Come contributo al dibattito sulla trasformazione
delle strutture della società del sistema economico vigente, ripubblichiamo
volentieri un saggio dell'ex Segretario del PSI Francesco De Martino, scomparso
oltre un decennio fa, che il 26 Febbraio 1982 sulla rivista “Rinascita” interveniva in merito alla “terza via”,
intermedia tra comunismo e socialdemocrazia, proposta dal PCI e che De Martino
preferiva chiamare “nuovo socialismo”, sviluppandola sul piano teorico e
configurandola come base programmatica di un accordo di governo da realizzare,
sostenuto per la prima volta da socialisti e comunisti. Prospettiva questa che
avrebbe messo in discussione la linea politica del PSI di Bettino Craxi,
realizzato veramente in questo paese l'alternativa di governo alle forze
conservatrici e di centro e gettato finalmente le basi politiche di una
trasformazione democratica e graduale del capitalismo italiano. E' interessante
notare in questo scritto la riproposizione di aspetti salienti del programma
del Partito d'Azione (non citato in modo esplicito) cui il professore aveva
dato un valido contributo in gioventù, circa l'economia a due settori e quelli a
carattere morale ed educativo dei lavoratori, che avrebbero dovuto essere i
veri artefici del processo graduale di costruzione di una nuova società.
ANCHE SE
DIVERSI INSIEME SULLA TERZA VIA
di Francesco de Martino
Vorrei
dire come un socialista che si ricollega ai caratteri originali del socialismo
italiano veda la concezione, la sostanza della cosiddetta terza via.
Almeno
fin dal congresso di Venezia del 1957, il PSI si pose in termini teorici e
politici il tema di un socialismo diverso da quello che si era realizzato
nell'URSS e dalle esperienze socialdemocratiche europee. Il tema predominante
fu quello dell'autonomia del partito dal comunismo. Tale posizione giunse in
ritardo, solo dopo le denunce kruscioviane, ma giunse. Essa si dovette
all'impulso dato da Nenni e da vari di noi alla critica del sistema politico
che si era venuto costituendo nell'URSS. Fu affermata la necessità di ricongiungere
il socialismo con la libertà, considerando questa una conquista di valore
universale, non una categoria borghese. Venne in pari tempo tenuto fermo il
principio, di stampa marxista, che senza l'emancipazione economica dei
lavoratori nemmeno la democrazia politica avrebbe potuto spiegare tutti i suoi
potenziali elementi positivi. In questo si esprimeva una critica all'esperienza
socialdemocratica, critica che non investiva il metodo politico, ma il fatto di
aver accettato più o meno il sistema economico del capitalismo. Su questo tema,
fino alle vicende del Midas, il PSI ha condotto una lotta coerente, che sul
piano politico ebbe come conseguenza più rilevante la proposta di associare il
PCI ad una maggioranza di governo, non solo per contingenti ragioni, ma per una
prospettiva di più grande respiro storico, quella cioè di una piena
integrazione del PCI in un sistema di valori democratici propri dell'Europa
occidentale. Tale linea si fondava sul presupposto che i comunisti non
avrebbero potuto sottrarsi alla necessità di fare i conti con sé stessi, quindi
di conseguire una piena autonomia. Sarebbe ingiusto non ricordare la
chiaroveggente intuizione di Giorgio Amendola il quale, in modo coraggioso per
il tempo in cui lo faceva, sostenne il fallimento del comunismo e della
socialdemocrazia e indicò dunque una strada che soltanto dopo prove
drammatiche, talvolta tragiche, si sarebbe aperta in modo concreto. Vi era in
tutto questo, come in talune intuizioni di Togliatti, sebbene oscurate dal
permanente legame con l'URSS, per mezzo della formula “unità nella diversità”,
l'idea che il modello comuinista non poteva essere esportato in Occidente e che
esso non era comunque desiderabile. La critica espressa nel memoriale di Yalta
alla mancanza di democraticità del sistema implica tale conclusione.
E
ora dopo questi riferimenti, che non hanno un semplice valore storico, vorrei
entrare nel vivo del dibattito. Comincio col rilevare che l'espressione “terza
via” si presta a interpretazioni vari, perché il termine richiama la nozione di
un percorso, quindi in senso figurato più il modo di realizzare il socialismo,
che la sua sostanza. Vi è naturalmente questo significato, perché problemi
della cosiddetta transizione, che sono stati così acutamente analizzati da Lelio
Basso e da altri, esistono e sono complessi. Ma bisogna sgombrare il campo
dall'idea che la terza via sia qualcosa di diverso da quella democratica
occidentale. Se fosse così, se fosse solo una questione di modi politici,
istituzionali, avrebbe ragione chi nega che esista una terza via, perché,
respinta la prima, l'altra non potrebbe essere che quella autoritaria. Tuttavia
anche in questo senso qualche precisazione non è superflua. Di forma
democratiche ve ne sono varie, seconda delle vicende storiche di ciascun paese,
del grado maggiore o minore della partecipazione effettiva delle masse
lavoratrici all'esercizio del potere. Non starò qui a ricordare che le
rivoluzioni democratiche non avvennero dovunque allo stesso modo e nello stesso
tempo, né che esse una volta attuate furono poi consolidate definitivamente, né
le varie versioni borghesi della democrazia. Allorché dunque ci rivolgiamo al
modo democratico di realizzare il socialismo mediante un processo graduale,
intendiamo parlare di un sistema molto avanzato,di una democrazia giunta al
massimo della sua potenziale espansione di libertà, dell'esistenza di garanzie
di istituzioni, che costituiscano un effettivo equilibrio di poteri, che
impediscano accentramenti di carattere autoritario nella sostanza delle cose,
anche se dissimulati sotto forme democratiche. La democrazia non consiste
soltanto nel normale funzionamento del Parlamento eletto, di una pluralità di
partiti, di una magistratura libera e così via, ma anche nella presenza
organizzata delle forze sociali, dei sindacati, di organi di democrazia
industriale, di estesi poteri decentrati.
Non
basta riferirsi a tale concezione della democrazia per definire la terza via.
Occorre invece precisarne la concreta sostanza, cioè l'ordinamento della società,
del sistema economico che si intende conseguire mediante una progressiva
opera riformatrice. Su questo noi abbiamo dei limiti negativi molto chiari, che
però non sono sufficienti a definire in modo positivo la teoria, anche se essi
hanno il loro valore anche a questo fine. Il socialismo della terza via diverso
e nuovo rispetto alle esperienze fino ad oggi realizzate in Europa, quella del
comunismo o socialismo reale che dir si voglia e quella della socialdemocrazia.
Sarebbe dunque più proprio parlare di “nuovo socialismo” anziché di terza via:
questo termine risponderebbe meglio all'idea di una nuova fase del socialismo.
Va subito detto che anche questo termine vago, sia perché “nuovo” può
significare molte cose diverse persino
contrastanti fra di loro, sia perché ormai anche “socialismo” ha una grande
varietà di significati. Conviene perciò non indugiare su un problema di nomi,
dal momento che le specificazioni sono indispensabili. Quindi è preferibile
rivolgere queste e la nostra ricerca per giungere alla massima chiarezza
possibile in un campo nel quale certo non tutto può essere detto
preventivamente per scrivere un bel programma a tavolino, disgiunto
dall'azione politica effettiva, ma possono e devono essere precisati caratteri
fondamentali. Critici della terza via addebitano ai suoi fautori di non aver
mai precisato in che cosa essa consista, quindi fanno pesare su di loro
l'incapacità di una concreta definizione, una voluta ambiguità principalmente
l'errore di annunciare qualcosa che non può esistere. Lascio da parte gli
argomenti degli espedienti polemici che
dimostrano scarsa volontà di affrontare
una discussione seria. Così quello che configura la terza via come intermedio
tra comunismo e socialdemocrazia, che si fonda su un'equidistanza dall'uno e
dall'altra, senza alcun giudizio di valore. Viceversa è utile affrontare il
dibattito proprio sul terreno sul quale ci sfidano i critici, per dimostrare
che la terza via, quella di un socialismo nuovo, diverso, che esso è possibile,
anzi il solo che può dar vita nell'Occidente europeo ad una società socialista,
che implichi in tutti i campi, vita sociale, cultura, etica ed economia, una
conquista di valori più elevati rispetto a quelli fino ad oggi conseguiti in
due secoli di storia. L'idea fondamentale dovrebbe, a mio parere consistere in
una sintesi tra il momento individuale e quello collettivo, in modo da
salvaguardare pienamente quel complesso di valori di libertà, nel senso più
ampio del termine, che sono stati conquistati fino ad ora in Occidente, nello
stesso tempo realizzare un ordinamento della proprietà socialista, che renda
possibile una gestione razionale dell'economia. La principale differenza tra
socialismo e socialdemocrazia, come questa si è configurata nel nostro secolo,
consiste in ciò, che una teoria socialista esige l'esistenza di una proprietà
sociale dei mezzi di produzione; in questo supera il sistema capitalistico,
mentre la socialdemocrazia, di fatto talvolta anche in termini di principio,
ritiene conciliabile una più o meno avanzata giustizia sociale nell'ambito del
sistema, da riformare quindi, non da superare e da distruggere. Così si
dichiara che per un “moderno” socialismo per un socialismo “possibile” non è
necessario abolire la proprietà privata, che il fine della lotta non è
l'abolizione della proprietà, ma l'estensione massima della democrazia, che si
possono ottenere mediante la pianificazione, far funzionare i congegni
dell'economia privata in modo da conseguire fini sociali fissati dal potere
democratico, ovvero che si possono correggere gli effetti negativi delle forze
che operano in un mercato cosiddetto libero con opportuni interventi per mezzo
di istituzioni, come la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e così
via. In via teorica si ritiene il pluralismo, essenziale per la democrazia,
incompatibile non solo col leninismo, nel che si può essere d'accordo, ma anche
con il marxismo, il che mi sembra del tutto ingiusto.
Conviene
tuttavia rilevare che la pratica della socialdemocrazia in vari partiti europei
è in una fase di rielaborazione, anche perché sono venuti a mancare taluni
presupposti di fatto che avevano reso possibile il cosiddetto Stato del
benessere. Si può rilevare che l'idea di un socialismo diverso dall'esperienza
socialdemocratica si è fatta strada, così nel Partito socialista francese nella
concezione di Mitterand, così nel tentativo svedese di superare il capitalismo,
così in ampi gruppi della Spd, così nel Labour Party, con la direzione della
sinistra. Ricordo anche che Mario Soares ha parlato di un socialismo diverso
dal comunismo e dalla socialdemocrazia, ha tentato di attuarlo almeno nella
prima fase della rivoluzione dei garofani. Né può ignorarsi la linea di Andreas
Papandreu, che certo non può identificarsi con l'antica pratica socialdemocratica.
Ma come si può configurare questa proprietà
sociale dei mezzi di produzione, che non può non essere la caratteristica di
una teoria socialista? Il problema non riguarda solo i modi di gestione, se
autoritativi diretti per mezzo dei lavoratori, cioè l'autogestione, anche se si
tratta di un punto capitale. Esso, anche quello dell'estensione della proprietà
sociale, se cioè debba investire tutta la sfera della proprietà in qualunque
grado e forma di essa, ovvero essere principalmente auspicabile in taluni campi
dell'attività produttiva e per taluni tipi di produzione. Non vi è dubbio che
un collettivismo totale, imposto per giunta in modo autoritario, ha dato
risultati infelici generalmente negativi , non solo perché esso induce alla
burocratizzazione sempre più accentuata del sistema, ma anche perché risulta
meno efficiente di come invece sarebbe la proprietà individuale in alcuni tipi
e forme di impresa.
Il criterio discriminante non può che desumersi
dall'esperienza, ma si dovrebbe essere in chiaro sul fatto che la proprietà dei
beni d'uso di consumo va mantenuta, nel campo produttivo quella di numerose
piccole aziende, fino a che i loro titolari riescano a mantenerle
economicamente efficienti e remunerative. In un sistema nel quale vi sia una
miriade di piccole imprese, sarebbe un grave errore pensare alla loro
eliminazione.
Occorre
dunque accettare l'idea, non nuova per
la verità, di un'economia a due settori, nella quale tuttavia la parte
determinante non può non essere sottratta alla disponibilità privata, come per
l'industria di base, la produzione di energia, grandi complessi non soltanto
quelli di tipo monopolistico, le banche, gli istituti di carattere finanziario,
trasporti terrestri e marittimi di carattere nazionale, le grandi holding del commercio
internazionale e interno. Un'attenzione particolare va posta sui problemi
dell'agricoltura, per i quali non si può ignorare il forte individualismo del
produttore, né si può ignorare il deprimente effetto di misure statali che,
sottraendo la disponibilità dei prodotti, assoggettandoli a un regime di prezzi
imposti, hanno come sola conseguenza dell'attività produttiva, della quantità
del prodotto. Ma da un altro verso il tema dell'agricoltura ha una grande
importanza e va affrontato con energia e decisione, nel senso cioè di sottrarre
il lavoro agricolo a quella sorta di inferiorità economica- sociale in cui
versa in relazione ad altre attività come quella dell'industria. La dittatura
dell'industria, per la quale si batteva nei primi anni del regime sovietico
Trotsky, in forme e modi diversi, ha continuato ad essere esercitata anche nei
paesi occidentali, né i sindacati sono esenti di responsabilità in questo
campo. Un principio fondamentale dovrebbe essere opposto, cioè quello della
piena uguaglianza del lavoro e del reddito agrario. Questo dovrebbe essere il
primo stadio di una trasformazione socialista; il secondo sarà quello della
progressiva creazione di forme associate, che subentrino a quelle individuali,
osservando con rigore il principio della convinzione del consenso, rifiutando
qualsiasi tentazione coercitiva.
In
qual modo si può conseguire la costruzione di un ordinamento socialista,
ammesso che il processo dovrà essere graduale, non istantaneo? Esclusa la
conquista violenta del potere, l'instaurazione di un regime autoritario,
gradualità vuol dire che nemmeno una maggioranza democratica attuerà d'un
tratto tutto insieme le riforme dell'ordinamento economico- sociale. La sola
risposta possibile a tale interrogativo muove dal principio che i lavoratori
devono essere protagonisti della creazione di un nuovo ordine, che il
socialismo cioè deve essere opera dei lavoratori medesimi. In tal caso il
consenso indispensabile non lo si può ottenere se non con l'esperienza della
superiorità dei mezzi socialisti rispetto a quelli privati, una superiorità non
solo etica ma anche economica. Occorre cioè che la parte socializzata
dell'economia dimostri di essere più efficiente della privata ,in modo da
riuscire vittoriosa, da prevedere che nel corso più o meno lungo della
trasformazione in senso socialista, nascano problemi difficili, principalmente
che si verifichi una caduta dell'attività produttiva nelle parti non
socializzate dell'economia. Titolari privati delle imprese, nel timore che
anche ad essi tocchi la stessa sorte di perdere la disponibilità delle imprese
stesse, le lasciano deperire e tendono a disfarsene. Ciò implicherebbe
conseguenze negative e politiche, oltre quelle direttamente economiche,
costringendo i governanti ad affrettare il processo di socializzazione, ma
assumendo anche l'onere di industrie in crisi.
E'
difficile indicare rimedi preventivi per questi e per altri pericoli che
possano verificarsi, rendendo molto arduo il compito di una trasformazione
graduale democratica ed esponendo un governo socialista al rischio
d'incamminarsi per una via autoritaria di perdere la maggioranza dei consensi.
Problemi del cosiddetto periodo di transizione sono molto complessi. Assicurare
l'efficienza produttiva mentre si riforma il sistema e si sostituisce via via
la proprietà sociale a quella privata è opera ardua. Guardarsi da facili
ottimismi è un dovere. Il socialismo nella democrazia è necessario in una
visione umana del mutamento, ma difficile. Non lo si dimentichi. Né si ignorino
le possibili reazioni dei gruppi colpiti dalle riforme, né le ritorsioni
internazionali del capitalismo. L'esperienza cilena è illuminante al riguardo.
Due
altri temi mi sembrano di massima importanza, quello della compatibilità tra
socialismo e mercato e quello dell'economia socializzata. Un mercato libero nel
senso del capitalismo evidentemente non può sopravvivere, altrimenti si
riprodurrebbero tutti i caratteri di esso. Contro tale tipo di mercato la
critica di Marx rimane valida. Ma ciò non toglie che vi siano aspetti del
mercato che sono utili e non vanno eliminati, in quanto essi implicano la
rilevanza delle scelte da parte dei consumatori, il che incide sull'efficienza
dell'impresa, sui costi, sulla qualità dei prodotti e così via, principalmente
la possibilità, da parte dei soggetti cui la produzione è diretta, di
influenzarla. Il problema della compatibilità tra socialismo, anzi
collettivismo, e mercato era stato posto già agli inizi del secolo da un
economista quasi dimenticato, Enrico Barone, che fu in tempi più recenti
ricordato in uno studio di Sandro Pietriccione, diede luogo ad una discussione
con Antonio Giolitti. Ma esso si è imposto ad economisti come Oskar Lange,
intenti alla ricerca di mezzi adeguati per correggere taluni intollerabili
effetti della pianificazione burocratica dell'economia. La questione è stata
poi ripresa da altri, ma essa merita ulteriori approfondimenti, anche alla luce
di idee e proposte nuove che hanno cominciato ad intravedersi da giovani
economisti, come quelli della “Rivista trimestrale”. Non ho la presunzione di
risolvere in poche righe problemi teorici e tecnici di tanta importanza, ma
solo indicare la loro esistenza, di individuare qualche possibilità di
soluzione. Ovvia la constatazione che il mercato non è qualcosa di universale,
una eterna categoria del pensiero, Esso è un fatto storico, come tale legato a
sistemi diversi, che si sono succeduti nel tempo. Noto che qualcuno fa sorgere
l'economia con il mercato e indica in Aristotele colui che ha scoperto il
mercato al suo primo apparire. Ma elementi rudimentali del mercato sono
esistiti già prima, allorché in epoche primitive si cominciò ad uscire dalle
chiuse economie gentilizie ed ebbero, sia pure in forme rudimentali, inizio
primi rapporti di scambio. L'incidenza del mercato sull'attività produttiva
variò secondo le forme dell'economia e della politica, non fu uguale nell'età
antica, in quella feudale, nel capitalismo moderno. Anche il mercato dunque è
un prodotto della storia, certamente quello del sistema capitalistico non può
esistere in un sistema socialista. Ma quest'ultimo può ammettere un mercato
socialista? Ruffolo lo ha recentemente negato, invece ha ammesso la possibilità
di una negoziazione tra vari livelli di una struttura decentrata democratica,
cioè una pianificazione policentrica. Senza negare l'utilità di metodi
democratici decentrati della pianificazione, dubito che questo basti per
garantire quella esigenza cui mirano sostenitori del socialismo di mercato,
cioè le scelte individuali dei cittadini. Utile la proposta di ruffolo per
scongiurare rischi insiti in una pianificazione centralizzata: essa però non mi
appare risolutiva. D'altra parte non si può prescindere dal fatto che la stessa
coesistenza d'imprese sociali e imprese private rende inevitabile un loro
confronto sul mercato.
Gli
argomenti addotti dagli ortodossi marxisti non possono valere nella nostra
questione, né essi sono accettabili di fronte alla prova dei fatti. Comunque
non possono essere utilizzati da un autore il quale considera la teoria del
valore-lavoro come fonte dei guasti nella cultura e nella politica della
sinistra; spiega così una pretesa incapacità del marxismo di sviluppare la
teoria della pianificazione come teoria delle scelte. Dovrebbe essere chiaro
che la critica di Marx al mercato come mezzo per l'acquisto di plusvalore da
parte del capitalista presuppone la concezione del valore-lavoro. Senza di
questa difficile è dimostrare in sede teorica l'esistenza del plusvalore,
quindi dello sfruttamento, né sembrano riusciti tentativi che sono stati
compiuti in questo senso. Comunque la questione del mercato socialista non si
può affrontare sulla base della maggiore o minore ortodossia marxista. Addurre
dei testi di Marx dai quali risulta l'idea piuttosto utopistica che la società
socialista sarebbe stata in grado di regolare la produzione in anticipo in modo
da fare da meccanismo preventivo di determinazione, dopo avere eliminato quello
del mercato, ha prodotto risultati talvolta disastrosi per la stessa efficienza
del sistema economico e per i bisogni dei consumatori. L'altro tema di grande
rilievo è quello delle forme di gestione dell'impresa di un'economia
socialista. In questo tema lo statalismo imperversa non solo nelle concezioni
del “socialismo reale” ma anche in quelle della socialdemocrazia. L'idea della
proprietà statale dei mezzi di produzione, perciò della forma della
nazionalizzazione delle imprese, continua a dominare il mondo contemporaneo. Ma
dovrebbe essere ormai riconosciuto che proprietà statale non è sinonimo di socialismo
e può divenire invece fonte di
autoritarismo, perfino di oppressione. So bene che Lenin dopo la Rivoluzione di
ottobre considerò il “capitalismo di stato” come un grande progresso, una
conquista di fronte alla situazione politica precedente; nelle circostanze
nelle quali si venne attuando il nuovo ordine può darsi che fosse così. Ma che
lavoratori di paesi dell'Occidente considerino una loro grande vittoria il
fatto che la proprietà dell'impresa passi dalle mani dei capitalisti privati in
quelle dello Stato, più ancora di una struttura burocratica di gestione, non
direi, anche se molte volte in caso di di crisi di un'industria privata sia
frequente la richiesta di un intervento dello Stato. Ma questo ha solo il senso
di salvare l'impresa accollando allo Stato il suo passivo per garantire il
posto di lavoro.
Forme di proprietà sociale, associative,
cooperative che esse siano, meglio rispondono ad una concezione non autoritaria
del socialismo, sebbene non sia agevole da definirle. Se infatti la proprietà
di una singola impresa viene attribuita al complesso dei lavoratori, essi si
trasformano in soci comproprietari
dell'impresa medesima, facendo risorgere un sistema privatistico, anche
se diverso da quello del capitalismo. Se si immaginano forme di proprietà per
intere categorie sulla base di una diversificazione delle attività produttive
si pongono pericolosi germi di corporativismo. Non si può dunque pensare ad
altro che ad una vera e propria devoluzione dei beni in proprietà sociale, cioè
di tutti i lavoratori, riconoscendo ad essi di decidere in via democratica le
scelte produttive e le forme della gestione.
Per queste ultime si parla molto di autogestione da parte dei
lavoratori; in tal caso non si può che riferirsi a singole aziende o imprese.
La sola attuazione di ampia portata di un sistema di autogestione è, come noto,
quella jugoslava, mentre altrove vi sono stati limitati e contrastati tentativi
che non possono assurgere al valore di modelli. L'esperienza jugoslava fornisce
dati interessanti sul grado di partecipazione effettiva dei lavoratori e
sull'efficienza produttiva, non la si può considerare un semplice decentramento
economico. Ma essa non può suggerire molto per una teoria socialista
democratica, perché il regime politico jugoslavo, anche se in forme meno rigide
del comunismo di tipo sovietico, con una pluralità di organismi, è tuttavia
fondato sul partito unico non su di un ordinamento democratico di tipo
occidentale. L'autogestione dei lavoratori è senza alcun dubbio la forma più elevata
di partecipazione ma va considerata come un punto di arrivo, una conquista, che
richiede una coscienza di classe molto elevata, una rigorosa moralità sociale,
che respinga e renda vani gli impulsi duri a morire dell'egoismo individuale
dell'interesse privato. Non sono virtù facili e universali, ma non sono nemmeno
irraggiungibili. D'altra parte un coordinamento con un piano economico nazionale
è indispensabile; questo di per sé introduce un limite alla libertà di
gestione, per evitare che questa non tenga conto degli interessi collettivi e
faccia prevalere quelli limitati, parziali dell'impresa.
Mi
sono soffermato su questi argomenti non certo con la pretesa di darne una
compiuta trattazione teorica, ma solo con l'intento di contribuire ad un
approfondimento dei contenuti di una rinnovata concezione del socialismo e di
sollecitare una discussione, un confronto con tutte le forze della sinistra per
giungere ad una visione comune degli scopi finali. Ma tutto non può ridursi ad
un dibattito astratto , alla formulazione di un ennesimo programma. Quel che
conta è l'avvio di un'azione politica, che si sviluppi quotidianamente, che non
rinvii i problemi al giorno nel quale si potrà attuare il socialismo. Lo stato
del sistema economico tradizionale, la crisi permanente grave in cui versa il
nostro paese esigono risposte politiche immediate. Occorre quidi riannodare i
fili, che sembrano recisi, tra i maggiori partiti della sinistra, muovendo
dalla svolta del 13 gennaio. Ho già avuto occasione di dire che le ragioni che
determinarono la scissione di Livorno sono cadute. Si tratta di una
constatazione di fatto, dalla quale non nasce in modo automatico la conseguenza
che ormai si può ricomporre in un solo partito l'unità del movimento dei
lavoratori. Questa sarebbe una conclusione semplicistica, perché tra comunisti
e socialisti non vi sono soltanto diversità derivanti dalle rispettive
concezioni teoriche, ma vi sono quelle più difficili da superarsi che nascono
dalla storia. Anche se questa è intessuta di alterne vicende, di alleanze che
sembrano preludere alla fusione, discordie acerrime, che non sono assenti
nemmeno nelle revisioni storiografiche, impedisce un obiettivo giudizio sui
fatti. So bene che non si può richiedere a nessuno di rinnegare le proprie
origini, la propria storia. Questo vale per i comunisti non meno che per i
socialisti. Dire che le ragioni della scissione di Livorno sono superate vuol
dire che lo sono da parte di tutti in primo luogo, naturalmente, da parte di
chi le ha promosse. Quanto questo sia arduo lo si può comprendere. In genere
oggi le reazioni sono negative, si ammette al più che l'ipotesi
dell'unificazione è prematura. Questo lo sapevo anch'io, né ero tanto fuori
dalla realtà da non comprendere che si sono create diversità profonde, che non
si possono superare in un giorno. Né ignoravo che il partito socialista dopo
che in esso sono avvenuti mutamenti sostanziali, ha cancellato dal suo
programma anche a lungo termine la prospettiva, che era stata tenuta in piedi
sempre in passato, della creazione di un partito unitario. Ciò nondimeno il
tema è posto dalla ragione e dalla storia, anche se gli uomini sono riluttanti
a riconoscerlo.
Quel che conta per l'immediato è la politica. Non
si può negare che si è aperta una nuova possibilità di dar vita ad un'alleanza
di tutte le forze riformatrici per un'alternativa di governo alla DC e al centro; allo scopo di
rendere il nostro sistema politico più dinamico e uniformarlo a quello delle
grandi democrazie europee. Né vale l'argomento abbastanza puerile che allo
stato mancano le condizioni anche numeriche per un'alternativa di governo, che
quindi proporla vuol dire affrontare il tema delle elezioni anticipate. Dico
puerile, perché un iniziale avvicinamento tra socialisti e comunisti per dar
vita ad un'alleanza riformatrice non implica di necessità un'immediata
conclusione. Lo sviluppo delle intese per un governo alternativo non è
incompatibile con la prosecuzione della legislatura. L'importante è venire in
chiaro sulla linea strategica, di sapere chiaramente dove si va a finire, di
intendersi sul punto centrale, se cioè l'alternativa rimane qualcosa di
astratto, che sta tra le nuvole della fantasia, o entra finalmente nella realtà
concreta della politica. Sarebbe un assurdo, penso non solo per chi scrive, ma
anche per molti del mio paese, che, dopo avere per tanti anni perseguito un
disegno di alternativa, averne fatto oggetto di deliberazioni e congressi, ora
che viene dispiegandosi l'autonomia internazionale del PCI, tutto restasse come
prima e non si traessero le conseguenze da un avvenimento sempre considerato
dal PSI come decisivo per mutamenti politici di fondo. Se ciò dovesse avvenire,
quale regalo all'ortodossia filosovietica per i nostalgici del passato! E quale
regalo per conservatori dell'ordine economico- sociale esistente, i quali
potrebbero dormire i loro tranquilli sonni di fronte alla manifesta divisione
delle sinistre! Con tutta la comprensibile prudenza, la maggioranza del PSI
difficilmente potrà sottrarsi alla revisione della sua politica; non vi è nulla
di umiliante nel riconoscere che se mutano dati reali anche una politica può e
deve mutare.
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L' articolo, tratto dal libro di Francesco de
Martino “Per il Socialismo l'unità della Sinistra e la pace, scritti politici e
testamento 1980-2002”, curato e introdotto da Antonio Alosco, Guida Editore,
2004, è stato scelto, introdotto e trascritto al computer da Marco Zanier.
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