ELEZIONI COMUNALI:
ASTENSIONE, QUALE MESSAGGIO?
di Anna Lami
Roma ha un nuovo sindaco, il già senatore Ignazio Marino, stimato medico, la faccia rassicurante da persona a modo, distante anni luce nello stile e nel vissuto dal predecessore, il largamente sconfitto Alemanno. Alleluia.
Il Pd gongola, ha conquistato tutti i capoluoghi di provincia, perfino Treviso, storica roccaforte leghista, ha ceduto il passo alla moderazione targata Manildo. Evviva.
Il Movimento 5 Stelle, dal canto suo, incassa una battuta d’arresto che sarà pur parziale e provvisoria come sostengono i suoi supporters, ma senz’altro stride parecchio con la “rivoluzione guidata dalla rete” che si era prefigurata lo scorso febbraio. A parte in alcune realtà minori, il ridimensionamento del movimento di Beppe Grillo è tale da far cantare vittoria a quella stampa che non ha perso occasione per sottolinearne i limiti. I “veloavevodettoio” si sprecano tra i commentatori più fini, i profeti che avevano qualificato il voto delle politiche come una sbandata collettiva, oppure la punizione ai litigiosi vecchi partiti che non dimostravano sufficiente senso di responsabilità.
Ma il vincitore senza rivali, il primo vero partito degli italiani resta l’astensione. Che anzi avanza e segna nuovi record. Alle elezioni comunali circa la metà degli aventi diritto non si è recata al seggio. Il dato è particolarmente significativo soprattutto nella Capitale, dove l’affluenza definitiva al ballottaggio è stata del 44,93%, contro il 63,12% del 2008. Non proprio una cosetta di poco conto. Ma fanno spallucce i politologi più accreditati, come ad esempio dalle pagine del Corriere della Sera il Professor Roberto D’Alimonte, per cui “un alto livello di partecipazione non è necessariamente una cosa buona”, ed il paese sta semplicemente compiendo il periplo verso l’uniformazione agli standard europei, che normalmente vedono una partecipazione elettorale notevolmente inferiore rispetto alla nostrana. Del resto anche negli Stati Uniti d’America, come ci rammenta D’Alimonte, a votare si recano normalmente meno della metà degli aventi diritto, “e non si può certo dire non sia un paese democratico”. Vero, verissimo: l’astensione certifica che la politica, anche quella meramente amministrativa, è tornata ad essere cosa per pochi. Non mancano, tra gli analisti, quanti individuano nel crescente “qualunquismo” la causa della mancata partecipazione alle votazioni. Altri ripropongono la diagnosi della fine delle ideologie (che forse poteva tenere ancora dieci anni orsono) la ragione prima del distacco tra la politica ed il popolo.
Un secolo fa le élite oligarchiche di mezzo mondo assistevano con stupore ed impreparazione all’irruzione delle masse sulla scena politica. Sarebbe dunque quella che stiamo vivendo una fase di deciso ed inesorabile riflusso dalla terreno della politica istituzionale, che torna ad essere diletto di pochi aficionados?
La risposta più convincente viene dalle dichiarazioni di giorni orsono di Jacopo Morelli, Presidente dei giovani imprenditori di Confindustria, che ha sottolineato come questa Italia “senza futuro” sia “a rischio rivolta”. Il fattore scatenante del malcontento sempre più diffuso, che il 25 febbraio alle elezioni politiche si era espresso con il voto al Movimento 5 stelle, e che ora si è manifestato nell’astensione, è la gravità della situazione economica che vasti settori popolari stanno sopportando. Tutte le altre giustificazioni dell’astensione possono concorrere solo in misura secondaria. I disoccupati, i precari, le famiglie a rischio sfratto, i piccoli commercianti indebitati, si rendono perfettamente conto che la vittoria di Marino piuttosto che quella di Alemanno, non cambierà una virgola nella propria quotidiana corsa alla sopravvivenza. In massa quest’Italia non va alle urne perché il teatrino della politica non la riguarda più. Spadroneggia la sensazione diffusa, anche se intuitiva e prepolitica piuttosto che pienamente consapevole, del definitivo divorzio tra politica dei partiti ufficiali e bisogni concreti dei tanti.
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