di un film americano, L’Inferno di Cristallo. Se rimaniamo nel
palazzo in fiamme, abbiamo la certezza di morire incendiati. Se ci buttiamo
fuori, forse moriamo, forse no.
Possibili obiezioni
e mia opinione in merito
Qualcuno potrebbe dire: va beh, ma non ci sono le
condizioni politiche per uscire dall’euro. La mia risposta è: ci sono allora le
condizioni politiche per imporre una delle due summenzionate strategie, la a) o
la b)? Direi di no. E’ inutile che continuiamo ad aspettare un Godot, che non
arriverà mai, e che cambierà le carte in tavola nella politica europea. Basta
guardare a ciò che è successo sinora. Il socialismo europeo non è stato
assolutamente in grado di esercitare alcun ruolo significativo in questi anni, di
fatto ratificando l’austerità, e respingendo qualsiasi ipotesi, non dico di
mutualizzazione dei debiti, ma quantomeno di calmieramento degli interessi
sugli stessi (attraverso ipotesi, come il redemption fund, che lo stesso Martin
Schulz ha respinto nella sua campagna elettorale). Tale ruolo ancillare del
socialismo europeo è arrivato fino al punto di votare la fiducia alla
Commissione Juncker senza alcuna traccia di un negoziato programmatico, talché
la dialettica politica europea è tutta interna alla destra popolare, fra
sostenitori dell’economia sociale di mercato e più ortodossi monetaristi. Una
dialettica ovviamente inadeguata a rappresentare la gravità della situazione. E
francamente il dibattito in Germania sulla questione è limitato ad ambienti
intellettuali o sindacali, che non ricevono attenzione nemmeno dalle componenti
più filogovernative dell’Spd. Mentre il suicidio politico dei socialisti
francesi, guidati, nonostante mal di pancia inoffensivi e dichiarazioni
roboanti e poi smentite dai fatti, dal rigorismo di Hollande e Valls, rende
semplicemente impossibile immaginare un asse euromediterraneo anti-austerità.
Anche perché l’altra estremità dell’asse dovrebbe essere Renzi. Figuriamoci… In
sostanza, se la destra europea non è in grado di offrire altro che miserrimi
programmini di investimento, nel quadro della prosecuzione dell’austerità, il
socialismo europeo sembra aver esaurito tutte le, pur numerose, opportunità che
ha avuto in questi anni per imporre un cambiamento di direzione alle politiche
europee.
Altra obiezione: ci rischi enormi di buttarsi fuori dalla
finestra. Rischi che peraltro pagherebbero le classi più deboli della società,
quelle che la sinistra ha il dovere di tutelare. I rischi tradizionalmente
menzionati (inflazione importata) sono stupidaggini. Anzi, ben venisse un po’ di
inflazione. La fuga dei capitali può essere contenuta con misure amministrative,
e comunque già oggi dal nostro Paese i capitali fuggono in misura molto
massiccia.
Il rischio è un altro. I recenti lavori di Brancaccio e
Garbellini (2014)[1] mostrano
che un’uscita dall’euro avrebbe effetti negativi sulla dinamica dei salari
reali e sulla quota dei salari rispetto al PIL, quantificabili, per un Paese come
l’Italia, in 4 punti di caduta del salario medio nell’anno della fuoriuscita
(però in cinque anni il salario recupera e cresce di 1,7 punti) e in una
riduzione di 5 punti della quota salari/reddito nazionale in 5 anni. Ma,
ripeto, le stesse classi sociali deboli sono schiacciate, già oggi, anche dalla
prosecuzione sine die di un’austerità, più o meno moderata, che promette altri
decenni di lenta deriva sociale e stagnazione economica ed occupazionale. Gli stessi
Brancaccio e Garbellini, infatti, ci dicono che negli ultimi cinque anni i
salari medi lordi reali italiani sono diminuiti di 2,2 punti, per effetto della
crisi, e, come ho evidenziato io prima, la quota retribuzioni lorde/PIL è
diminuita di 0,7 punti in quattro anni. Quindi, qui si tratta di scegliere fra
una morte lenta, ma sicura, ed uno shock che, forse, potrebbe nel medio periodo
invertirsi e riportare verso la crescita i salari (come per l ‘appunto nelle stime
di Brancaccio). Fra la certezza di un declino lento e la possibilità di
invertirlo, seppur dopo uno shock nel breve, io ho pochi dubbi su quale strada
scegliere.
E poi si possono immaginare anche i doverosi paracadute,
utili a far passare la nottata nella fase di shock da fuoriuscita: sistemi di
indicizzazione dei salari, meccanismi di reddito minimo garantito, programmi di
edilizia popolare e di lavori di pubblica utilità, interventi di calmieramento
dell’aumento del prezzo delle materie prime energetiche importante, panieri
alimentari sovvenzionati, ecc. Tutti interventi mirati a sostenere i salari ed
il tenore di vita nella fase di fuoriuscita, e quindi a ridurre gli effetti
negativi di cui sopra.
[1] E. Brancaccio, N. Garbellini, “Uscire o no dall’euro:
gli effetti sui salari”, in Economia e Politica, 19 Maggio 2014, rinvenibile su
http://www.economiaepolitica.it/distribuzione-e-poverta/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VG2xqK7i3Wi
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