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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 11 aprile 2012

IL NON INCORAGGIANTE DECLINO DEL PAGANESIMO PADANO di Riccardo Achilli






Non vi è dubbio alcuno sulla durezza del colpo inferto alla Lega con le vicende giudiziarie recentemente emerse. Difficilmente quel partito potrà tornare sui livelli di influenza e potere goduti sinora.


Intanto perché è lo stesso declino politico di Berlusconi a privare la Lega di un interlocutore fondamentale per andare al potere oltre i potentati locali che riesce a gestire autonomamente (c'è una storia ancora da scrivere sull'aiuto determinante, finanziario, mediatico e politico, che Berlusconi diede alla Lega Nord per farla crescere fino a diventare un partito di rilevanza nazionale), poi perché il danno di consenso di un partito nato e sviluppatosi speculando sul declino delle istituzioni e del senso etico e morale delle classi dirigenti politico-amministrative del Paese, è gravissimo ed irrecuperabile.


Infine perché dietro le dimissioni di Bossi, che però prontamente si è fatto nominare Presidente del partito, si cela una guerra interna devastante, fra l'eterno emergente Maroni, che appare come l'unico in grado di trarre vantaggio dallo scandalo, e che oggi cerca di sfruttare la sua rendita di posizione, inveendo direttamente contro il cerchio magico che ha consentito ad un Bossi gravemente minato dalla malattia che lo ha colpito dal 2004 di rimanere in sella, chiedendo le dimissioni, uno ad uno, di tutti i componenti di questo cerchio. Non si scorge ciò di cui ha bisogno un partito in crisi per riprendersi realmente, ovvero un'idea di svolta politica, ma solo una furiosa lotta per la sopravvivenza fra colonnelli, nessuno dei quali ha la capacità comunicativa di creare un rapporto diretto con la base che aveva Bossi.


Nelle macerie di un potere che sfugge di mano, crolla l'impalcatura buffonesca e folkloristica sapientemente costruita per intrattenere e distrarre un popolo terrorizzato dalle minacce incombenti della globalizzazione, ed in cerca di richiami identitari (non importava molto se storicamente fondati o totalmente inventati) e di modelli neo-medievali di economie comunitarie a circuito chiuso, dove la ricchezza prodotta non esce, se non per essere scambiata, ed in cui il processo di accumulazione e riproduzione del capitale e del lavoro rimane fortemente localizzato e territorializzato. Un curioso misto di economia neomedievale derivante dal pensiero di Miglio, ammiratore di Otto Brunner, disprezzo per il diritto internazionale e ritorno all'antagonismo radicale fra amici e nemici, dove i nemici sono coloro che non appartengono alla comunità locale, in una distorsione del pensiero di Carl Schmitt, rifiuto della globalizzazione associato a idee antisolidaristiche e autoritarie degne del peggior nazionalitarismo di destra.


Finisce anche il mito della “questione settentrionale”, occorre dire colpevolmente rafforzato dallo stesso centro-sinistra, che per interessi di bottega elettorale lo ha ampiamente scimmiottato e messo al centro dell'agenda politica (come dimenticare l'enfasi posta sulla questione settentrionale, in termini assolutamente non dissimili da quelli della Lega, del secondo Prodi, come dimenticare che l'impostazione generale del federalismo fiscale fu varata dal Governo Prodi, e solo successivamente ripresa e portata a termine dal centro destra).


Fra i detriti di una retorica leghista messa in sordina dal clamore delle inchieste, emerge che la “questione settentrionale” è in realtà una questione nazionale, in parte dipendente dalle modalità coloniali con cui l'Italia si è formata sotto lo stivale dei Savoia, ed è lo stesso impasto di reciproca diffidenza (per non dire disprezzo) ed autoreferenzialità che caratterizzano i rapporti fra società civile e classi dirigenti, da Bolzano fino a Pantelleria. Il cittadino trevigiano onesto che paga le tasse viene maltrattato dallo Stato, in termini di qualità dei servizi pubblici erogati, esattamente come l'onesto cittadino palermitano. Anzi, forse il primo beneficia di una qualità lievemente migliore di una pubblica amministrazione che ancora conserva tracce dell'efficienza austroungarica.


La corruzione politica ed amministrativa non ha significative differenze di intensità fra Milano e Bari. L'unica differenza è che, per ragioni storiche, il cittadino del Nord è abituato ad un rapporto maggiormente critico rispetto ad una società meridionale ancora connotata da alcune delle logiche notabiliari borboniche (salvo poi insorgere in un colpo solo, quando la misura è colma, in moti ribellistici la cui violenza ed intensità è generalmente sconosciuta al Nord).


Anche il mito dell'assistenzialismo meridionale pagato dal Nord che lavora è finalmente assordato dalle polemiche, e non, purtroppo, dalle analisi fatte da eminenti studiosi come Adriano Giannola, che dimostrano, dati alla mano, come del cosiddetto assistenzialismo meridionale abbia beneficiato soprattutto l'economia settentrionale, che ha potuto godere dell'afflusso massiccio di manodopera a basso costo, sradicata dalla sua terra proprio dalle politiche assistenzialistiche che non creavano sviluppo nel Mezzogiorno, e che è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale del Nord. Secondo Giannola, se quantificassimo il valore economico delle risorse umane emigrate dal Sud verso la nascente industria del Nord, tale valore supererebbe di 2-3 volte il valore dei flussi finanziari destinati al Mezzogiorno dall'intervento straordinario negli anni cinquanta, sessanta e settanta.


Le stesse politiche di sviluppo del Mezzogiorno hanno consentito alle imprese del Nord di fare enormi affari, nel business degli appalti per le infrastrutture, nonché in quello degli incentivi pubblici alle imprese e della programmazione negoziata, che ha industrializzato alcune aree del Sud incentivando a fondo perduto imprese private del Nord (Fiat, Olivetti, Riva, Rovelli, Moratti, Marcegaglia) oppure creando circuiti di subfornitura, operanti in condizioni semi-schiavistiche, per la produzione di componenti assemblate a basso costo negli stabilimenti del Nord (specie nel tessile-abbigliamento, nel calzaturiero, nella chimica di base o in alcuni casi nella componentistica meccanica).


Senza parlare dello scandalo bancario: le grandi concentrazioni bancarie, propiziate dal centro sinistra negli anni novanta, hanno cancellato il circuito bancario meridionale, mettendolo sotto il controllo dei gruppi creditizi settentrionali, e generando la situazione attuale, in cui le banche del Nord drenano l'ancora ingente risparmio delle famiglie del Sud, per investirlo nel sistema economico delle regioni centro settentrionali (i dati Bankitalia ci dicono che per ogni euro di raccolta di risparmio prelevata al Sud, le banche investono, in impieghi destinati al Mezzogiorno, soltanto 72 centesimi; il resto va a Nord).


Tuttavia, il mito leghista del Nord che lavora per mantenere assistenzialisticamente il Sud non è stato zittito dalla ragionevolezza delle analisi e dalla obiettività dei dati, ma è stato tacitato da uno scandalo giudiziario, dai video su youtube del Trota che prendeva i soldi dal conto corrente del partito, dalle malizie da provincialismo benpensante sui rapporti personali fra Bossi e la Rosy, e questo dimostra il livello infimo di coscienza politica e sociale che affligge questo Paese. Tuttavia, la caduta degli dèi padani è stata sufficientemente ritardata da regalarci un federalismo fiscale che di federalista non ha niente, e che serve soltanto per decurtare i trasferimenti finanziari dello Stato verso regioni ed amministrazioni locali del Mezzogiorno, abbandonando a sé stesse quelle regioni che, per via del loro ritardo di sviluppo, non hanno una base imponibile tale da poter compensare con il gettito fiscale regionalizzato il taglio dei trasferimenti statali, e che quindi dovranno ridurre anche significativamente livello e qualità dei servizi pubblici essenziali erogati ai cittadini. Un federalismo fiscale concepito in ossequio alla “economia a circuito chiuso” neomedioevale, mirata a mantenere la ricchezza prodotta entro le mura della micro-comunità locale.








La triste verità è che il fenomeno leghista è lo specchio fedele del declino del Paese, ed in specie del settentrione.


Un Nord Italia che è cresciuto impetuosamente tramite il volano del commercio estero, e quello meno nobile della corruzione e dell'affarismo illegale (è lo stesso Berlusconi a ricordarci, con la sua consueta goliardia, che nella “Milano da bere” degli anni Ottanta, per lavorare gli imprenditori dovevano presentarsi con i soldi in bocca negli uffici del Comune, alimentando un enorme circuito affaristico/clientelare) ad un certo punto ha iniziato ad avere paura della globalizzazione che lo aveva arricchito, perché oramai, alla svolta fra anni Ottanta ed anni Novanta, aveva perso competitività rispetto ai concorrenti stranieri.


Si potrebbe tracciare una vera e propria correlazione statistica fra caduta della competitività internazionale dei sistemi produttivi del Nord e andamento della curva elettorale della Lega nord: nel periodo 1970-1985, l'export dell'economia del Nord cresce ad un tasso medio annuo del 21%; fra 1985 e 1994, negli anni dell'affermazione e consolidamento del fenomeno leghista, tale crescita è scesa al 9% medio annuo, segnalando una riduzione della capacità di penetrazione commerciale sui mercati esteri da parte delle imprese settentrionali. Discorso analogo vale per l'occupazione: negli anni 1980-1989, le unità di lavoro, nell'Italia del Nord, crescono ad un tasso medio annuo dello 0,6%. Negli anni 1990-1995, ovvero gli anni dell'affermazione del fenomeno leghista sulle ribalta nazionale, l'occupazione settentrionale diminuisce al tasso medio annuo dello 0,4%.


Anche l'altro circuito di arricchimento, ovvero i legami affaristico/clientelari con il circuito politico locale, a partire dagli anni Novanta si esaurisce, ed ancora una volta a causa di un vincolo esterno legato alla globalizzazione: la crisi valutaria della lira legata alla speculazione internazionale del 1992/93 ed i nuovi vincoli alla gestione della finanza pubblica indotti, ancora una volta dall'esterno, ovvero dal Trattato di Maastricht del 1992, spezzano il legame fra economia e politica, che aveva generato l'esplosione del debito pubblico, andando a costituire una importante causa della rimozione della precedente dirigenza politica operata tramite Tangentopoli.


E' quindi evidente che il leghismo è frutto della paura di perdere le posizioni di ricchezza e benessere acquisite, paura legata ad un globalizzazione che non è più fonte di sviluppo per l'economia settentrionale, ma che, per la perdita di competitività del modello industriale settentrionale (sia di quello basato sulla grande industria del Nord Ovest che di quello fondato sul modello distrettuale di impresa diffusa del Nord Est) e per l'estinzione imposta dall'esterno del tradizionale ciclo di crescita basato su corruzione e consociativismo, diviene la causa di una perdita di ricchezza e di un incremento della disoccupazione. E la risposta della Lega è una risposta difensiva e regressiva, non una risposta in grado di riattivare un percorso di ripresa della competitività e di consentire ad una società smarrita ed impaurita di avere un colpo di reni: la risposta è semplicemente quella di chiudersi nelle sacre mura della propria comunità locale, cacciare via gli immigrati, incolpati di togliere i posti di lavoro (sempre meno numerosi), difendere a denti stretti la ricchezza prodotta (a ritmi sempre meno floridi) dal prelievo fiscale esterno alla comunità. La storia insegna che il declino corrisponde sempre a soluzioni difensive dettate dalla paura. Paura che poi si coniuga bene con il securitarismo, con la criminalizzazione degli immigrati, con le ronde padane, altrettanti fenomeni compensatori di una strisciante insicurezza ed ansia che pervadono una società confusa ed incapace di reagire alla sua crisi di identità e valori.




E come declina l'economia, nel Nord viene progressivamente meno anche il tessuto connettivo sociale e culturale, una tendenza assecondata, ancora una volta, da un vertice leghista sempre più volgare, truce ed aggressivo, con uno scadimento del linguaggio politico, e lo spegnimento di qualsiasi capacità di analisi, fino al gossip familiare da rivistone scandalistico del Grande Capo Umberto con il suo Discendente Trota, e ad una crescita delle evidenze del malaffare e della corruzione interna al partito di cui però nessuno si cura, fintanto che il bubbone non esplode. L'alleanza con Berlusconi, un tempo assai indigesta al leghismo più puro perché Berlusconi rappresenta il prototipo del grande capitale legato alla globalizzazione, e visto quindi come fonte di rovina dalla piccola borghesia e dal proletariato, diviene un elemento da accettare senza nemmeno tapparsi più il naso, perché garantisce un ritorno di potere e di influenza politica.


Il declino economico, sociale e culturale che sorregge il fenomeno leghista è però ampiamente una responsabilità della sinistra.


Non si può essere indulgenti su questo punto. La Lega ha una base di consenso interclassista che include il dentista e l'avvocato o il piccolo imprenditore al pari dell'allevatore e dell'operaio. Molti elettori della Lega della prima ora votavano, o erano addirittura iscritti, al PCI ed alla CGIL.


La sinistra ha lasciato che una parte importante della sua classe di riferimento fosse attratta dalle false promesse di protezione localistica ed egoistica della Lega. Il motivo è del tutto ovvio: il PCI e la CGIL, dalla svolta berlingueriana, corrispondente, in ambito sindacale, a quella di Lama nel congresso dell'Eur del 1980 e portata a termine da Trentin, abbandonò ogni velleità di difesa degli interessi di classe, imborghesendosi in un rapporto con la Dc (nella parentesi del compromesso storico) e poi con il grande capitale (adottando una piattaforma programmatica sempre più liberista) fino a sposare la globalizzazione come fenomeno inevitabile, con cui convivere (ed addirittura foriero di progresso).



Il centro-sinistra prodiano, strategicamente alleato con il grande capitale bancario e con la grande industria, non ha fatto che acuire l'imborghesimento della sinistra italiana. Consegnando importanti quote del proletariato del Nord, private di un partito di riferimento e di una educazione di classe adeguata, alle sirene neomedievali del leghismo, le uniche a criticare gli effetti socialmente distruttivi della globalizzazione, e le uniche, oggi, a criticare il Governo neoliberista di Monti, ancora una volta ampiamente difeso da PD e CGIL.


Le modalità del crollo del leghismo non sono incoraggianti, perché tale fenomeno politico crolla non per una crisi, indotta da sinistra, dei suoi valori fondanti e della sua linea politica, ma da una serie di scandali giudiziari probabilmente anche pilotati in modo da zittire una componente critica nei confronti della svolta neoliberista in atto.


Quindi ancora una volta la sinistra non è stata protagonista, con il risultato che la base proletaria del leghismo, abbandonata a sé stessa è oramai derubata di ogni residuo di coscienza di classe da decenni di indottrinamento bossian/berlusconiano, sarà molto probabilmente nuovamente intercettata da qualche altra forma di populismo di destra.


Ancora una volta, è urgente ed indispensabile che un soggetto genuinamente di sinistra sappia intercettare tale proletariato, ricucendo un rapporto basato su valori di sinistra di coesione, solidarietà, unità, giustizia sociale, proponendo quindi una soluzione offensiva, generosa e coraggiosa, e non la soluzione difensiva, egoistica ed impaurita proposta dalla Lega, per uscire dalla crisi.


Ancora una volta, occorre dolorosamente constatare che tale soggetto di sinistra non esiste.

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