COSA
SUCCEDE IN BRASILE?
di
Riccardo Achilli
Sulle affollate e persistenti
manifestazioni di piazza in Brasile sta circolando una interpretazione, che si
va consolidando nella sinistra italiana ed europea, imperniata sulla denuncia
della pesante infiltrazione della destra, funzionale a far precipitare il Paese
in una condizione in cui sia più facile far cadere il governo del PT guidato
dalla Rousseff.
Tale interpretazione è ovviamente
corretta. Il Movimento Sem Terra, in un sintetico comunicato in cui analizza
gli eventi in corso, lo conferma, affermando che “la destra si infiltra e tenta
di generare un clima di violenza , di caos e dar la colpa al PT e a Dilma”[1]. D’altra
parte, basta vedere come i politici di centro-destra brasiliani stiano
strumentalizzando la situazione per trarne vantaggio. Dirò di più: una cosa che
non è stata sottolineata a sufficienza è che negli Stati in cui la protesta è
esplosa (São Paulo, Rio de Janeiro, Minas Gerais) il governatore è un moderato
(o del PSDB o del PMDB). Inoltre, sia le politiche di tariffazione dei
biglietti dei mezzi pubblici di trasporto (uno dei detonatori della protesta) e
la gestione del welfare (ivi compresa la maggior parte degli ospedali pubblici [2]), sia la
gestione della polizia militare che ha represso le proteste, sono di competenza
del governatore dello Stato, non del governo centrale della Rousseff (va però
anche detto che lo Stato di Bahia, dove la protesta è stata molto virulenta, è
amministrato da un governo del PT, ma in questo caso l’intensità delle
manifestazioni è anche derivante dal fatto … che la nazionale brasiliana ha
giocato a Salvador de Bahia la sua partita determinante e più “prestigiosa”,
contro l’Italia). D’altra parte, invece, mentre i governi locali mandavano la
polizia, il Governo centrale ha immediatamente teso la mano ai manifestanti,
cercando sin da subito un dialogo, fino alle proposte delle ultime ore, in cui
la Rousseff si impegna formalmente ad investire maggiormente nel settore
sanitario ed in quello scolastico, e persino a mettere in piedi una riforma
della Costituzione, per cercare (ovviamente invano, perché non è con le norme
costituzionali che si risolve il problema) di dimostrare impegno contro il
fenomeno della corruzione, altro cavallo di battaglia dei manifestanti.
Evidentemente, quindi,
l’obiettivo reale delle proteste è la malagestione di servizi pubblici
essenziali amministrati da Stati, nella maggior parte dei casi, governati da
forze centriste e moderate, non dal PT, non dalla sinistra. Inoltre, la repressione
poliziesca delle proteste è gestita perlopiù dai singoli Stati, mentre il
governo federale cerca un accordo, reso difficile anche dall’assenza di una
struttura di vertice rappresentativa dei manifestanti. Che a livello mediatico
se ne sia fatto invece un problema di governo centrale della Rousseff dimostra
chiaramente che è in atto una manipolazione mirata ad indebolire l’esperimento
progressista brasiliano, e, indebolito questo, a catena colpire tutti gli altri
analoghi esperimenti in atto in tutta l’America Latina. I vantaggi politici ed
economici del soffocamento del tentativo latinoamericano di affrancarsi dai
legami imperialistici ancora esistenti sono evidenti.
Tuttavia, tali spiegazioni, per
quanto vere, sono forse rassicuranti, perché se, come ci dicono i sondaggi,
larghi settori della società brasiliana (quindi anche fasce di elettori del PT)
sono sostanzialmente d’accordo quanto meno con i motivi delle proteste, evidentemente non si può liquidare la
questione rassicurandosi con i “soliti fascisti” che manovrano le proteste
dietro le quinte. Ci sono evidentemente delle contraddizioni profondamente
radicate nel modello di sviluppo che il PT, da Lula alla Rousseff, ha proposto
al Paese in questi ultimi dieci anni, e che stanno esplodendo oggi. In verità,
i primi segnali di tensione del modello progressista del PT sono emersi già in
sede di elezioni presidenziali del 2010: smentendo tutti i pronostici, la
Rousseff è stata infatti costretta ad andare al ballottaggio, avendo preso poco
meno del 47% dei voti al primo turno. Questo piccolo incidente di percorso
avrebbe dovuto segnalare che il consenso popolare attorno al modello proposto
dal PT era forte, ma non così forte come si pensasse.
Pertanto, oggi che la protesta è
esplosa, evitare la questione delle contraddizioni del modello progressista
brasiliano, o derubricarla, è pericoloso, perché non è mettendo la polvere
sotto il pavimento che si evitano i pericoli di crollo di un modello sociale e
politico, crollo che sarebbe esiziale per tutta l’America Latina. Solo
affrontando i temi irrisolti si può sperare di rilanciare, con nuovo vigore e
rinnovata adesione popolare, l’esperimento progressista di un intero
continente.
Due cifre diverse, l’una che
misura un fenomeno assoluto, l’altra che ne misura uno relativo, racchiudono in
sé, probabilmente, un buona parte delle ragioni della protesta, e danno un
quadro dell’esito reale delle politiche più celebrate dell’era di governo del
PT, ovvero quelle redistributive. Iniziamo dal dato che misura il fenomeno
assoluto: la quota di brasiliani che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno,
lo standard internazionale dell’indigenza assoluta, si riduce cospicuamente
durante gli anni di governo progressista, dal 10,6% del 2002 al 6,1% del 2009,
ed è in continua ed ulteriore riduzione anche dopo il 2009. Ciò significa che
le politiche del PT, a partire dal tanto celebrato programma Fame Zero e dal
programma Bolsa Escola, hanno avuto un successo notevole nel ridurre in termini
assoluti l’area della povertà estrema.
Se però guardiamo alla quota di
reddito nazionale detenuta dal 10% dei brasiliani più poveri, essa non cambia
quasi per niente: passa dallo 0,6% allo 0,8% fra 2002 e 2009. E rimane anche
bassa se paragonata ad altri Paesi latinoamericani: è dell’1,2% in Argentina,
dell’1,8% in Uruguay, dell’1,5% in Cile, dell’1,2% in Ecuador.
Il secondo 20% dei brasiliani per
classe di reddito (un gruppo coincidente cioè con i ceti medio-bassi, con la
categoria degli impiegati esecutivi, dei
tecnici, degli operai specializzati) passa dal detenere il 5,9% del reddito
nazionale nel 2002 al 7,1% nel 2009, una variazione, anch’essa, di scarso
valore. In Argentina, tanto per fare un paragone, tale classe di redditieri
detiene l’8,9% del reddito nazionale, cioè il 25% in più rispetto ai propri
omologhi brasiliani. In Uruguay, il valore è quasi identico a quello argentino
(8,8%), così come è più alto anche il dato ecuadoriano (8,5%). La quota di
reddito detenuta dai ceti medio-bassi brasiliani è analoga a quella di un Paese,
come la Colombia (6,8%) che ha avuto governi liberisti di destra [3].
Questi dati ci dicono che sebbene
il PT abbia ottenuto notevoli successi nella riduzione dell’area di indigenza
oggettiva in termini assoluti, cioè in termini di numero di famiglie oggettivamente
estremamente povere, non ha avuto altrettanto successo in termini relativi,
cioè in termini di migliore redistribuzione del reddito fra le classi sociali,
poiché le classi di reddito medio-basso non colmano in misura significativa la
distanza che le separa dalle classi di reddito più elevato (anzi, tali distanze
aumentano, perché se la quota di reddito nazionale detenuta dal 10% dei più
poveri non si modifica, e quella detenuta dal secondo 20% dei redditieri
aumenta solo di 1,2 punti, già a partire dal terzo 20% dei redditieri,
coincidente con le classi di reddito medio-alte, tale quota aumenta di 2 punti,
ed il 20% dei più ricchi continua a detenere circa il 59% del reddito nazionale
brasiliano). E poiché la povertà non ha solo una dimensione oggettiva (cioè
derivante dall’oggettiva capacità di soddisfare o meno le necessità vitali
basiche) ma anche una dimensione percepita (derivante dal paragone che
l’individuo fa fra il suo tenore di vita e quello della media della società cui
appartiene) ecco che l’incapacità di ridurre in modo significativo le distanze
relative fra i più poveri ed i più ricchi diventa, naturalmente, fonte di
frustrazione e rabbia sociale latente, nonostante il fatto che, oggettivamente,
e grazie anche alla crescita economica, i più poveri stiano meglio di prima. In
sostanza, si è verificata una traslazione verso l’alto dell’intera società, che
però non ha ridotto (ed anzi per certi versi ha aumentato) le distanze relative
fra le sue varie componenti.
Evidentemente, nel contesto sopra
descritto, quando un evento come il mondiale di calcio viene percepito come una
opportunità di business per i “soliti” più ricchi, mentre elementi di welfare a
forte carattere redistributivo vengono trascurati nelle scelte allocative di
spesa pubblica, la dimensione percepita della povertà trasforma la frustrazione
in rabbia sociale al primo episodio che conferma la percezione dell’ingiustizia
(l’aumento del biglietto dell’autobus, ad esempio).
Questa rabbia da “povertà
percepita” diviene peraltro tanto più forte quanto più si concentra nei ceti
medi urbani (diciamo nel proletariato terziarizzato urbano) che, essendo usciti
dall’indigenza più assoluta, aspirano ad una ascesa rapida del proprio tenore
di vita, tanto più considerando gli elevati tassi di crescita dell’economia
brasiliana degli ultimi anni (che in teoria dovrebbero creare gli spazi per
dare risposta alla domanda di benessere di tali gruppi sociali), ma si vedono
compressi , in tale aspettativa tipica dei ceti sociali emergenti dei Paesi capitalistici
in crescita, da un meccanismo redistributivo ancora penalizzante se paragonato
agli altri Paesi progressisti dell’area, che va a determinare una dispersione
non favorevole attorno ad un Pil pro capite medio che, depurato dall’inflazione
non proprio bassa, è pari a solo il 92% del dato uruguayano, ed all’84% di
quello cileno. In sostanza, i ceti medi brasiliani non sperimentano lo stesso
processo di aumento rapido del benessere che sperimentarono i ceti medi
italiani durante il boom economico degli anni cinquanta del secolo scorso. E
ciò genera frustrazione.
E naturalmente la rabbia si
appunta sugli elementi redistributivi del welfare, per definizione la sanità e
la scuola. E si alimenta di considerazioni reali: la spesa pubblica
rappresenta, nel 2011, il 45,7% della spesa sanitaria totale, un valore molto
basso anche rispetto ai Paesi dell’area (ad esempio, in Bolivia la spesa
pubblica rappresenta più del 70% del totale della spesa sanitaria, in Argentina
il 60,6%, in Colombia il 74,8%, in Uruguay il 67,6%, persino in Cile è più
alta, raggiungendo il 47%). Peraltro, tale quota non mostra alcuna crescita dal
2002 in poi. Con il risultato che ancora larghissima parte della sanità
brasiliana è privatizzata, e costringe chi vuole avere un’assistenza minimamente
decente ad acquistare costose assicurazioni sanitarie (i convenios) mentre la
sanità pubblica, tranne alcune eccellenze, è di cattiva qualità media. Un
discorso analogo vale per la scuola. Il
5,6% di PIL dedicato alla scuola, che per noi italiani sembra una cifra
astronomica, è un dato inferiore a quello di altri Paesi dell’area (Bolivia,
Argentina) e largamente sottodimensionato rispetto alle possibilità del Paese,
stante la sua crescita molto dinamica. Se poi si aggiunge che la gioventù è spesso
esclusa dai processi di partecipazione politica, il salario di ingresso per un
giovane neoassunto si aggira mediamente attorno ai 250 euro mensili, mentre
l’affitto di una stanza (non di un appartamento) a San Paolo può costare anche
150 euro al mese, diventa facile capire perché molti giovani studenti
universitari dei ceti medi e medio-bassi animino le proteste.
Se a ciò si aggiunge un clima
sociale non certo tranquillo, perché il Brasile è fra i venti Stati del mondo a
più alto tasso di omicidio, la criminalità legata alle gang di strada è un
pericolo costante, associata ad una polizia particolarmente aggressiva e
violenta, i sequestri di persona sono particolarmente frequenti e colpiscono,
ovviamente, le classi medio-alte, mentre le compagnie di sicurezza private
fioriscono, e la corruzione, secondo la classifica di Transparency, è di
livello medio-alto (con una posizione in graduatoria basata sul corruption
perceptions index grosso modo analoga a quella italiana) è comprensibile che
settori della società brasiliana, tipicamente quelli a più alto tasso di
istruzione, inizino a provare un disagio crescente rispetto al modello di crescita proposto dal PT. Un
modello in cui entra in crisi la presunzione di correlazione inversa, tipica
della cultura di sinistra tradizionale, fra crescita economica e declino della
criminalità e dei fenomeni corruttivi, mentre emerge l’immagine tipica di un
capitalismo emergente, rampante e con non molti scrupoli, in cui crescita
economica e criminale vanno a braccetto. Tale convergenza avviene nella misura
in cui la criminalità fornisce una risposta alla domanda emergente di tipo
consumistico/edonistico di chi, dentro questo processo, si arricchisce (non
certo i ceti medio-bassi della società, come detto in precedenza) e fornisce
soluzioni compensative a chi invece subisce la crescente alienazione di
processi di crescita privi di equa redistribuzione sociale (sotto forma di
droga a basso costo ma alto potenziale distruttivo, come la pasta-base, o di
altre attività di “distrazione” gestite dalla criminalità), fornisce soluzioni
a basso costo per i problemi di reclutamento di manodopera e di gestione
ambientale delle imprese, crea mercati paralleli dentro i quali oliare, con la
corruzione, i processi di crescita di interi comparti produttivi, come
l’edilizia, ma anche il settore delle bioenergie e quello estrattivo (che
spesso operano, anche con i governi del PT, con logiche predatorie rispetto
alle terre possedute dalle comunità indigene, o rispetto alle esigenze
ambientali) ed infine consente di sfruttare, tramite il sommerso economico,
spazi interstiziali di mercato che, come ci dimostrano Schneider ed Enste
(2010) non sarebbero mai valorizzati da imprese legali, aumentando quindi il
tasso di crescita potenziale dell’intera economia, ivi compreso il settore
legale di essa.
E’ chiaro che tali degenerazioni
non sono appannaggio del solo modello brasiliano. Anche in quello uruguayano,
dove la crescita è guidata da un altro schieramento politico progressista, si
notano gli stessi ingredienti di forte liberazione dalla povertà più estrema,
che però non modifica la sperequazione distributiva in termini relativi,
penalizzando quindi i ceti medi e medio-bassi, che non vedono benefici dalle
politiche sociali del Governo, e di forte associazione fra crescita e
ampliamento della criminalità, della corruzione e dell’insicurezza generale. Si
tratta quindi di lineamenti abbastanza caratteristici di molte esperienze
progressiste in America Latina, e per questo motivo serve una analisi seria, critica,
di tali esperienze, perché la critica è l’unico modo per preservarle e farle
andare ancora avanti.
[1] http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2013/6/23/34770-movimento-sem-terra-su-proteste-in-brasile/
[2] Esiste
infatti un sistema sanitario pubblico nazionale finanziato da fondi federali
(il SUS) ma la gestione della maggior parte degli ospedali, ad eccezione dei
centri di eccellenza e dei policlinici universitari, avviene su scala statale e
municipale, così come è gestito su scala comunale il programma PSF, analogo
alla nostra ADI. Inoltre, i singoli Stati sono anche responsabili della
programmazione del sistema sanitario statale, mentre al livello federale rimane
solo il compito di finanziare e coordinare/valutare il sistema.
|3| Fonte:
world indicators database.
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