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giovedì 18 settembre 2014

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ITALIA di Renato Costanzo Gatti






L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ITALIA


di Renato Costanzo Gatti


Commento allo splendido articolo di Riccardo Achilli


Gli articoli di Riccardo sono sempre splendidi, documentati, articolati, ragionati, ricchi di riferimenti a indici e dati, per cui ne fanno il mio autore economista preferito (un po’ meno come autore politico). L’articolo che sto commentando è tra i più belli e convincenti e condivisibili degli ultimi tempi. Mi piace premettere ai miei commenti uno tra i passi più belli di Keynes tratto dalle sue Activities 1940-1944 che riporto e che pare evidenziare gli errori della Germania:

Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito, e non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale e, di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore. Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale. Non si tratta di uno schema umanitario, filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Ritratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore quanto al debitore”. Prima riflessione Riccardo dice che negli anni di Schroeder la politica economica tedesca ha prodotto un contenimento della crescita dei costi, insieme a forti investimenti di sistema mirati ad accrescere la produttività totale dei fattori tale da contenere l’andamento del CLUP anche in presenza di salari (mini jobs a parte) più alti che negli altri Paesi. Vorrei sottolineare che l’insostenibile pesantezza dell’Italia sta tutta in questa frase; il nostro paese infatti negli ultimi trent’anni, in assenza di una politica industriale degna di questo nome, in nome di una esaltazione degli animal spirits del capitalismo, dopo aver distrutto con la liquidazione delle aziende a partecipazione statale le poche fonti della nostra ricerca e della nostra innovazione, affossando le iniziative di un Olivetti che inventava il pc e di un Natta che ci offriva il monopolio della produzione chimica insieme all’affossamento della siderurgia, della chimica dell’informatica, registrava trent’anni di produttività se non negativa tendente allo zero. Non è dunque su questo fronte che va criticata la Germania (non dimenticando che l’agenda 2010 era parte della strategia schroederiana) ma va criticata la crisi profonda dell’azienda Italia ed in primis del suo capitalismo straccione e ignave. Quindi al piano B che Riccardo paragona all’Inferno di cristallo, e che Prodi iersera fotografò con un aforisma “uscire dall’euro fa cessare tutti i problemi così come li fa cessare il suicidio”, vorrei contrapporre un piano A legato ad una stagione di rilancio della competitività italiana, coinvolgente tutto il mondo del lavoro (imprenditori inclusi) che prendono in mano la bandiera della produttività lasciata cadere da un capitalismo senza palle, e che si pone egemonicamente come una nuova Resistenza nazional-popolare. Il modello è un mix di imprese della meccatronica emiliana e le altre purtroppo poche imprese che investono in ricerca e sviluppo ed esportano anche in questi tempi di crisi, di protagonismo sindacale che investe nella politica cogestiva, di intelligenza del governo che persegua, insieme a tutti i socialisti europei, la golden rule di Delors a livello europeo. Volevo anch’io dare alcune cifre (tratte dal libro Avanti a sinistra) per evidenziare i rapporti tra costo del lavoro, produttività e clup. Definiamo: • il valore aggiunto per addetto come VA/N • il costo del lavoro come CL/N • ed il costo del lavoro per unità di valore aggiuntivo (Clup) come CL/VA compariamo i dati di alcuni paesi europei: PAESI VA/N CL/N CL/VA Svezia 118 62 53 Regno Unito 108 53 49 Germania 79 56 71 Svizzera 77 52 68 Francia 74 51 69 Benelux 73 45 62 Italia 60 46 77 “In questo quadro la posizione italiana si colloca paradossalmente ad un livello in cui i costi del lavoro sono più bassi, ma con un rapporto costo del lavoro su valore aggiunto più alto degli altri paesi europei, perché è più basso il valore aggiunto generato per addetto”. Seconda riflessione Non è una riflessione polemica ma un invito ad approfondire. Se non avessimo l’euro potremmo con una svalutazione competitiva rendere i nostri prodotti più appetibili (almeno per il fattore prezzo) sul mercato. Con l’euro, non potendo svalutare, si svaluta il costo del lavoro per raggiungere la stessa competitività. A primo acchito si dovrebbe dire che poiché la svalutazione della moneta comporta una perdita di potere d’acquisto da parte di chi possiede assets svalutabili, mentre non comporta sacrifici per chi possiede assets reali non svalutabili; si potrebbe concludere che la svalutazione comporta una diminuzione del potere d’acquisto dei salari così come lo comporta una svalutazione diretta dei salari così come effettuata nel secondo caso. Certo ci sono effetti collaterali diversi; ad esempio nell’euro il nostro debito è come se fosse espresso in moneta estera per cui non si svaluta come invece si svaluterebbe avendo la lira e svalutandola. Keynes dice che il lavoratore dipendente non sciopererà mai per la perdita di valore reale del salario se il valore nominale rimane lo stesso, mentre si mobiliterebbe se fosse svalutato il valore nominale (e quindi reale) del salario. Reazioni psicologiche anche opinabili ma che fanno parte dei due sistemi che tendono a raggiungere lo stesso risultato. Inoltre la comunità internazionale può avere reazioni pesanti di fronte ad una svalutazione della moneta, ma non dovrebbe averne di fronte ad una svalutazione dei salari. Terza riflessione Scrive Riccardo che la politica tedesca di costringere i paesi PIIGS a deflazionare i costi interni durerà “almeno fintanto che chi subisce questa strategia non deflazioni fino al punto da diventare attraente per le imprese e gli investitori tedeschi, depauperando in maniera seria, non marginale, i livelli produttivi ed occupazionali della Mutterland”. Sicuramente ci potrebbe essere in un futuro, non prossimo, una delocalizzazione dalla Germania per esempio verso l’Italia, ma non ritengo la cosa così semplice, perché il costo del lavoro è una sola componente nelle decisioni di delocalizzazione e direi neppure la più importante, specialmente per chi produce prodotti ad alto livello tecnologico con bassa incidenza di lavoro ma qualificato e fortemente formato. Il solo basso costo del lavoro non è sufficiente a sostituire l’alto livello qualitativo del lavoro tedesco e l’aura che essa è capace di infondere nel giudizio complessivo di competitività. Vediamo anche noi in Italia che chi ha delocalizzato pensando solo al costo del lavoro si trova in difficoltà nella qualità del lavoro prestato conducendo spesso a rientrare in Italia. Quarta riflessione Nel suo libro la Mazzucato ci dice in sintesi che senza uno stato innovatore, che fa la ricerca di base, l’imprenditoria privata anche se supportata dai private equità, non è in grado di stare al passo con la rivoluzione schumpeteriana in atto nel mondo moderno. La Mazzucato assume tuttavia un concetto di Stato ipostatizzato, non scende nell’analisi di chi, di quali classi, di quali decisori siano elementi egemoni nel guidare le scelte innovative dello Stato. Ma nel suo libro traspare chiaramente che negli USA il decisore della ricerca di base è il pentagono. Dice la Mazzucato che il mitico Steve Job non ha fatto altro, con il suo genio, che commercializzare la ricerca di base fatta dal pentagono al capitolo “sicurezza dello stato” conscio che la guerra moderna sarà guerra informatica e di comunicazione. In Cina lo stato innovatore è il Partito Comunista Cinese che sta dimostrando una intelligenza, un coraggio ed una visione a lungo termine inimmaginabili nei paesi capitalisti. La domanda è: chi dovrebbe essere la forza che decide sulle politiche innovatrici dell’Europa? Apprestarsi a rispondere a questa domanda fa venire i brividi alla schiena. Quinta ed ultima riflessione Ragioniamo di Europa e di stati europei; la caduta della nostra cultura di sinistra ci ha portato ad abbandonare il ragionamento per classi. Il ragionamento classista dovrebbe facilmente superare i confini dei singoli stati con quell’internazionalismo che il capitale, zitto zitto ha raggiunto ormai da anni. Anche su questo fronte ci aspettano notti insonni.




La vignetta è del Maestro Mauro Biani








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