Si riapre il dibattito nella Sinistra anche in vista della stagione dei congresssi.
Andrea Ricci (nella foto) è un economista, docente
all'università di Urbino che è stato responsabile economia del Prc, parlamentare
e coautore del programma dello stesso partito per le elezioni europee del 2004 nel quale si chiedeva "più integrazione europea".
Pubblichiamo questo
intervento titolato "Il nodo dell'euro non può più essere
eluso", che in questi giorni è rimbalzato su molti siti , Andrea Ricci ,
dimostrando una rara onestà intellettuale afferma:
«La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello
slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come
responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista per tanti anni ho
contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare
essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle
responsabilità reali e concrete».
Ecco il testo la speranza è che il dibattito si sviluppi !
Nell’ultimo semestre i mercati finanziari europei hanno vissuto una situazione
di tranquilla bonaccia. Gli spreads tra i titoli di Stato dei PIIGS e quelli
della Germania, pur se storicamente elevati, si sono assestati su valori ben
inferiori a quelli registrati nel biennio 2011-12. Per l’Italia il
differenziale tra BTP e Bund decennali ha oscillato intorno a quota 270, circa
la metà del livello toccato nei momenti più acuti della crisi.
Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.
Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.
Stridente è la contraddizione con l’andamento dell’economia reale, che invece
ha visto peggiorare tutti gli indicatori, primi fra tutti quelli relativi al
tasso di disoccupazione e al tasso di crescita della produzione. In Italia gli
ultimi dati sul calo delle esportazioni, dopo mesi d’incremento della domanda
estera che aveva generato incauti ottimismi, appaiono particolarmente
preoccupanti. Segnali drammatici di una precipitazione della crisi sociale si
colgono quotidianamente nelle notizie di cronaca. In tale situazione, non solo
attenti osservatori, ma ormai anche autorevoli responsabili delle politiche
economiche europee, come ad esempio il ministro dell’Economia italiano ed ex
direttore generale della Banca d’Italia, Saccomanni, hanno parlato
esplicitamente negli ultimi giorni del rischio di una nuova bolla finanziaria.
In questo scenario, pensare che la questione del crollo dell’euro sia ormai
alle nostre spalle è quantomeno imprudente e questa convinzione deriva da
un’errata comprensione delle cause strutturali che stanno dietro alla crisi
monetaria europea.
La divaricazione tra gli andamenti finanziari e gli andamenti reali
dell’economia europea (e italiana in particolare) sono il frutto delle
politiche monetarie fortemente espansive condotte, attraverso strumenti non
convenzionali, dalle principali banche centrali. BCE, Fed, Bank of Japan e Bank
of England hanno inondato nell’ultimo anno i mercati finanziari con un’enorme
massa di liquidità, che in assenza di prospettive di profitto nel settore
industriale, si è riversata nell’acquisto da parte degli operatori bancari e
istituzionali di titoli obbligazionari e azionari. Di nuovo, e in forma ancor
più gigantesca rispetto alle politiche monetarie accomodanti dell’era
Greenspan, è con la costruzione di una piramide di debiti che si stanno
sostenendo i mercati finanziari e le grandi banche globali.
Questa enorme massa liquida fluttuante può in qualsiasi momento prendere
direzioni opposte a quelle finora intraprese e scatenare di nuovo, e con una
violenza ancor più devastante, un attacco speculativo contro l’euro. Le
probabilità che ciò accada, in assenza di cambiamenti strutturali nella
politica economica europea, non sono trascurabili, perché ne esistono le
condizioni oggettive. Quando ciò accadrà dipende invece dalle decisioni
soggettive di un numero ristretto di operatori finanziari globali. Certamente,
l’approssimarsi delle elezioni tedesche, previste per il prossimo 22 settembre,
rappresenta un momento particolarmente critico perché può essere forte il
desiderio di condizionarne i risultati attraverso manovre finanziarie, in un
senso o nell’altro a seconda delle rispettive convenienze strategiche dei
capitali finanziari in concorrenza.
Un eventuale nuovo attacco speculativo contro l’euro sarebbe stavolta ben più
difficile da respingere perché la BCE ha già utilizzato gran parte del proprio
arsenale a disposizione. Soltanto una radicale modifica dei compiti
istituzionali della BCE che, in completa rottura con il suo atto costitutivo e
la sua storia, consentisse il finanziamento monetario diretto dei deficit e dei
debiti pubblici dei Paesi membri potrebbe forse essere efficace, se
accompagnato da concrete e immediate misure d’integrazione fiscale europea.
Questo passaggio tuttavia potrebbe essere compiuto soltanto in seguito ad un
accordo politico dei Governi e dei Parlamenti europei di ridisegno complessivo
dell’architettura istituzionale e dei compiti dell’Unione Monetaria Europea nel
senso della costituzione di uno Stato federale. Una tale prospettiva appare
però assolutamente irrealistica, dato il prevalere e addirittura
l’approfondirsi degli egoismi nazionali non solo nelle classi dirigenti ma nei
popoli europei.
Le cause profonde della crisi dell’euro sono insite nella sua stessa
costruzione iniziale. L’idea di dotare 11 Paesi, poi divenuti addirittura 17,
di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro
economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e
redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata
folle. D’altra parte non era questo il progetto iniziale dichiarato per una
parte delle classi dirigenti europee, come quella italiana. L’euro doveva
rappresentare soltanto il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa.
L’oltranzismo europeista, illusorio e velleitario, è stato la principale fonte
di legittimazione delle corrotte e decadenti classi dirigenti italiane nella
ricerca di un consenso politico e sociale dopo il crollo della Prima Repubblica
e la fine della divisione del mondo in blocchi. Infatti, accanto a corposi
interessi materiali di una parte della borghesia italiana, la retorica
dell’euro ha funto da collante politico-culturale per tenere insieme un Paese
sempre più alla deriva, in preda alla frammentazione territoriale, sociale e
politica e alla devastazione culturale e morale delle sue classi dirigenti.
I passi successivi alla nascita dell’euro non si sono però realizzati perché è
apparso evidente che la Germania, e il blocco di stati satelliti che ruotano
intorno ad essa, non perseguivano lo stesso obiettivo. Con l’euro la Germania
ha ottenuto due risultati storici: il via libera politico e diplomatico alla
propria unificazione e l’eliminazione di due strumenti fondamentali, tra loro
interconnessi, di politica economica per i Paesi mediterranei (Italia e Francia
in particolare), come la politica monetaria e la manovra sul tasso di cambio.
Nelle discussioni intorno all’euro, capita spesso di assistere al levarsi di
alti strali da parte dei coriacei difensori della moneta unica contro lo
spettro della svalutazione, ricorrente negli ultimi venti anni di vita della
lira. Si dimentica però che il tasso di cambio non è altro che un prezzo, più o
meno amministrato dalle autorità di politica economica, pienamente rispondente
al normale funzionamento di un’economia di mercato. Le sue fluttuazioni,
spontanee o prodotte, servono per riallineare andamenti divergenti di
fondamentali variabili economiche tra diversi Paesi. La fissazione irrevocabile
di un tasso di cambio richiede necessariamente meccanismi alternativi che
svolgano la stessa funzione. L’alternativa liberista al tasso di cambio, utopica
e mai realmente esistita in nessuna epoca e in nessun posto, è la completa e
istantanea flessibilità dei prezzi di tutti i beni e servizi, a cominciare dai
salari. L’altra alternativa è quella seguita da tutte le monete esistenti ed
esistite in passato, cioè la piena integrazione fiscale all’interno di uno
Stato unitario, in cui operano meccanismi di redistribuzione sociale e
territoriale delle risorse.
Con l’euro si è scelta, contro ogni logica, una “terza via”, quella di “una
moneta senza Stato”. Ciò che ne è risultato è stato l’affermarsi dell’egemonia
politica ed economica dello Stato più forte, la Germania, sul resto d’Europa
spazzando via in un colpo solo e senza spargimenti di sangue, il precario
equilibrio che dalla pace di Westfalia (1648) in poi aveva costituito il sacro
principio delle diplomazie europee. Dapprima esercitata in forme morbide, con
lo scoppio della crisi finanziaria l’egemonia tedesca è andata assumendo forme
sempre più brutali, sino a sfociare in manifestazioni esplicite di
neocolonialismo come nel caso greco, non dissimili da quelle esercitate
dall’imperialismo USA nei Paesi dell’America Latina.
Di fronte a questa situazione, sempre più instabile, il problema dell’euro non
può più essere eluso da parte delle forze della sinistra europea e italiana. Da
questo punto di vista, non appare di buon auspicio la sconfitta all’interno
della Linke tedesca di Oskar Lafontaine, che recentemente aveva sostenuto il
superamento dell’euro e la necessità di un nuovo sistema monetario europeo. Non
è più adeguato all’evolversi della situazione reale affermare la necessità di
una svolta nelle politiche europee, abbandonando la logica dell’austerità e del
rigore finanziario e le sovrastrutture istituzionali che all’interno
dell’Unione Europea la sorreggono, senza affrontare la questione euro. Questa
della svolta di politica economica è stata una partita aperta fino allo scoppio
della crisi finanziaria globale del 2008. La partita si è chiusa con una
sconfitta, perché le forze della sinistra europea, nelle diverse collocazioni
di volta in volta assunte, non sono riuscite ad imporre l’abbandono delle
politiche neoliberiste in Europa né ad impedirne il rincrudimento. Oggi il
paradosso di questa posizione è che essa può realizzarsi soltanto se prima salta
l’euro, perché l’euro reale, non quello immaginato, è un impedimento
strutturale per politiche economiche alternative. Di ciò, sia pure in forma
rozza, sta crescendo una consapevolezza di massa in Grecia, come in Italia e in
tutti i Paesi più duramente colpiti dalla crisi. La vecchia, consolidata
posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che
anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione
Comunista per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non
risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per
sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete. Per usare
categorie gramsciane, quella linea era adatta a una fase di “guerra di
posizione” e non ad una fase di “guerra di movimento”, come quella in cui la
crisi sistemica del capitalismo ci ha condotti.
Una valuta non è mai semplicemente uno strumento neutro che può essere
indifferentemente utilizzato per servire da sfondo a diversi modelli sociali. Nel
sistema capitalistico la moneta è la sintesi finale, la più astratta e quindi
la più complessa, di un ordine sociale storicamente determinato, frutto di
sedimentazioni successive che costituiscono la concreta configurazione di
classe realmente esistente. È ovvio che il crollo dell’euro (perché questo
avverrebbe se un Paese delle dimensioni dell’Italia decidesse di uscirne) non
equivale alla “vittoria finale”, né essa produrrà sicuramente immediati effetti
positivi per le classi popolari. È ovvio che molto dipenderà da come avverrà e
da quali saranno le forze trainanti di questo processo. Ciò che è certo è che
la fine dell’euro ridislocherebbe le forze su scala europea e mondiale e
aprirebbe nuovi scenari in cui svolgere il conflitto politico e sociale, che
oggi in Europa appare chiuso a ogni ipotesi progressiva.
Il crollo dell’euro è oggi nell’ordine delle cose possibili, perché ne sono
date le condizioni oggettive. La sinistra europea, e paradossalmente la sua
componente oggi più disastrata, quella italiana, si trova di fronte ad un
passaggio strategico cruciale. Essa, indipendentemente dalle sue volontà, deve
decidere come collocarsi in questo scenario potenziale se vuole continuare ad
esistere come forza attiva e non solo come scoria di un passato glorioso. Il
nodo dell’euro è posto dalla storia, non dalle nostre elucubrazioni. Non rimane
più molto tempo per scioglierlo».
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