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giovedì 6 giugno 2013

DALL'AUTONOMIA PROLETARIA ALL'AVANGUARDIA ARMATA di Deborah Ardilli





DALL'AUTONOMIA PROLETARIA ALL'AVANGUARDIA ARMATA:
LA TENTAZIONE DELLA VIOLENZA DOPO L'AUTUNNO CALDO
di Deborah Ardilli





G. Donato, «La lotta è armata». Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato 1969-1972, Edizioni dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2012, pp. 404.



Secondo un pungente referto stilistico pubblicato da Pier Paolo Pasolini nel novembre del 1973, in occasione di uno scambio con Adriano Sofri a proposito del dramma Calderón, per i militanti di Lotta Continua «il pensiero non è pensiero se non si manifesta come azione. Nel caso che esso sia parlato o scritto, la sua struttura linguistica deve avere l’instabilità e la provvisorietà di una struttura che ambisca a divenire immediatamente altra: cioè la struttura dell’azione». Per sintonizzarsi alla sensibilità politica dei «giovani nati col ‘68», la parola deve anzitutto «essere pervasa dal senso della propria fuggevolezza, della propria mansione utilitaristica, della propria funzione puramente pragmatica che consenta, al massimo, una forma di espressività sentimentale». Ecco perché, proseguiva lo scrittore, «a Sofri e ai suoi compagni piacciono unica-mente gli atti d’accusa, le ‘querelles’, le melopee, le documentazioni di parte, le oratorie vibranti, le condanne spietate e indiscriminate». Ed ecco pure perché, concludeva impietosamente il verdetto, «la scrittura è per loro tanto più politica quanto più è piatta, banale, elementare, corretta da una certa ironia demagogica (che consenta anche fughe nell’ambiguità dello scher-no)».
Una struttura linguistica che vuole essere altra struttura: al di là dei caretteri di polemica occasionale, la diagnosi formulata da Pasolini fornisce una preziosa indicazione di lettura, che potrebbe essere pertinentemente estesa a un’altissima percentuale della pubblicistica prodotta dalle formazioni dell’estrema sinistra sorte in Italia tra l’estate e l’autunno del 1969. Avvilita nella propria autonomia espressiva dall’allusione continua a un’opera da realizzare, la scrittura della sinistra che si diceva rivoluzionaria appartiene, per effetto dell’imprescindibile rimando al «da farsi», a un genere inassimilabile (anche solo per accostamento analogico) alle forme tradizionali della comunicazione letteraria e tenacemente resistente alle relative tecniche di analisi. Impermeabile ai valori messi in gioco da una sollecitazione di carattere formale, quella scrittura affidata ad articoli di stampa periodica, «autointerviste» e relazioni congressuali si accende tuttavia di un nuovo e diverso interesse se recuperata a uno sguardo che si sforzi di passare al setaccio la graduale sedimentazione di un «ordine del discorso» destinato a incidersi in profondità nei comportamenti ― e non solo nei linguaggi ― di uno strato (minoritario: non per questo trascurabile) di militanti determinato a sfidare il «Sistema» da posizioni indisponibili a progettarsi altrimenti che all’offensiva.
È precisamente questo «povero» materiale linguistico, inseguito nel momento in cui la sua indispensabile integrazione pragmatica comincia a riconfigurarsi in rapporto alla questione della violenza, a comporre l’ossatura documentaria del lavoro che Gabriele Donato dedica alle origini dell’opzione armata a sinistra.

Distribuita su di un arco diacronico compreso tra la chiusura delle vertenze contrattuali del 1969 e l’omicidio del commissario Calabresi, e orientata dall’analisi dei dibattiti svoltisi in seno alle organizzazioni di provenienza (CPM, GAP, Lotta Continua, Potere Operaio) di una parte significativa del personale politico che più tardi avrebbe deciso di proseguire nella clandestinità la pratica della lotta armata, la ricerca è di quelle felicemente destinate a spiazzare le attese di ogni utenza a caccia di autoconferme.
Resterà deluso, in particolare, il lettore in cerca di un racconto a tesi sugli anni che, prendendo a prestito il titolo di una pellicola di Margarethe von Trotta, si è convenuto etichettare «di piombo». Si sa che giudizi di valore espressi ingenuamente — un «sì» o un «no» appiccicati a un’intera stagione come il cartellino del prezzo agli abiti prête-à-porter — tendono spesso a cercare un supplemento di giustificazione in genealogie monolineari degli eventi: facendoli dipendere da una schedatura ideologica dei protagonisti, oppure appiattendone lo spessore su una dimensione necessitante, quasi naturalistica, dell’accadere storico. Si conoscono pure le due grandi varianti del racconto compresso entro i limiti di questi apriorismi: quella che colloca la violenza politica di sinistra al vertice di una scala graduata di radicalizzazione della conflittualità sociale: per esaltarne la potenza o, viceversa, per benedirne il riassorbimento; e quella che, invece, la assegna all’ordine di una coazione alla difesa dovuta alla durezza della risposta messa in campo dalle forze conservatrici.
Altro è l’approccio adottato dall’autore: per il quale ― si potrebbe dire ― il pensiero non è pensiero se non si manifesta come riflessione politica sul dato storico concreto e sulla documentata realtà dei discorsi che ne hanno accompagnato e condizionato lo svolgimento (in una fase in cui, per altro, era ancora l’estrema destra a primeggiare sul terreno dell’impiego sistematico della violenza politica). La selezione delle fonti e il tipo di interrogazione a cui vengono sottoposte obbediscono insomma alla convinzione che, ai fini di un inquadramento equilibrato del problema della violenza politica di sinistra, sia rilevante prestare un sovrappiù di attenzione ai ragionamenti che ritmarono il passaggio, tutt’altro che lineare, dal problema di organizzare l’«autonomia proletaria» (estendendo la lotta sociale e radicalizzandone gli obiettivi materiali) a quello di dotarla di una potenza fuoco capace di innescare lo scontro decisivo contro lo Stato. Rientra in gioco, in altre parole, una dimensione di responsabilità politica solitamente elusa da esercizi più o meno improvvisati di filosofia della storia.

Ridotte all’essenziale, le domande che presiedono all’articolazione dell’indagine potrebbero essere ricapitolate come segue: secondo quali procedure di autolegittimazione un’area dei settori che si stavano battendo per la trasformazione della società arrivò a riversare la propria vocazione al pragma nell’esercizio della «critica delle armi» e a tracciare, su questa base, la linea di confine tra il fronte dell’opportunismo e quello della rivoluzione? Quale sistema di equivalenze li indusse a proiettare nello scontro con gli apparati repressivi i termini fondamentali di un’analitica del potere? Quali sottili o grossolane mistificazioni rafforzarono la fede nell’esistenza di una relazione «espressiva» tra i propositi di un’avanguardia armata e i bisogni profondi della classe? Quali torsioni fu necessario imporre ai testi degli autori di riferimento, per riguadagnarli alle logiche di una minorité agissante? Quali fattori contribuirono a intensificare la moralizzazione del discorso sulla «giustizia proletaria», sottraendo l’impiego della violenza «redentrice» a ogni realistico bilancio di efficacia e a ogni valutazione di rappresentatività sociale? Perché le scelte soggettive di alcuni gruppi dirigenti, supportate istituzionalmente dalla riorganizzazione delle rispettive formazioni, vennero giustificate dagli interessati come ineluttabili necessità dettate dalla dinamica dello scontro sociale?
Intorno a questi interrogativi circola con insistenza nel libro una parola — frustrazione — che ridimensiona in maniera drastica l’autorappresentazione eroicizzante esibita da coloro che, messi in difficoltà dal calo di tensione conflittuale all’indomani dei rinnovi contrattuali del ’69 o persuasi di un’imminente precipitazione reazionaria della «guerra civile» nella quale si sentivano impegnati, si apprestarono a ridefinire i terreni di intervento e le modalità operative dell’avanguardismo militante sulla base della convinzione che il potere nasce dalla canna fucile. Non si comprenderebbe d’altronde il peso assegnato dall’autore alla tematica della frustrazione, se le divergenze che impedirono ai gruppi di unificare in un soggetto politico omogeneo il fronte dell’«autonomia proletaria» non venissero rapportate a un problema comune a tutti coloro che, pur marciando sotto le insegne di sigle in forte concorrenza reciproca, avevano voltato insieme le spalle alle organizzazioni ufficiali del movimento operaio per fondare il proprio intervento sulle speranze suscitate dall’arrembante spontaneità operaia della primavera-estate del 1969. Quale fosse il problema, lo si può riassumere con le parole di un ex brigatista rosso: «e quando il conflitto arretra, che si fa? Ecco la domanda che non ci eravamo mai posti».
La questione in realtà non passò inosservata, per lo meno agli occhi di quanti avvertirono il rischio che la ristrutturazione del sistema produttivo e la capacità di recupero mostrata dai sindacati potessero generare le condizioni per un contenimento della spinta conflittuale espressa dal proletariato industriale. Cruciale, in questa prospettiva, è il confronto che si aprì nel 1971 tra i gruppi che avevano dato prova di non temere il tema della violenza e di essere disponibili a rilanciarlo oltre le sue funzioni tradizionalmente difensive. Il vaglio della documentazione relativa al dibattito all’interno di Potere Operaio rivela, per esempio, come la percezione di una crescente marginalità delle avanguardie politiche sul terreno dei conflitti di fabbrica fosse ben presente ai vertici di una formazione che stava procedendo al consolidamento dei livelli organizzativi che avrebbero dovuto rilanciarne l’azione in chiave insurrezionalista. Sulla base di quali premesse? Centrale, nella strategia messa a punto dalla formazione di Negri e Piperno, risultò essere l’idea che, di fronte al ripristino del «controllo capitalistico» nei luoghi di lavoro, le avanguardie non potessero lasciarsi imbrigliare dai ritardi dovuti all’esistenza di margini di recupero dei cicli di lotta e alla presenza di una diffusa (e imprevista) aspettativa operaia nei confronti della politica delle riforme. Compito dei rivoluzionari doveva essere pertanto quello di agire a prescindere dalle circostanze avverse incontrate nel contesto in cui avevano creduto di poter esercitare continuativamente la propria influenza.
Più grande del timore di perdere contatto con i settori sociali di riferimento era, evidentemente, quello di veder indebolita la fede dei militanti più combattivi nell’imminenza della scadenza rivoluzionaria: il che imponeva di non attardarsi analiticamente sulla tematica del riflusso, e di tramutare le difficoltà in esaltanti opportunità di avanzamento. Come? Abbandonando la quotidianità delle lotte rivendicative per «muovere il movimento» verso lo sbocco di potere. Purché comandata da una riserva di quadri selezionati sulla base della capacità di reggere la durezza fisica dello scontro con l’apparato repressivo (da sperimentare durante le occupazioni di case, negli scontri di strada e in occasione delle scadenze di mobilitazione convocate dai gruppi) e ormai invitati a farsi riconocere come militanti di partito «alla testa» delle masse, piuttosto che come promotori di autonomia di classe in relazione ai problemi sociali più esplosivi, l’azione armata avrebbe consentito di riassorbire automaticamente ogni contraddizione e accelerare i tempi di innesco della distruzione dello «stato di cose presenti».

Si sa ― e Donato è puntiglioso nel sottolinearlo — che la prospettiva di una convergenza strategica e organizzativa tra le aggregazioni dell’estrema sinistra dovette scontrarsi con la riluttanza degli altri gruppi ad abbracciare l’elaborazione operaista del tema del «partito armato»: e mai con il dubbio che la credibilità rivoluzionaria delle avanguardie agli occhi della classe potesse dipendere da qualcosa di diverso dalla determinazione soggettiva a forzare artificialmente i livelli del conflitto. Nel contesto di una diffusa esorcizzazione del sentimento dell’ostacolo, oltre che di un’inconfessabile sfiducia nella capacità di autoemancipazione delle masse che pure era d’obbligo evocare miticamente, l’impiego di repertori violenti cominciò a legittimarsi: non solo come strumento santificato dal fine, ma come un vero e proprio «modo di essere», testimonianza vivente di una radicalità che dovette sembrare persuasiva a chi non riuscì o non volle trovare alternative alla smobilitazione.



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