Sono di ritorno da un brevissimo viaggio a Livorno, e non ho potuto mancare di notare, passando di sabato sera sul lungomare, un cambiamento che in qualche modo è significativo. Attorno ai bar, ai locali ed ai posti di ritrovo, vedevo un enorme assembramento di giovani e giovanissimi, che ovviamente, girando senza soldi in tasca, passavano il tempo a chiacchierare fra di loro fuori dai bar e dalle baracchine.
Non ho potuto fare a meno di confrontare la situazione con quella che vivevo io quando avevo la loro età. La mia generazione, che oggi ha fra i 40 ed i 45 anni, aveva abitudini molto diverse. A quei tempi, i ritrovi sul lungomare non erano così pieni, anche nei sabati d'estate, oppure erano frequentati il tempo necessario per aspettare l'ora di andare in discoteca, o semplicemente di tornare a casa. I nostri sabati sera erano di fatto degli allucinanti "trip" in macchina verso le discoteche della Versilia, o addirittura di Rimini, dove ci spaccavamo i timpani in ambienti che non erano certo idonei ad una normale socializzazione, o anche solo ad una chiacchierata, e certo l'alcool ed altre sostanze che vi giravano costituivano un ulteriore ostacolo alla tessitura di normali rapporti umani. Risultato: oggi ho perso i contatti con la maggior parte di quegli "amici" del tempo.
Ho l'impressione che fra la mia generazione ed i giovani figli della crisi si sia consumato un enorme cambiamento di abitudini, sul quale sarebbe, a mio avviso, bene riflettere in modo approfondito, sociologico. Noi eravamo i figli di una società della crescita continua, dove non sembrava che vi fossero limiti a ciò che potessimo fare, dove tutto era promesso e pressoché tutto era garantito. Certo, non è che non ci fossero sofferenze sociali pesanti, in una società così competitiva, e non è che non vi fossero difficoltà economiche anche gravi. La Livorno degli anni Ottanta e Novanta era, in qualche modo, il "laboratorio" della grave deindustrializzazione e dello smantellamento della grande industria motrice, che il Paese intero avrebbe sperimentato già negli anni precedenti l'attuale recessione. Il modello della grande industria prevalentemente, ma non solo, a partecipazione statale era infatti già in grave difficoltà: i cantieri navali Orlando boccheggiavano, trascinandosi dietro l'indotto navalmeccanico, il porto non andava bene, la Carbochimica era avviata verso la crisi finale, l'Ilva di Piombino aveva iniziato un durissimo processo di riduzione del personale, ecc.
Le tensioni sociali si avvertivano, la città era inquieta e depressa (ricordo, forse come immagine-simbolo di quegli anni, la scritta che un anonimo aveva realizzato sulla saracinesca dell'ufficio di collocamento, vicino al vecchio mercatino americano, "volete dirmi che cazzo devo fare della mia vita?") i giovani spesso andavano a vivere al Nord. La droga dilagava fra gli esclusi, che venivano sì mantenuti da un welfare state molto più generoso di quello attuale, ma che erano costretti a guardare, con frustrazione, le luci della giostra dalla quale, per nascita o sfortuna, erano tasgliati fuori. E dilagava fra i figli di papà annoiati, senza mete da raggiungere, perché tutto era stato loro donato.
Però c'era una cosa che oggi non c'è più: la speranza che comunque le cose si sarebbero aggiustate per tutti. In fondo c'era uno Stato sociale generosissimo, e poi Livorno aveva una lunga storia di solidarietà: era la città dello "stalinismo in una sola città" del sindaco storico Nannipieri, l'uomo che, negli anni Settanta, aveva requisito i locali del giornali Il Telegrafo, quando la società editrice voleva licenziare i dipendenti, l'uomo che aveva letteralmente "inventato" i lavoratori socialmente utili, per restituire lavoro e dignità ai disoccupati della ex Ginori.E poi c'erano esperimenti avanzati di reindustrializzazione dei siti industriali dismessi dalla crisi della grande industria, che lasciavano intravedere un nuovo e promettente modello di sviluppo per la città, dalla grande industria dei settori di base ai reticoli di PMI dei settori ad alta tecnologia, sostenuti da incubatori, esperimenti condotti, in termini teorici, da economisti del calibro di Massimo Paoli e Riccardo Lanzara, ed in termini operativi, dalla Spil, guidata da Massimo Guantini (Guantini e Paoli sono scomparsi, forse per il dolore di non vedere la loro opera arrivare a buon fine).
E poi, quelli che avevano la fortuna e la volontà di poter studiare fino alla laurea avevano, di fronte a sè, delle intere praterie aperte. Di fatto, la nostra generazione è forse la migliore complice dell'attuale gravissima crisi. Non essendo figlia, se non in piccola parte, della guerra fredda (avevo solo 19 anni quando il muro di Berlino cadde) la mia generazione ha creduto interamente al paradigma del capitalismo finanziario, prestandosi alla terziarizzazione ed alla privatizzazione dell'economia e del lavoro, ed alla introduzione di dosi sempre maggiori di concorrenza sociale, fonendo la base di consenso politico per i partiti della seconda Repubblica (ivi compresi i Ds) che si facevano portatori di questa ideologia, convinti com'eravamo, in modo ingenuo, che comunque la "crescita ininterrotta" avrebbe generato sempre le risorse necessarie per fornire protezione a chi restava indietro. Ci siamo piegati ad una nuova forma di unidimensionalità, reinterpretando il modello di Marcuse, da lavoratore/consumatore di beni, a creativo/competitore/consumatore di ideologie preconfezionate del pensiero unico neoliberista. Ed allora, nel vuoto di sogni, di militanza politica, di idee, di preoccupazioni per la comunità, il problema era solo quello di impiegare un benessere economico inimmaginabile per i giovani di oggi, al fine di occupare il tempo con esperienze sempre più forti, con "sballi" sempre più estremi. Gli anni Novanta sono stati gli anni di una ricerca idiota di "esperienzialità" su livelli superficiali, che non coinvolgevano l'intelletto, lo spirito o il cuore: la vacanza esotica, la discoteca, le amicizie superficiali che si perdevano immediatamente.
Oggi noi quarantenni, noi che veniamo da questa generazione, ci ritroviamo nei gorghi della crisi privi degli strumenti culturali che ci dovrebbero servire per affrontarla, privi di capacità di dare il giusto peso agli aspetti materiali della vita, che non contano veramente niente, e basta la perdita di un genitore per capirlo, privi del senso del sacrificio e della responsabilità nei confronti della collettività, e, privati della promessa del Domani Radioso che il dogma della crescita ininterrotta ci aveva ammannito. In breve, ci ritroviamo disperati e soli. Degli amici della mia età che ancora frequento, mi tocca sentire l'angoscia reale, profonda, esistenziale, di non poter più fare la vacanza all'estero, di non poter più comprare il SUV nuovo ogni tre anni, di non poter pagare la scuola privata ai figli. Oppure il tentativo paraculesco (ed ovviamente inutile, nella maggior parte dei casi) di passare tra le maglie della crisi, scaricandola sugli altri. Siamo noi la generazione persa. E non abbiamo alibi. Ci siamo persi da soli, perché siamo stati conformisti e sciocchi.
Tornando ai giovani che sabato scorso vedevo seduti sulle panchine del lungomare, senza soldi, senza lavoro, senza futuro, questi giovani cresciuti dentro la crisi, che sembrano aver metabolizzato la precarietà esistenziale e l'impossibilità di crescere con una famiglia al loro fianco, ma che parlano di cose così simili a quelle di cui parlavamo noi alla loro età, vorrei in primo luogo chiedere scusa, in nome dei quarantenni di oggi, che sono stati complici, me compreso. E vorrei dire loro di non perdere la speranza, ma di costruire una società dove i valori sociali non siano il Suv o il posto prestigioso in banca, perché questi valori ci hanno perduti. Ma siano il lavoro, qualunque esso sia, e la capacità di dedicarsi agli altri, ed alla propria collettività, non per fare carriera o farsi belli, ma per uscirne tutti insieme.
16 luglio 2013
Nessun commento:
Posta un commento