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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 11 luglio 2012

A “RIFORMARE” LA COSTITUZIONE CI PENSA LO SPREAD di Norberto Fragiacomo





Chiamatela, se volete, “profezia”, ma è una previsione fin troppo facile: presto attaccheranno a dirci che neppure la prima parte della Costituzione è un “totem”, che nell’età della Globalizzazione ci vogliono più doveri e meno diritti (altrimenti i mercati si innervosiscono!) e che, per farla breve, una Repubblica “fondata sul lavoro” è un anacronismo [1], un’utopia da dogmatici che scambiano le loro ubbie filosofiche per realtà.
Il Popolo - re travicello sbertucciato e in ceppi - chinerà docile il capo, e vedrà cadere come foglie tutti i principi di civiltà enunciati, in un italiano elegante e asciutto, dai Titoli I, II e III. Sanità e assistenza pubbliche, istruzione garantita (con tanto di sostegno ai poveri ma svegli!), retribuzione sufficiente a “una vita libera e dignitosa”, diritto di associazione e di sciopero… l’elenco potrebbe proseguire, ma le foglie, sappiamo per esperienza, cadono quando sono gialle e ormai secche: la riscrittura dei testi seguirà, non annuncerà, la trasformazione della società in una giungla hobbesiana.
L’Italia e l’Europa sono trascinate alla deriva da un vento irresistibile, ma “intelligente”: quello dello spread, dei mercati – loro sì totem, idoli aztechi, lupi Fenrir a caccia di preda. In verità, la revisione costituzionale è iniziata da tempo, e non ci riferiamo soltanto alla fulminea riforma dell’articolo 81, che ha cancellato la sovranità nazionale in materia economica. Parliamo di modifiche striscianti, subdole, all’assetto istituzionale del Paese, che vengono apportate sottotraccia, talvolta nell’indifferenza (o con il beneplacito) di chi sul rispetto delle regole è chiamato a vegliare.
La spending review è solo l’ultima puntata (ultima per adesso, s’intende!) di un serial inguardabile, fatto di manovre che, taglio dopo taglio, hanno abbattuto l’albero del regionalismo, riaccentrando ogni potere nelle mani dell’autorità statale - cioè di coloro che, dall’esterno, la controllano. Se fino a un paio di anni orsono il “federalismo” era, più che un progetto, uno slogan elettorale acchiappagonzi, oggidì le stesse autonomie locali sono ridotte a ectoplasmi, entità prive di corpo e, soprattutto, di risorse spendibili. Sulla Carta esistono ancora, ma la loro capacità d’azione è pressoché nulla. Che c’importa di regioni e province, sbufferanno in parecchi: sono nient’altro che enti mangiasoldi. Può darsi, ma è opportuno non dimenticare che le prestazioni di welfare sono erogate, al presente, proprio dal sistema delle autonomie. Regioni in pericolo significa, anzitutto, sanità pubblica a rischio estinzione.
Eppure sembrava, fino a pochi anni fa, che la situazione dovesse evolversi in direzione  radicalmente opposta.  Invero, era stata proprio l’Assemblea Costituente ad “inventare” le Regioni, rinnegando l’impostazione rigidamente centralistica che aveva contraddistinto l’Italia sabauda e poi (anche) fascista.
L’articolo 117 prima maniera assegnava, infatti, agli (istituendi) enti regionali competenza concorrente [2] in talune specifiche materie, oltre ad una potestà normativa di attuazione delle leggi statali; in più, alle cinque Regioni autonome venivano attribuite competenze esclusive, individuate dai rispettivi statuti speciali. Si può parlare, tutt’al più, di un regionalismo abbozzato: da un lato, infatti, le materie di competenza regionale costituivano puntuali eccezioni alla regola generale, dall’altro, l’attuazione del Titolo V richiese tempi biblici (le amministrazioni regionali diventano operative appena negli anni ’70).
Un’occasione perduta, forse – senonché l’articolo 5 della Costituzione apriva la strada ad eventuali, futuri adeguamenti istituzionali in direzione “federalista”, sancendo, accanto al principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica, il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali.
Lo sfascio della c.d. “Prima Repubblica” e la prepotente ascesa di nuove forze politiche “nordiste” (la Lega e Forza Italia) suscitarono un vivace dibattito in seno alla società ed alle istituzioni: l’opzione “federalista” acquisì consensi, sovente interessati, anche se – fra gli addetti ai lavori – si continuò a parlare, più propriamente, di decentramento e/o regionalismo.
L’anno di svolta può essere considerato, in realtà, il 1990: in giugno viene approvata la legge 142 – poi confluita nel testo unico del 2000 – che, oltre a riconoscere uno statuto a ciascun ente locale territoriale, individua nel comune l’ente esponenziale degli interessi della comunità. Seguono l’elezione diretta di sindaco e presidente della provincia (in seguito anche di quello della regione) e soprattutto, a fine millennio, il “Federalismo a costituzione invariata” delle riforme Bassanini, che prelude ad una frettolosa riscrittura del Titolo V della Costituzione, finalizzata a potenziare il ruolo delle autonomie.
Licenziata a fine legislatura, e poi confermata da un referendum popolare, la legge costituzionale 3/2001 si incarica di traghettare il sistema da un centralismo con elementi di autonomia ad un regionalismo astrattamente compiuto, che trova espressione negli articoli 114 e 117. La prima disposizione attribuisce pari dignità ai soggetti istituzionali (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato), recependo il principio, di conio europeo, della sussidiarietà verticale; il cuore della riforma è però il nuovo articolo 117, che toglie allo Stato la competenza legislativa generale, affidandola, in linea di massima, alle Regioni. Al livello centrale vengono assegnate talune materie in via esclusiva (comma 2); altre, sempre puntualmente enumerate (comma 3), vengono definite concorrenti; le competenze residuali (comma 4), infine, spettano alle Regioni. Anche “qualitativamente” il legislatore regionale viene equiparato al Parlamento, imponendosi ad entrambi (art. 117, comma 1) il solo rispetto della Costituzione, dei principi comunitari e degli obblighi internazionali.Pare un “ribaltone” costituzionale, ma forse l’apparenza inganna: come sarà presto notato dai giuristi, competenza residuale non è sinonimo di competenza esclusiva (regionale), e il rischio di sovrapposizioni e cortocircuiti istituzionali non risulta scongiurato. Questo perché se talune materie statali sono sufficientemente delimitate ed “oggettivate” (es.: immigrazione, sicurezza dello State), altre appaiono destinate, per la loro indeterminatezza (es.: tutela della concorrenza), a creare interferenze con il livello regionale. Quando il maestro si addormenta, tocca al supplente – e il compito viene svolto egregiamente, nei primi anni del secolo, dalla Corte Costituzionale che, più che interpretare, rimastica il Titolo V, per renderlo finalmente applicabile. La distinzione tra materie-oggetto e materie-funzioni è difatti di matrice giurisprudenziale; alcune pronunce iniziali si conformano in pieno allo spirito riformatore del Parlamento, aprendo nuovi varchi all’iniziativa regionale.Senza assurde pretese di completezza, merita citare una manciata di decisioni: la sentenza 407/2002 – malgrado la tutela dell’ambiente sia di esclusiva competenza statale ex articolo 117, 2° comma, lettera s) – ritaglia un ruolo per le regioni, pur nel rispetto delle “disposizioni meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” [3]; le decisioni 282 e 94/2002 escludono che, per poter esercitare le proprie potestà legislative di tipo concorrente in ambito tributario, le Regioni debbano attendere l’eventuale determinazione di nuovi principi fondamentali da parte dello Stato, potendosi rifare a quelli già in vigore; ancora, la sentenza 272/2004 subordina, in tema di lavori pubblici, la legittimità dell’intervento statale al rispetto dei canoni di proporzionalità e adeguatezza.
L’esordio è dunque incoraggiante, ma ben presto le cose incominciano a mutare, assieme all’indirizzo della Consulta che sempre più spesso fa proprie le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, arrivando, ad esempio, a considerare norme di principio – e perciò vincolanti – tutte o quasi le disposizioni contenute nel Codice dei contratti (sentenza 401/2007) e persino a negare la legittimità di discipline anche migliorative di quella statale in campo ambientale (sent. 214/2008)[4].
Il nuovo atteggiamento della Corte conduce, in qualche occasione, ad affermazioni criticate e criticabili, come quando viene sancito (sentenza 325/2010) che la materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (servizio idrico integrato compreso!) rientra nella tutela della concorrenza, di esclusiva competenza statale, e che la rilevanza economica è stabilita in via esclusiva dallo Stato sulla base di criteri “oggettivi”, ove vi sia un mercato anche solo “potenziale”. Singolare – e preoccupante – che in questa circostanza (ma non sarà l’unica) la Corte faccia prevalere le priorità del mercato sugli interessi dei cittadini; sulla questione, comunque, ritorneremo.
Nella seconda metà dello scorso decennio il legislatore – più per esigenze elettorali e di contenimento di spesa che di rivisitazione del sistema – dà il via ad una “stagione federalista”, culminata nell’emanazione della legge delega 42/2009 sul federalismo fiscale. La normativa prevede il superamento del criterio della spesa storica in favore di quello, dichiarato più responsabilizzante per regioni ed enti locali, dei c.d. fabbisogni standard. La finalità è far sì che, in tempi di penuria, lo scialo di risorse venga scongiurato, e si affermino ovunque le best practice delle regioni “virtuose”.
La metamorfosi non s’è ancora compiuta (sono entrati in vigore solo alcuni dei decreti attuativi) allorché, nella tarda primavera 2011, la tempesta finanziaria si abbatte sul nostro Paese. L’asserita necessità di tamponare l’emergenza segna, di fatto, l’archiviazione della pratica federalista: tre pesantissime manovre finanziarie, succedutesi in meno di un semestre, annullano l’autonomia di manovra degli enti territoriali, regioni comprese (senza distinguere tra quelle ordinarie e quelle speciali). Tra tagli di risorse e inasprimento del Patto di stabilità il sistema perde qualcosa come 39,3 miliardi di euro in tre anni [5], ma non è finita: il decreto sulla spending review, in corso di approvazione (luglio 2012), prevede ulteriori risparmi per un ammontare di 7,2 miliardi in due anni.
Per evitare l’asfissia, le Regioni impugnano immediatamente le leggi taglia-spese (e ammazza-Italia) – lo Stato però fa lo stesso nei confronti di qualsivoglia normativa regionale si azzardi a contravvenire all’undicesimo comandamento del risparmio über alles.
Si è aperto un conflitto istituzionale senza precedenti per la sua gravità, ma inedito è pure l’atteggiamento del Governo nazionale, inflessibile nel subordinare al “risanamento” ogni altra esigenza giuridica e sociale. In un caso, l’Avvocatura sostiene - senza giri di parole - che la serietà della situazione autorizzerebbe di per sé lo Stato a derogare alle regole costituzionali di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e ad «intervenire legislativamente in ogni materia», in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione ed in applicazione dei principi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale, dell’uguaglianza economica e sociale, dell’unità della Repubblica, della responsabilità internazionale dello Stato ecc. ecc.
Si teorizza, dunque, la sospensione della Carta costituzionale a motivo della crisi, non senza far ricorso – per sicurezza – alla materia-non materia del “coordinamento della finanza pubblica”; da parte loro, le Regioni lamentano la violazione del principio di leale collaborazione (art. 120), visto che ormai l’autorità centrale decide su tutto senza previe consultazioni, e specialmente evidenziano come l’enormità dei tagli (a ripetizione) impedisca agli enti di far fronte ai propri compiti istituzionali, primo fra tutti l’erogazione delle prestazioni sanitarie [6] e assistenziali. Lo scarso riguardo per le “forme” (che in democrazia sarebbero però sostanza!) dei Governi Berlusconi prima, Monti poi è testimoniato dal fatto che i drammatici tagli alla sanità riguardano anche Regioni, quali il Friuli Venezia Giulia, che stanno fuori dal Servizio sanitario nazionale e finanziano i servizi con risorse proprie.
Arduo fare previsioni sull’esito del confronto centro-periferia, ma è tuttavia utile spendere qualche riga in merito alla funzione (concorrente) coordinamento della finanza pubblica, che fino a qualche mese fa componeva un’endiadi con la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici [7]”. Il principio è stato spesso utilizzato dalla Consulta come “spartiacque” tra la competenza statale e quella regionale: secondo la sentenza n. 414/2004, “il coordinamento della finanza pubblica, cui fa riferimento l’articolo 117, comma terzo, della Costituzione, è, più che una materia, una funzione che, a livello nazionale, spetta allo Stato (…) ciò non esclude che il coordinamento incidente sulla spesa regionale deve limitarsi a porre i principi ai quali la regione deve ispirare la sua condotta finanziaria, lasciando, poi, alla Regione la statuizione delle regole di dettaglio della condotta medesima.” In… soldoni, spetta allo Stato determinare l’entità complessiva dei risparmi (quanto tagliare), mentre alla Regione è concessa una certa autonomia circa le scelte di bilancio (dove tagliare).  Il problema però resta, dal momento che le manovre governative fissano, Regione per Regione, obiettivi quantitativamente definiti di riduzione di spesa – e dunque lo Stato si attiene alla lezione della Consulta – ma, nei casi indicati, le decisioni assunte a livello centrale hanno un pesante riflesso, nella pratica, sul godimento di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione.Quid iuris se tagli economicamente “necessitati” pregiudicano il diritto alla salute (art. 32) e ad una retribuzione adeguata (art. 36), o se un vincolo europeo (da rispettare ai sensi dell’art. 117, 1° comma) osta alla rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ecc. ecc. (art. 3)?
Apparentemente la soluzione è semplice: i diritti sanciti nella prima parte della Costituzione fanno aggio rispetto a qualsiasi altra esigenza. Peccato che il difensore della Costituzione, alle volte, scordi questo sacrosanto principio. E’ capitato, di recente, che la Regione Puglia abbai esteso, con legge, l’esenzione del ticket per le spese sanitarie ad alcuni soggetti non rientranti nella previsione della legge statale 537/1993, vale a dire agli inoccupati, ai lavoratori in cassa integrazione e a quelli in mobilità, unitamente ai familiari a carico (entro certi limiti di reddito). Lo Stato ha impugnato la norma, ed incredibilmente la Consulta gli ha dato ragione, tributando maggior rilievo alle necessità di coordinamento della finanza pubblica che a quanto inequivocabilmente previsto dall’articolo 32[8]!
Semplice errore (ancorché marchiano) o segno dei tempi? Propenderemmo per la seconda interpretazione: anche i giudici costituzionali sono esseri umani, inevitabilmente esposti alle sollecitazioni dell’ambiente esterno e non immuni, dunque, da quel mal d’austerity che ha ormai contagiato le elite dei vari Paesi europei.
Non contraddice a questa (pessimistica) conclusione il rifiuto, da parte della stessa Corte, di avallare la tesi governativa – su cui ci siamo in precedenza soffermati -, secondo la quale l’emergenza legata alla crisi giustificherebbe l’aggiramento della Costituzione: nella recentissima pronuncia 151/2012, la Corte, dopo aver bacchettato il Governo (“Tale assunto non può essere condiviso. Le norme costituzionali menzionate dalla parte resistente, infatti, non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali. In particolare, il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale.”), gli dà, in pratica, ragione su tutta la linea.
Insomma, il monito – in punta di diritto – sembra sottintendere che certe cose si fanno, ma non si dicono… e che il coordinamento della finanza pubblica, figlio non riconosciuto dell’interesse nazionale, si presta benissimo a ridurre le autonomie in braghe di tela.
Vedremo quale sarà l’esito dei ricorsi incrociati Stato-Regioni sulle rispettive manovre: dovesse essere – come temiamo – incondizionatamente favorevole allo Stato, ci troveremmo di fronte alla conferma di una tacita abrogazione del Titolo V[9] e, cosa più grave, alla consacrazione del principio secondo cui la riduzione del debito è da perseguire ad ogni costo, anche sacrificando al “risanamento” i diritti basilari dei cittadini.
A questo punto, non resterebbe che conferire honoris causa una laurea in giurisprudenza allo spread; quanto ai volumi di diritto costituzionale, prenderebbero in fretta la strada del camino, per offrire un po’ di calore, la sera, ad ex studenti immiseriti.
Prima dell’azzeramento del debito arriverà quella dello Stato sociale; preghiamo di sbagliarci, e teniamo occhi ed orecchie aperti.





[1] Sempreché non si tratti, ahinoi, di lavoro coatto…

[2] “Competenza concorrente” significa che la Regione legifera all’interno dei paletti posti da una legge cornice statale, contenente i principi cardine della materia.

[3] MARIO COTTA, La ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni a Statuto ordinario in materia di tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte Costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Trieste 2009, pag. 104.

[4] Commenta M. Cotta, op. cit., pagg. 106-107: “E’ singolare dover constatare che una riforma predisposta per dare maggior potere alle Regioni, nata in senso federalista, per usare il termine della politica, già attenuata dalle remore del legislatore, abbia finito, almeno per la materia in questione, col riconoscere la supremazia statale fino al punto di limitare le competenze assegnate alle Regioni stesse.”

[5] Dati Elaborazione Centro Studio Sintesi.

[6] Secondo il Ministro della Sanità Balduzzi, per effetto dell’approvazione della spending review il numero dei posti letto negli ospedali dovrebbe calare di 7 mila unità nel 2013 – il che non significa, purtroppo, 7 mila malati in meno (ma soltanto, crediamo, qualche centinaio di morti in più).

[7] La legge costituzionale 1/2012 – quella sul pareggio di bilancio, per capirci – ha affidato in via esclusiva l’armonizzazione allo Stato centrale, senza ricollocare la materia coordinamento. Non si esclude, però, che quest’ultima possa essere silenziosamente risucchiata nell’orbita dell’articolo 117, 2° comma.

[8] La sentenza “incriminata” è la 325/2011; tra l’altro, il giudice costituzionale risolve la questione in poche righe, senza neppure sforzarsi di motivare la propria decisione, che risulta perciò apodittica.

[9] Vale a dire ad un neocentralismo de facto.

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