THE
NEAPOLITAN GAME
di
Norberto
Fragiacomo
Vis grata
puellis: si definiva
così, in linguaggio curialesco, la resa senza condizioni di madonnine fintamente
recalcitranti alle profferte di spasimanti (più o meno) allupati. Il no,
ribadito flebilmente mentre gli occhi dicevano il contrario, serviva a tacitare
i rimorsi, oltre che a salvare la faccia: la colpa era tutta dell’agognato
bruto.
Pare che sesso e
politica abbiano parecchie cose in comune, prima fra tutte l’ipocrisia. Chi non
rammenta la sceneggiata quirinalizia (rubo l’aggettivo al compagno Mortara) di
inizio primavera? Giorgio I giura e spergiura, per mesi, di non volerne sapere
di un reincarico – e ne avrebbe ben donde: mai nella storia della Repubblica si
era assistito ad un secondo mandato, e l’età di Napolitano (prossimo agli 88
anni, nel frattempo compiuti) sconsigliava la mossa. Nulla poterono, però, una
consuetudine costituzionale e considerazioni anagrafiche contro la (libera?)
volontà piddina di blindare lo status quo: dopo le eliminazioni dirette –
clamorosa quella di Prodi, apparentemente inspiegabile quella di Rodotà –
Giorgio II rioccupò, con sovrana naturalezza, lo scranno più alto. Controvoglia,
certo (perché il rinnovo dell’incarico “sottopone a seria prova le mie
forze”, e perché “come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in
quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della
Repubblica”, premise nel discorso d’investitura), ma con le idee ben chiare
in testa: “le
sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito
incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. (…) Il fatto che in
Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze,
mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione.
(…) Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono
comunque dare ora il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento
del Paese. Senza temere di convergere sulle soluzioni.”
Obbligo
di convergenza, dunque, e bacchettate sulle mani a chi – il MoVimento 5 Stelle –
mostrava di non volerci stare e, secondo il Presidente (ri)eletto, soffiava sul
fuoco della “contrapposizione tra piazza e Parlamento.”
Da quel crudele
mese d’aprile ne è passato di tempo, ma Giorgio II ha mantenuto la parola data,
“fungendo da fattore di coagulazione” – anzi, offrendosi al Paese come
qualcosa di più: come un vero comandante in capo, un
dominus.
Se l’esordio era
stato energico, a dimostrazione che certi anziani sono “giovani dentro”, il
prosieguo è stato travolgente – nel senso che King George ha letteralmente
travolto ogni ostacolo che potesse intralciare il cammino del “Suo” governo
Letta-Berlusconi (la stampa poi ha fatto il resto, sparando a mitraglia
sull’unica opposizione sopravvissuta).
Sui costosissimi
F 35, che l’alleato-padrone americano ha fretta di farci acquistare, Giorgio II
è stato netto: la competenza a decidere spetta al Governo, mica al Parlamento.
Persino una richiesta di moratoria appare eccessiva al Presidentissimo: cosa
fatta capo ha, deputati e senatori pensino agli affari loro. La vicenda Alfano è
stata ancor più emblematica: stavolta Napolitano ha impartito un ordine diretto
ai parlamentari del PD, di fatto ingiungendo loro di votare contro la sfiducia
al “Ministro degli Interni a sua insaputa” – un povero mobbizzato che i
funzionari del ministero tengono all’oscuro di tutto quel che accade in Italia.
Ovviamente la Destra 2 ha obbedito nella quasi totalità, e ai pochissimi
contestatori l’art. 67 della Costituzione – quello che esclude il vincolo di
mandato – non fornisce alcun riparo: chi non si sottomette al Colle è passibile
di scomunica mediatica, se non (lo si vedrà) di sanzioni disciplinari. Il
ridicolo “tagliand(in)o” impetrato da Epifani serviva, anche nel caso di specie,
soltanto a salvare la reputazione del partito, ma al PD dentro il governo danno
fastidio ormai anche le finte, e senza tanti complimenti Dario Franceschini ha
zittito il proprio segretario-travicello. L’ex leader della CGIL ha abbozzato:
lui è lì per scaldare la sedia distribuendo stanchi inviti alla responsabilità,
e lo sa bene.
Pensierino
formulabile anche da un alunno di terza elementare: visto che non decide più
niente (e, quando lo fa, segue pedissequamente le direttive altrui), il
Parlamento è oggidì un organo inutile. Siamo dunque al presidenzialismo de
facto: Napolitano conduce il Paese lungo una via tracciata da lui, da cui non è
lecito allontanarsi neppure per mingere. La cronaca politica ci presta la chiave
di lettura per la sceneggiata di aprile: solo un Giorgio II poteva svolgere con
successo il ruolo di guida.
La domanda è:
dove ci sta portando? Rispondere non è mica semplice di questi tempi, anche
perché un’opinione può essere scambiata per vilipendio da giudici e funzionari
zelanti.
Se ha ragione chi
afferma che i mercati vanno a tentoni, e perseguono esclusivamente un lucro di
breve periodo, il napolitanismo è figlio della necessità: dando dell’Italia
un’immagine monolitica e “seria” si evita di indurre in tentazione speculatori
perennemente in preda all’isteria. La crisi è una tigre dormigliona e un po’
orba, malgrado le zanne affilate: stiamocene a cuccia, in silenzio – magari, se
facciamo i compiti a casa, non finiremo sbranati. Magari. Chi la pensa così sarà
pronto a criticare certi sfondoni degli attuali, imbarazzanti ministri, ma
riconosce, in fondo in fondo, che a un esecutivo come l’attuale non ci sono
alternative sostanziali – si sarebbero forse potuti scegliere personaggi più
capaci, e poi politiche maggiormente incisive, ma “intese,
alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse”
sono quello che passa il convento, le vie d’uscita salvifiche (abbandono
dell’euro, mobilitazioni sovranazionali… rivoluzioni) sono favole che ottusi
complottisti raccontano ai bambini. Stieglitz e Krugman parlano di strategie
messe in atto dall’elite? Saranno ammattiti pure loro, evidentemente…
Conseguenze logiche del ragionamento: la solidarietà nazionale va benissimo;
certi vulnera alla Costituzione sono il prezzo da pagare alle
circostanze; se non c’è alcun disegno “occulto” (i commentatori ortodossi non
prendono neppure in considerazione l’idea che il “complotto”, da loro escluso
con irridente sufficienza, possa essere un piano attuato alla luce del sole da
una lobby di finanzieri internazionali, probabilmente perché ritengono che solo
tassisti e allevatori siano in grado di costituire una lobby…) allora la
responsabilità è tutta delle popolazioni, oltre che di stati inefficienti e
scialacquatori - quindi l’austerità è al massimo una ricetta sbagliata; chi
grida alla catastrofe prossima ventura è invece un apprendista stregone assai
nocivo, perché richiama gli strali dei mercati strabici di cui sopra; in ultima
analisi, Napolitano è l’uomo giusto al posto giusto, anche se cambiare sarebbe
stato bello, poiché – al pari delle gozzaniane “buone cose di pessimo gusto” –
le tradizioni esercitano un certo fascino. In ogni caso, per precauzione,
“abbassiamo i toni”, ci direbbero i savi, imitando il Crozza dei mesi
scorsi.
A
riprova dell’inoppugnabilità delle loro argomentazioni, i “realisti” ci sbattono
sul muso alcuni dati di fatto: le banche, coi forzieri ricolmi di titoli
spazzatura, sono anch’esse al “si salvi chi può!”; e poi, a suo tempo, perfino
un gigante come Lehman Brothers è crollato. Vero, ma il CEO del fallimento –
Richard Fuld junior – si è prontamente riciclato, e ha ripreso a guadagnare, al
pari di innumerevoli colleghi dei piani alti (a perdere il posto sono stati i
manovali della speculazione, gente comunque da 100 mila dollari annui); i
superbonus per i banchieri sono l’unica autentica “variabile indipendente” del
mondo del lavoro capitalista, e il fatto che qualche edificio si svuoti non ci
sembra decisivo: l’elite è formata da esseri umani, non da mattoni, tapparelle e
mobilio. Quanto ai rischi per le imprese finanziarie – più che per i loro
supermanager – sarebbe d’uopo tener presente che la prossima acquisizione di
vitalissime aziende di stato e di servizi pubblici (impianti, macchine, “roba”
vera, tanto per capirci, ulteriormente valorizzata dalla garanzia di poter
disporre a piacimento di manodopera qualificata) compensa abbondantemente le
ipotetiche perdite di denaro virtuale, creato con un clic.
E
quindi? Quindi è senz’altro ipotizzabile che la strada che stiamo percorrendo
non sia quella obbligata, ma sia stata scelta – assieme a guida, mandriani e
abbaianti pastori – per finalità ben precise, che nulla hanno a che fare con
l’interesse comune. Complottismo? Può darsi, così come può essere ingenuità
quella di chi immagina un mondo che va alla deriva senza nessuno al timone,
anche perché i fatti – dalle forzature costituzionali al dispregio per le
istanze popolari, dallo svuotamento delle prerogative parlamentari a mosse di
società di rating le cui ripercussioni a breve-medio termine non è saggio
sottovalutare – sono incontestabili, e si prestano a svariate letture.
Nel
frattempo, all’interno dei palazzi della politica si discute di nozze gay, non
più di modificare una legge elettorale che per i diretti interessati, forse, non
è da buttare, perché ha favorito gli sviluppi recenti.
Brutta
forma di demenza, il “complottismo”: se ci ricordiamo bene, anche Giulio Cesare
– che era uno che non si lasciava sviare dalle altrui fantasie – rispose con
un’indifferente alzata di spalle agli avvertimenti su un possibile attentato ai
suoi danni.
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