L'OCCUPAZIONE DEI GIOVANI:
UN PROBLEMA DI PRODUTTIVITA' DI SISTEMA, NON DI FLESSIBILITA' O COSTO DEL LAVORO
di Riccardo Achilli
Il nostro premier, quando evita di porre ultimatum a sindacati e Parlamento, e cerca di ragionare, giustifica, agli occhi di un Paese in verità più attonito e stordito che realmente arrabbiato (per il momento), la riforma-Fornero con un solo leit-motiv. Serve per creare occupazione fra i giovani, perché senza tale riforma le imprese non investono e non assumono.
Il problema di tale ritornello, e lo capisce anche un fanciullo, è che confonde il contenuto con il contenitore. E’ inutile infiocchettare un contenitore (la riforma) se manca il contenuto (il lavoro). E’ chiaro che, in una situazione del ciclo macroeconomico globale come quella attuale, in cui il segno recessivo è dato dalla peggiore crisi strutturale del capitalismo dai tempi della Grande Depressione, il minimo comune denominatore di qualsiasi politica a favore dei giovani è dato dallo stimolo alla crescita economica, non dalle architetture di mercato del lavoro. Nessuna riforma, quand’anche strutturale, del mercato del lavoro, cioè del “contenitore”, può infatti supplire ad un ciclo recessivo in cui il contenuto, ovvero il lavoro, viene in parte distrutto ed in parte reso instabile, incidendo quindi negativamente sulla qualità ed il tenore di vita, e di conseguenza, nel medio periodo, sul livello e sulla stabilità temporale del trend della domanda aggregata, quindi sul tasso di crescita potenziale, chiudendo il cerchio.
E’ infatti evidente che se il tasso di disoccupazione per i giovani di età compresa fra i 15 ed i 24 anni è, nel 2010, del 20% nella UE 15, rispetto al 14% del 2001, (16,7% a livello di intera area-Ocse nel 2010, rispetto al 12,4% del 2001) e quello dei giovani fra i 15 ed i 34 anni è dell’11,3% nella Ue 15 e del 9,5% nell’area-Ocse, con dati italiani particolarmente preoccupanti, pari al 27,9% per la classe 15-24 anni, ed all’11,9% per la classe 25-34 anni, il problema vero, e valido per tutte le categorie di giovani, è quello di ripristinare un circuito di crescita atto a generare nuovi posti di lavoro.
Tale intervento a favore della crescita passa per il tramite di politiche atte a aumentare la produttività del lavoro rispetto al suo costo, perché in questi anni, ad esempio nel periodo 2007-2010, l’input di lavoro nelle principali economie Ocse è diminuito sistematicamente, da un -0,1% registrato in Germania ad un -1,4% in Italia e -1,8% negli USA, mentre di converso l’input di capitale nei processi produttivi, nel medesimo periodo, è aumentato in tutte le economie Ocse (da un +0,1% in Giappone ad un +0,6% in Francia e negli USA). Il calo di utilizzo del fattore-lavoro è attribuibile ad una insufficiente dinamica della produttività, e non è connesso a elementi di costo o di flessibilità.
Con riferimento al costo del lavoro, infatti, fatto pari a 100 il suo livello nel 2005, in termini unitari esso cresce di appena 9,1 punti, nell’area-Ocse nel suo insieme (e di 11,4 punti in Italia), mentre i prezzi al consumo crescono di ben 11,7 punti nell’area-Ocse, e di 9,9 punti in Italia, per cui di fatto il costo reale del lavoro diminuisce (o nel caso dell’Italia, rimane praticamente fermo dal 2005 al 2010). Peraltro, il costo del lavoro incide sempre meno sulla competitività di costo delle imprese dell’area-Ocse. Infatti, la quota del costo del lavoro sul totale del costo dei fattori diminuisce in tutte le economie Ocse fra 2001/2007 e 2007/2010 (in modo particolarmente rapido negli USA, dove perde 3 punti, ed in Giappone, in cui vi è una riduzione di quasi due punti, ma anche in Italia, dove si riduce di 0,5 punti. La quota del costo del lavoro sul totale dei costi dei fattori, in Italia, è peraltro la più bassa di tutto il G7, Giappone escluso, ed è la più bassa di tutta la UE 15, con l’eccezione di Spagna, Grecia e Belgio)
Significativamente, va in controtendenza in Germania, dove invece la quota del costo del lavoro, fra 2001/2007 e 2007/2010, cresce di 1,6 punti. Proprio cioè in quella economia in cui il grado di rigidità del mercato del lavoro è andato crescendo, poiché l’indice della rigidità della protezione degli occupati, che era pari a 2,09 nel 2002, cresciuto a 2,12 nel 2008, ed è superiore alla media–Ocse, pari a solo 1,94 (peraltro in riduzione di 0,1 punti rispetto al 2002). Ma anche in quella economia che sta registrando la migliore tenuta rispetto alla recessione globale, poiché il PIL tedesco, nel complesso del periodo 2008-2011, è cresciuto del 2,7%, contro una riduzione dello 0,8% a livello UE, ed una crescita di appena lo 0,9% negli USA e dell’1,3% nell’intera area-Ocse.
Evidentemente, quindi, il problema della disoccupazione giovanile non è né nel costo del lavoro né nei sistemi di protezione e di flessibilità, ed a questo ultimo riguardo non incide in nessun modo l’incremento della flessibilità in uscita, contenuto in alcune proposte di aumento della flessibilità del lavoro fatte o lanciate in alcuni Paesi, come la Spagna e l’Italia: in tali Paesi, infatti, l’indice Ocse di protezione del lavoro regolare (cioè il segmento cui dovrebbe applicarsi una maggiore flessibilità in uscita) è già nel 2008 (quindi prima delle riforme) significativamente più basso della media Ocse: è di 1,77 punti in Italia e di 2,46 punti in Spagna, mente in Germania è pari a 3: la produttività del lavoro del più rigido mercato del lavoro tedesco, misurata in termini di PIL per ora lavorata, è pari al 122% di quella italiana, al 113,6% di quella spagnola, ed al 116% di quella del sia pur flessibilissimo mercato del lavoro britannico.
Il problema è quindi nella produttività, che non è cresciuta a sufficienza perché non sono stati fatti investimenti pubblici sui fattori trasversali in grado di farla aumentare in tutto il sistema economico e rispetto a tutte le categorie di lavoratori: investimenti, sul sistema formativo ed educativo, sull’innovazione tecnologica di processo, sulle infrastrutture ed i servizi di mobilità casa-lavoro, sui servizi di conciliazione casa/lavoro (per le lavoratrici).
In aggiunta alla scarsa attenzione ai fattori trasversali, la produttività non è cresciuta anche perché non è stata fatta una politica industriale selettiva, in grado cioè di identificare i settori a più alta crescita prospettica, concentrando su tali settori le risorse pubbliche e gli sforzi di promozione. Oggi noi sappiamo che la green economy può generare grandi bacini di occupazione potenziale, così come la logistica, specie nelle regioni europee meno evolute, o il turismo e l’industria della cultura e del tempo libero, o i servizi specifici (di tipo assistenziale e sanitario, ma anche di leisure) destinati alla quota crescente di popolazione in invecchiamento, che sta creando i presupposti per lo sviluppo di un nuovo mercato nella cosiddetta “silver economy”, o ancora le produzioni di nicchia e qualità (nell’agroalimentare, nel tessile-abbigliamento, nei prodotti per la casa o per la cura personale, nell’automotive), che possono essere riversate su mercati ad altissima crescita della capacità di consumo e del tenore di vita di ampi strati di popolazione, come quelli delle economie BRIC, in grado peraltro di assorbire anche quote crescenti di prodotti intermedi e sistemi di produzione ad alta tecnologia, a servizio della loro stessa crescita. Invece di puntare su tali settori, anche in una logica di creazione di campioni imprenditoriali di scala europea e non soltanto nazionali (il che avrebbe richiesto una politica industriale europea, che si affiancasse a quella monetaria ed a quella fiscale) si è preferito rinunciare alla politica industriale, oppure a riproporla in una logica di assenza di programmazione strategica e di selettività, affidandosi ad incentivi mirati soprattutto alla crescita delle capacità produttive in una chiave generalizzata all’intera economia.
28 marzo 2012
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