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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 2 aprile 2014

GIUSEPPINA PRIMAVERA di Sara Palmieri




GIUSEPPINA PRIMAVERA
di 
Sara Palmieri



Giuseppina era curva come una elle maiuscola stampata alla rovescia e in questa posizione sbrigava tutte le sue faccende. Portava vestiti di lunghezza midi con un grembiale e una paglia a larghe tese in testa, d’inverno e d’estate, che le era valsa il soprannome di Primavera.
Giuseppina Primavera aveva una pelle bianca, liscia e rosea come una pesca, nonostante l’età avanzata e conservava il vezzo di ungerla di crema Nivea che commissionava ai suoi vicini.
Perché lei, Giuseppina, vivendo in una casa in campagna e lontana dal paese, ormai non usciva più.
Durante l’estate una famiglia che abitava in un’altra città, ma era originaria del luogo, andava a trascorrere le vacanze in una casa vicina e i tre bambini avevano preso l’abitudine di correre, appena arrivati, a salutarla e a intrattenersi durante il giorno, quando non erano al mare o dai nonni, con lei.
Tra le due case crescevano rigogliosi alberi di ulivo e filari di viti, querce più o meno secolari e ginestre, piante di fico e fitti rovi di more, ciuffi di finocchio selvatico, di mentuccia, di rosmarino e di lavanda, e i profumi della vegetazione e quelli del mare, presente nel breve orizzonte, si mescolavano creando un originale quanto lusinghevole amalgama di profumi.
Sul pianoro che introduceva alla via delle due case, il nonno dei vacanzieri aveva piantato pomodori e melanzane, zucchine e cipolle, piante aromatiche e officinali, mentre in alcuni bugigattoli ricavati nel muro esterno della casa, allevava conigli e piccoli roditori che chiamava conigli soricigni e per i quali tutte le mattine alle sette – puntuale come la Svizzera - veniva a falciare l’erba.
Per i bambini di quella famiglia, due maschi e una femmina, la vacanza ai Vrasi, sognata durante tutto l’inverno scolastico, era pari ad un viaggio nell’eden e finalmente potevano scorrazzare liberi in quell’oasi di verde insieme agli amici del posto, alcuni cugini e pochi altri bambini che vi abitavano.
L’ora più bella era quella del primo pomeriggio. Dopo il mare e il pranzo, i genitori avrebbero voluto che riposassero, invece i bambini andavano da Giuseppina.
Lei, a quell’ora, stava seduta sulla panca addossata al muro della casa, all’ombra di una tettoia di mattoni rossi, e si godeva il frinire delle cicale e dei grilli, il cinguettio dei passeri, il tubare delle colombe e il garrire delle rondini. Nel cielo non c’era una nuvola e l’afa estiva si scioglieva nella facile penombra creata dalla vegetazione.
Giuseppina raccontava loro soprattutto storie di spiriti e di fantasmi, che tanto incantavano quei bambini, diceva che spiritelli dispettosi andavano a trovarla di notte, mentre dormiva sul suo letto ripieno di sfoglie di granturco, diceva che piano le carezzavano la pelle di rosa e le sfioravano i capelli candidi, diceva che non erano cattivi, che solo volevano stare in sua compagnia e ricordarle i suoi cari che non c’erano più.
Ma i bambini provavano un vago senso di paura di fronte a quei racconti e la sera, quando erano nel loro letto e pensavano a Giuseppina, sola nel suo, circondata dai fantasmi che le danzavano intorno, tiravano su il lenzuolo fino a nascondere gli occhi che tenevano chiusi e ben strizzati.
Tuttavia quei bambini, pure così bene educati e gentili, all’apparenza timorosi, ubbidienti e remissivi, di giorno, dimentichi delle paure notturne, erano animati da un inaspettato senso dell’ironia e da una irrefrenabile attitudine allo scherzo.
I vicini di Giuseppina, temendo per la sua salute data l’età avanzata, per assicurarsi che ci fosse e stesse bene, usavano chiamarla ogni tanto.
“Giuseppììì, cummà Giuseppììì” – strillavano da un lato e dall’altro delle case circostanti, vicine ma non abbastanza per vederla.
Allora Giuseppina rispondeva pronta: “UUUUhhhh”! – senza a volte neppure sapere a chi rispondesse e perché.
I bambini, divertiti da questo costume che aveva luogo più volte nel corso della giornata, cominciarono a farlo essi stessi.
“Giuseppììì, cummà Giuseppììì” – urlavano come forsennati – e prontamente seguiva lo “UUUUhhhh” di Giuseppina.
La chiamata veniva ripetuta più volte, incalzante, e sempre seguiva la risposta e il ritmo fra la chiamata e la risposta diventava sempre più breve fino a sovrapporsi.
“Giuseppììì, cummà Giuseppììì” - “UUUUUhhhh” - “Giuseppììì, cummà Giuseppììì” - “UUUUhhhh” - “Giuseppììì, cummà Giuseppììì” - “UUUUhhhh”, - fino allo sfinimento.

Poi – dopo questo gioco all’apparenza innocente - venivano rapiti dalle loro instancabili attività: arrampicarsi sugli alberi, preparare con i fili d’erba i cappi per le lucertole, cacciare piccoli animaletti, costruire delle capannine, legare delle amache, scendere al fiume lasciandosi scivolare lungo il dirupo dell’argine, entrare nella casa diroccata abitata dai pipistrelli dopo essersi muniti di canne e aver avvolto i capelli in un asciugamano.
La grande casa di Giuseppina attraeva quei bambini in maniera irresistibile, conoscevano bene l’esterno con i muri invasi di vite americana e la cucina ampia, con le pareti nere dal fumo del rudimentale focolare; gli utensili e le suppellettili erano riposti in basso, quasi a terra, alla portata della schiena curva dell’inquilina; piatti e pentole, bicchieri e posate, e perfino gli alimenti, pasta, pane, biscotti, tutto era a vista.
Le pareti erano nude, di pietra, con l’intonaco scrostato, nessun quadro, solo qualche foto sbiadita, qualche santino e un poster ancora in bianco e nero che pubblicizzava la località di mare.
Quegli ambienti ricordavano loro la casa di Geppetto nella favola di Pinocchio, che avevano visto di recente sceneggiata in TV.
Ma erano i piani superiori a suscitare il maggiore interesse dei bambini perché era là che a Giuseppina si manifestavano i fantasmi e anche perché erano i meno accessibili; si chiedevano spesso quale scusa avrebbero potuto inventarsi per poter andare di sopra a curiosare…
E poi si sa che le cose proibite o difficili da ottenere sono per noi umani le più desiderabili. 
Dopo la sosta all’ombra della tettoia, Giuseppina mandava via i bambini dicendo che sarebbe andata di sopra a fare un riposino.
E così ai bambini, in uno di quei giorni, venne l’idea di far finta di andarsene, aspettare che Giuseppina salisse nelle sue stanze e si addormentasse e poi salire e finalmente vedere le camere superiori.
Così fecero.
La porta era socchiusa e cigolò un po’ mentre la aprivano. Entrarono cauti, sulle punte dei piedi, in uno stanzone enorme, con un piccolo armadio in un angolo, una cassapanca di legno ed un grande letto quasi al centro della stanza; il materasso appariva come rigonfio e informe e in mezzo – sprofondata – dormiva già a sonno pieno Giuseppina, emettendo un sibilo leggero e perfettamente ritmico. 
La foto di un avo in baffoni e gilet guardava, con un’aria truce e un occhio più alto dell’altro per via del monocolo che vi era incastrato, il letto di Giuseppina mentre sulla testiera era appeso un crocifisso.
In fondo alla stanza si trovava un balconcino semiaperto dal quale filtrava una piacevole brezza estiva.
Lo stanzone era tutto sommato nudo come quello di sotto, nulla di particolare, tanto meno di misterioso.
Solo, all’improvviso, alzando gli occhi un po’ più in alto, le videro…

Erano lunghe, scure, spesse, fitte, scendevano e risalivano, sfioravano il letto e la stessa Giuseppina. 
I bambini avevano esperienza di piccole ragnatele nella legnaia, che – dispettosi – distruggevano al ragno con un ditino, ma non ne avevano mai viste di così grandi, sembravano quasi delle tende, ora più lunghe e ora più corte come inframezzate da inquietanti sipari e siparietti.
Mentre erano intenti a osservarle meravigliati, un alito di vento più forte fece sbattere la finestra e sobbalzare Giuseppina, allora i bambini, non senza rumore, urtando le ante della porta e tra loro, a gambe levate, guadagnarono l’uscita, caracollando lungo le scale di pietra.
Dopo poco uscì sul terrazzo Giuseppina, urlando che ora i fantasmi la visitavano anche di giorno e che erano almeno una decina e che questa volta erano stati maldestri e le avevano interrotto il sonno, a lei che dormiva sempre così male.
La corsa funambolesca dei bambini durò qualche minuto, quando furono nel pianoro del nonno si fermarono, si accasciarono a terra, si guardarono concitati ma poi – ripreso il fiato - si sciolsero in una risata fragorosa e liberatoria.
Ora sapevano di essere loro i fantasmi di cui Giuseppina avrebbe senz’altro raccontato l’indomani, così come di notte i suoi spiritelli erano le ragnatele, quelle ragnatele lunghe, spesse e scure che penzolavano a mò di tendaggi dal soffitto, sfiorandole la pelle di pesca, i capelli candidi e il corpicino curvo e ossuto.

Molti anni dopo quei bambini, ormai adulti, tornarono in quella campagna.
La casa-vacanze del nonno era stata mal ristrutturata, dei ladri l’avevano visitata e avevano divelto sanitari e piastrelle, la casa dei pipistrelli era stata abbattuta per lasciare il posto ad un intrico di arbusti.
Giuseppina era morta e la sua casa, resa irraggiungibile da una recinzione, era stata acquistata da un signore facoltoso che però non se ne occupava.
Anche il nonno, nel frattempo, era morto e così quel pianoro, che un giorno era stato il giardino dell’eden, appariva desolato e devastato dalle erbacce e dagli spini.

Tuttavia lo “UUUUhhhh” di Giuseppina echeggiava ancora mentre si facevano largo tra gli sterpi, questa volta a caccia di ricordi, accompagnati dal fantasma di lei a sfiorargli la pelle e il cuore.  



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