Relazione di Paolo Ferrero - Conferenza di programma, 29 giugno 2013
Cari Compagni e compagne,
abbiamo deciso di tenere oggi una prima sessione della Conferenza Programmatica. Alla mia introduzione seguirà una relazione di Roberta Fantozzi con la proposta di una campagna di massa per l’autunno sul Piano del lavoro e la disobbedienza ai trattati europei. Nel corso delle prossime settimane, dei prossimi mesi, dovremo articolare la campagna di massa sul lavoro, anche intrecciata con il Congresso, con conferenze programmatiche regionali, discussioni di settore, iniziative di massa di dibattito e di lotta. Dopo il congresso procederemo alla costruzione di una vera e propria conferenza programmatica articolata a tutti i livelli del partito. Quindi oggi – lo dico in particolare per i tanti compagni che legittimamente dicono “non c’è stato nessun percorso democratico” – è veramente solo l’apertura di un percorso, non la sua chiusura. La mia relazione non è quindi un documento votato da qualche organismo ma – pur essendo stata discussa in segreteria – rappresenta il mio contributo all’apertura di questa discussione, è veramente un primo passo.
Il senso di fondo di questo primo appuntamento è l’idea che non si tratti semplicemente di sviluppare il tema del programma, ma di mettere a fuoco il nostro progetto politico complessivo. Questo è il problema fondamentale. Non si tratta solo di definire il programma di Rifondazione, le sue priorità, ma di ridefinire il progetto, la ragion d’essere di Rifondazione Comunista nel contesto dato. Troppo spesso la nostra discussione su Rifondazione si muove tra due estremi: l’idea dell’inutilità e della dissoluzione e l’idea che dobbiamo continuare a vivere solo per soddisfare un nostro problema di identità e appartenenza. Io penso al contrario che vi sia una necessità storica e politica del Partito della Rifondazione Comunista e che noi oggi siamo chiamati a ridefinire esattamente la nostra ragion d’essere. Per questo la relazione spazierà su vari nodi e vi chiedo scusa se non sarà brevissima.
PARTE I: L’ANALISI
Le diverse rifondazioni comuniste
Il tema della ragion d’essere di Rifondazione comunista si è posto più volte nella storia del partito. Rifondazione non è sempre stata uguale a se stessa. Abbiamo avuto varie fasi di sviluppo e di crisi. Noi abbiamo avuto Rifondazione comunista degli inizi, che era la Rifondazione comunista che si era ribellata alla chiusura del PCI e che lottava contro il taglio della scala mobile, contro la concertazione: il cuore dell’opposizione come dicevamo di noi. All’inizio degli anni Novanta, Rifondazione comunista aveva un’identità chiarissima: liberamente comunisti, dentro le lotte operaie, contro i trattati di Maastricht, contro la concertazione, contro il neoliberismo e la Seconda Repubblica, contro le leggi maggioritarie.
Poi, ovviamente procedo per grandi schematizzazioni, abbiamo avuto la “Rifondazione delle 35 ore”. Era la fase del primo governo Prodi, e noi proponevamo un’idea: nel contesto delle politiche neoliberiste l’Europa può essere uno spazio di costruzione dell’alternativa. Compito nostro è di fare una battaglia, in Italia, in connessione con gli altri Paesi europei, per riuscire a determinare una svolta rispetto al modello neoliberista: dopo che l’IG Metall aveva conquistato le 35 ore in Germania e il governo Jospin aveva fatto le 35 ore in Francia, ci siamo battuti per avere la legge sulle 35 ore anche in Italia, per porre le condizioni per un altro modello di sviluppo rispetto a quello che era previsto dagli accordi di Maastricht e dai trattati neoliberisti. Questa è stata un’altra grande Rifondazione. Sappiamo bene come è andata a finire, ma avevamo completamente ragione: se in Italia fosse passata la legge sulle 35 ore, probabilmente la storia dell’Europa oggi sarebbe diversa. Non sarebbe diventata l’Europa neocarolingia della Merkel: era possibile un’altra Europa.
Dopo il 2001, abbiamo avuto la Rifondazione che stava dentro al movimento no global, al grande movimento mondiale contro la globalizzazione neoliberista. Fu una fase di grande innovazione, sviluppo e di rinnovamento: in Rifondazione entrò una nuova generazione politica.
Poi c’è stata la Rifondazione comunista dell’accordo con il centro sinistra, del secondo governo Prodi, dell’Unione. Questa fase è cominciata nel 2003, dopo il referendum sull’articolo 18, in cui prendemmo 11 milioni di voti favorevoli all’estensione dell’articolo 18 anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti, senza riuscire però a raggiungere il quorum. Bertinotti, prima della riunione di qualsiasi organismo dirigente, non commentò questo risultato proponendo di partire dagli 11 milioni di voti per costruire la sinistra nel Paese ma disse che il risultato era una sconfitta, che avevamo perso perché non eravamo riusciti a diventare egemoni nella società e che quindi si trattava di cambiare indirizzo, sbocco politico. Nei giorni successivi, vi fu un’intervista sul Corriere della Sera di Antonio Bassolino, che apriva all’idea del governo con Rifondazione comunista e dette il via alla fase dell’Unione. Quella linea politica è palesemente fallita ben prima della sinistra arcobaleno. Non voglio qui fare un bilancio, credo che abbiamo fatto vari errori – abbiamo sottovalutato il peso del bipolarismo, dei vincoli europei, abbiamo sopravvalutato i rapporti di forza – voglio solo sottolineare che quella fase lì si è chiusa con una sconfitta verticale di Rifondazione e con una dilapidazione di larga parte del suo patrimonio simbolico. La successiva scissione dei compagni e delle compagne che poi hanno dato vita a Sel ha dato una botta ulteriore.
Poi ci sono stati questi ultimi 5 anni, in cui abbiamo individuato correttamente le priorità – la crisi economica, l’indirizzo del partito sociale, l’unità a sinistra – ma non siamo stati in grado di trarne tutte le conseguenze culturali politiche e di svilupparle coerentemente. Ad esempio, noi abbiamo colto l’elemento della crisi economica come crisi costituente, ma non siamo riusciti a modificare il modo di essere del partito a partire da questa centralità: è rimasto più un discorso che non una politica. Così come l’intuizione del partito sociale, del mutualismo, è rimasta una pratica a macchie di leopardo, non ha ridefinito il ruolo sociale dei comunisti. Così come abbiamo lavorato sul tema dell’unità a sinistra ma soprattutto nella forma degli accordi di vertice, pattizi, prima con la Federazione della Sinistra e poi con Rivoluzione civile. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Federazione della Sinistra si è sfasciata quando siamo arrivati in vista delle elezioni sulla necessità di costruire una sinistra autonoma dal centrosinistra, Rivoluzione civile non ha preso i voti perché senza progetto e incapace quindi di parlare al Paese.
Per questo oggi, dopo la sconfitta di Rivoluzione Civile, dobbiamo ridefinire qual è la ragione sociale, la ragione d’essere di Rifondazione Comunista. Uscire dalla depressione per decidere con chiarezza e determinazione cosa ci stiamo a fare e cosa dobbiamo fare. Per fare questo occorre prima rispondere con chiarezza tre domande.
3 NO per imboccare la buona strada
La prima domanda a cui rispondere è: la sconfitta elettorale è definitiva? è la parola fine sulla nostra storia ventennale? Rappresenta la crisi irreversibile di Rifondazione Comunista? Io penso di NO. Penso che abbiamo subito un colpo pesante ma che “non siamo alla fine del torneo ma a metà del primo tempo”. Siamo a metà della partita perché questa crisi del capitalismo è destinata a durare, non ha facili soluzioni interne al sistema. Non esiste un’uscita capitalistica dalla crisi e questo vuol dire che la situazione non è chiusa, non è normalizzata, non è stabile. La crisi ha terremotato il quadro in cui ci muoviamo e continua a terremotarlo: siamo passati da una guerra di posizione a una guerra di movimento, la situazione si modifica in tempi molto rapidi, la situazione cambia di continuo. Questo vuol dire che chi ha vinto oggi può essere lo sconfitto di domani ma anche che la sconfitta di oggi può essere rovesciata nel suo contrario. Ad esempio, per non guardare che agli ultimi mesi, se noi avessimo fatto la discussione nel novembre del 2011, prima del governo Monti, Nichi Vendola appariva come il possibile premier del futuro governo italiano. Nel corso novembre 2012, Bersani appariva come il sicuro vincitore, subito dopo le elezioni, Grillo appariva come quello in grado di rivoltare l’Italia come un calzino. Oggi c’è Renzi, non c’è più Bersani, magari tra sei mesi chissà, ci sarà Marina Berlusconi… Da un lato la crisi continua a macinare, a demolire la società e la civiltà italiana, dall’altro il mondo della politica diventa sempre più un palcoscenico teatrale, che si modifica in continuazione. In questo contesto, la nostra sconfitta deve essere relativizzata e vista come un punto di passaggio superabile. Se fossimo noi a decidere di assolutizzare la sconfitta elettorale, sarebbe un puro atto di autolesionismo nichilista, un vero e proprio suicidio insensato. Suicidarsi non serve a nulla, serve capire le ragioni della sconfitta per uscirne.
La seconda domanda a cui dobbiamo rispondere è: Rifondazione comunista è un ostacolo per la sinistra, per la possibilità di costruzione di una soggettività unitaria della sinistra? Io penso che NO, che Rifondazione non solo non sia un ostacolo ma sia una risorsa. Rifondazione è il principale elemento di aggregazione di militanza politica a sinistra del centrosinistra, sarebbe devastante disgregare questo tessuto di militanza. Rifondazione comunista è una risorsa di linea politica e di cultura politica. Se la costruzione di un movimento di massa contro le politiche di austerità e di una sinistra anticapitalista è il problema di fondo, Rifondazione è l’unico partito che ha scelto questa strada e questa impostazione. Non lo ha scelto il PD, non lo ha scelto SEL, non lo ha scelto Grillo. Per costruire una sinistra autonoma dal centro sinistra, in grado di fare politica, cioè di relazionarsi su tutti i livelli, sociale, culturale, politico, con gli altri, in modo non minoritario, Rifondazione rappresenta una risorsa. Ad esempio considero positivo che Rifondazione sia in grado di dialogare col sindacalismo di base, con la Fiom, di interagire criticamente col sindacato confederale. Rifondazione, in terzo luogo, propone il tema del comunismo come nodo fondante la possibilità della trasformazione, Rifondazione risponde di NO alla proposta di abbandonare il tema del comunismo. Nel momento in il capitalismo non in grado di dare una risposta ai problemi che esso stesso ha creato, l’idea che vada abbandonato il comunismo è una pura follia, un puro cedimento all’avversario, nient’altro. Che l’ideologia anticomunista sia cresciuta in Italia a dismisura grazie soprattutto agli ex comunisti pentiti è del tutto evidente; che questo voglia dire abbandonare il terreno del superamento del capitalismo a mio parere è un errore colossale. L’anticomunismo è la faccia ideologica del neoliberismo, se si accetta l’uno si accetta l’altro. Quando la destra del Tea party fa i cortei contro l’Obama e contro l’assicurazione sanitaria pubblica obbligatoria, mostra cartelli su cui è scritto: “Obama is communist”. Se si accetta che il comunismo è il male assoluto e la sua equiparazione al nazismo, tutte le rivendicazioni, di salario, di welfare, di diritti, sono bollate come l’anticamera del totalitarismo. Va tenuta aperta la battaglia politica e ideologica sul comunismo, cioè sul legame tra libertà e giustizia sociale. Rifondazione Comunista questo significa.
Terza domanda: si può andare avanti col normale trantran? Possiamo pensare di uscire dalla sconfitta con un po’ più di alleantismo e un po’ più d’identità, senza fare sul serio un salto di qualità? Io penso di NO. Penso che la sconfitta non sia definitiva ma che ci ponga il problema di un salto di qualità, di un salto di paradigma. Dobbiamo uscire dalla discussione un po’ surreale se “siamo vivi o siamo morti”, per aprire una discussione su che cosa dobbiamo fare.
Costruire il partito dell’uscita dalla crisi
La tesi di fondo di questa relazione è la proposta di ridefinire il ruolo e il modo di funzionamento di Rifondazione Comunista a partire dal tema della crisi, dell’uscita dalla crisi. Uscire dalla crisi deve diventare il nostro compito di fase e dobbiamo essere riconosciuti nel paese come coloro che si pongono l’obiettivo e individuano i passi da fare per uscire dalla crisi. La crisi plasma completamente e negativamente il contesto in cui ci muoviamo. La crisi è costituente, cambierà il Paese come una guerra – lo sta già cambiando – non lascerà nulla come prima, devasta le culture, le appartenenze, i sensi di sé delle persone. La crisi è quindi una gigantesca trasformazione negativa. Se è così, la ragion d’essere dei comunisti è quella di individuare ed indicare la strada per uscire dalla crisi. La crisi economica oggi equivale a quello che fu la prima e poi la seconda guerra mondiale.
I bolscevichi hanno saputo trasformare in rivoluzione la prima guerra mondiale: hanno saputo indicare una uscita dalla guerra e contemporaneamente superare le condizioni che alla guerra imperialista avevano portato: pace e terra ai contadini. La rivoluzione russa nasce come risposta alla crisi dell’età dell’imperialismo, del positivismo borghese e dell’idea progressista, crollati miseramente nelle trincee della Prima Guerra Mondiale.
Analogamente, i comunisti della generazione successiva, hanno fatto della lotta al nazifascismo il punto fondamentale della loro azione. Sconfitti, ridotti a volte a sparuti drappelli, i comunisti hanno saputo interpretare fino in fondo la rivolta popolare contro il nazifascismo e delineare una via di uscita dalla carneficina della seconda guerra mondiale e dalle politiche che vi avevano condotto. Le Costituzioni democratiche e socialmente avanzate del dopoguerra nascono da li, dalla capacità di coniugare democrazia, giustizia sociale, volontà di pace.
La crisi ridefinisce completamente il contesto e noi dobbiamo ridefinire completamente il nostro modo di agire all’interno della crisi. Il punto fondamentale è la nostra capacità di individuare ed indicare una via di uscita da questa crisi che, a mio parere, ha caratteristiche qualitative simili a quelle determinate dai grandi conflitti. Quindi c’è un problema di cambio di paradigma.
Noi non possiamo continuare ad essere i comunisti delle fasi precedenti, in continuità. Dobbiamo definire il nuovo modo di essere comunisti oggi, nella situazione attuale. Rifondazione Comunista significa questo. Rifondare il comunismo non significa solo fare i conti con lo stalinismo – cosa necessaria e obbligatoria e rivendico la condanna degli ‘errori ed orrori’ dello stalinismo. Rifondazione significa capire come essere efficaci oggi dentro questa crisi strutturale del capitalismo. Il nodo della Rifondazione va oltre il tema della rivisitazione della storia, pone un tema di ricerca e elaborazione sull’oggi, sulla crisi del capitale. Il tema della Rifondazione non è solo un nodo nazionale, è un tema generale, dell’Europa, dell’America latina, di tutti i comunisti che vogliano essere rivoluzionari e non nostalgici.
Per acquistare una efficacia nel nuovo contesto definito dalla crisi dobbiamo fare un salto di qualità. Così come il Partito nuovo di Togliatti era assai diverso dal Pcd’I del ‘21, noi dobbiamo essere diversi da come eravamo prima. La capacità dei comunisti di cogliere la novità della fase per adattare la propria battaglia alla nuova fase è un punto decisivo. Per noi cambiare, rifondare, non vuol dire svendere ma riproporre in modo nuovo ed efficace gli stessi ideali nel nuovo contesto. Il problema non sono le diverse tradizioni da cui proveniamo ma l’invenzione di una nuova efficacia dell’azione politica dei comunisti e delle comuniste qui ed ora. Non è una discussione tra ex ingraiani, ex cossuttiani, ex nuova sinistra, è una discussione sul futuro, sugli ideali e sulle pratiche dei comunisti e delle comuniste del terzo millennio.
Da dove arriva la crisi
La mia opinione è che la crisi nasce dall’incapacità di determinare una transizione oltre il capitale negli anni Settanta. Il movimento operaio negli anni ’70 in Europa, nell’Occidente e segnatamente in Italia, è riuscito ad arrivare alla soglia “del potere e del benessere” ma non è stato in grado di indicare e di fare il passo successivo. Di fronte al dualismo di potere, che c’era nei fatti, in fabbrica e in tanti altri luoghi, la sinistra non è stata in grado di dare una risposta. Occorreva porre il tema della riduzione dell’orario di lavoro, del pieno controllo sul credito e sulla moneta, del controllo operaio sulle produzioni in forma allargata, occorreva porre il problema della libertà dell’individuo che si stava affermando. Non siamo stati capaci e siamo ripiombati nei sacrifici, siamo stati parte della regressione. Dentro questa incapacità a determinare nuove regole, a indicare la strada della transizione, si è innestata la reazione della destra, del capitale, che ha ripreso in pieno le leve del potere. Per dirla con Arisio, il “capo dei capi” della Fiat dell’80: “in Fiat negli anni ’70 si passava col rosso, dopo la marcia dei 40mila si passa solo più col giallo e tra un po’ solo col verde”. Il dualismo di potere si è sciolto e – come dopo la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche del ’20 – non solo è tornato nelle mani dei padroni, ma è anche stato utilizzato assai duramente.
I passi di questa reazione in Italia sono 3:
Il primo, la sconfitta dei lavoratori Fiat nel 1980, piegando operai e sindacato dei consigli.
Il secondo, la separazione tra governo e Banca d’Italia praticato nel luglio 1992 da Andreatta e Ciampi. Questo ha significato la privatizzazione del debito pubblico italiano, cioè mettere in mano agli speculatori il finanziamento della spesa pubblica. Da quel momento il debito pubblico italiano, che nel 1982 era al 60% del PIL, inizia a crescere del 5% all’anno, fino ad arrivare ai livelli attuali.
Il terzo, il taglio della scala mobile praticato da Craxi nel 1982 in uno scontro frontale con il PCI.
La sconfitta sociale della classe operaia, l’abolizione della sovranità statale sul debito pubblico e la sanzione della marginalità politica del PCI sono le 3 pietre miliari dell’offensiva scatenata dal padronato.
Quest’offensiva è così efficace che si ammanta immediatamente di modernità: dall’82 in avanti il monopolio dell’innovazione è della destra. Dall’82 in avanti il nuovo è di destra e la sinistra è identificata con il vecchio: sono diventati egemoni nella capacità di sciogliere a loro favore il dualismo di poteri che aveva caratterizzato l’instabile fase precedente. La loro opera di restaurazione – penso alla Fiat – viene immediatamente giustificata dall’innovazione identificata con il mercato: è la modernità che lo chiede, voi siete retrò, noi siamo moderni, ci dicono.
Quest’offensiva si colloca dentro la finanziarizzazione e la globalizzazione del capitale, con l’attacco al costo del lavoro, la distruzione del welfare, l’attacco alla democrazia. Quanto ho detto sull’Italia si può descrivere su tutti gli altri Paesi, in Francia l’ha fatto Giscard d’Estaing di abolire il controllo del governo sulla Banca centrale francese; la Mirafiori americana sono stati i controllori di volo licenziati in massa da Reagan; la Mirafiori inglese sono stati i minatori inglesi fatti fuori nell’83-’84 attraverso i licenziamenti di massa da Margaret Thatcher.
La storia degli ultimi trent’anni, la storia della globalizzazione neoliberista, è la storia della piena vittoria del capitale sul ciclo di lotte degli anni 60/70.
Questa storia trova il suo punto di crisi nel 2007-2008, quando esplode la bolla finanziaria negli Usa.
Da che cosa deriva la crisi?
La crisi del 2007-2008 è il frutto della piena vittoria del capitale negli anni ’80 e ’90. I padroni volevano abbattere i salari e ci sono riusciti, rendendo poveri i lavoratori. Questo però ha determinato il fatto che la gente non ha i soldi per arrivare alla fine del mese e riduce progressivamente i consumi. Così le aziende licenziano perché non sono in grado di venere le merci che producono. All’origine della crisi vi sono i bassi salari. Per ovviare a questo fastidioso inconveniente – pagando poco i “lavoratori”, anche i “consumatori” hanno pochi soldi – i capitalisti si sono inventati il credito al consumo, cioè il finanziamento del consumo a rate anche per chi non guadagnava nulla o quasi. Con un piccolo problema, che i poveri sono sì in grado di consumare a rate ma poi non hanno i soldi per pagare le rate. La crisi dei mutui subprime, che plasticamente segna l’inizio della crisi, è la crisi di questo capitalismo finanziarizzato che puntava a realizzare l’utopia capitalistica di riuscire a produrre denaro attraverso il denaro, senza passare attraverso la mediazione della merce cioè della produzione. Per stare a Marx, invece che D-M-D’, D-D’. La speculazione finanziaria, che sembrava essere la risposta alla crisi della produzione indotta dai bassi salari, si è rivelata una vera e propria bomba atomica che gli è scoppiata in mano.
La crisi è quindi dovuta alla piena vittoria dei capitalisti che hanno pervicacemente cercato la riduzione dei salari e la completa de regolazione dei mercati finanziari al fine di gonfiare a dismisura la speculazione stessa. La crisi economica è il frutto maturo e legittimo della globalizzazione neoliberista, è il prodotto di quel meccanismo di accumulazione capitalistico.
Qual è stata la risposta alla crisi?
A partire dal 2008 cosa succede?
Innanzitutto, nel modo del libero mercato e del rischio d’impresa, il più grande piano di salvataggi pubblici delle banche e delle multinazionali che si sia mai visto nella storia dell’umanità. Gli stati – tutti gli stati - con i soldi delle tasse pagate da lavoratori e pensionati hanno salvato le banche private e quindi le grandi multinazionali. Questa operazione di migliaia di miliardi di euro, è stata efficacemente chiamata “socialismo per soli ricchi”.
In secondo luogo si apre la crisi della globalizzazione, si accentuano le contraddizioni tra stati e blocchi economici e politici. E’ finita la fase espansiva della globalizzazione, siamo dentro a una crisi della globalizzazione, con un aumento rapido dei conflitti. Basti vedere la differenza tra la vicenda libica e la Siria per vedere quanto è aumentato il livello di conflitto tra le grandi potenze. In Libia, Cina e Russia hanno subito completamente l’offensiva occidentale. In Siria no. Oppure basta guardare al numero di contenziosi in sede WTO tra Cina e Stati Uniti: è cresciuto esponenzialmente. L’unica che non apre problemi e subisce è l’Europa che non difende gli interessi europei, ma quelli tedeschi. Essendo la Germania interessata a esportare sulle fasce alte della produzione, impedisce che venga sollevato qualsiasi contenzioso sulla violazione delle regole del commercio per le fasce basse della produzione – che coinvolgono maggiormente altri paesi europei – per evitare ritorsioni. I contenziosi tra Cina e USA stanno crescendo così come riemergono con forza i nodi di conflitto geopolitici. Gli Usa non sono contenti che la Cina stia comprandosi l’Africa, così come gli USA fanno letteralmente di tutto per sottrarre l’Europa dalle dipendenze del gas russo. Il segnale più forte della crisi della globalizzazione è avvenuto pochi giorni fa ed è passato quasi sotto silenzio. Il vertice europeo di fine giugno – quello in cui Letta ha fatto finta di battersi eroicamente per non ottenere nulla sui temi dell’occupazione – ha deciso una cosa sola: l’apertura dei negoziati tra Unione Europea e USA per dar vita alla NATO economica, cioè al Transatlantic Trade and Investiment Partnership (TTIP), ovvero alla costruzione di una zona di libero scambio tra Europa e Nord America. Questa è l’unica vera decisione, che è stata poi suggellata al G8 irlandese con la conferenza stampa congiunta tra Obama Barroso e Van Rompuy che hanno santificato la partenza del negoziato. Questa offensiva statunitense che è riuscita ad accalappiare l’Europa, sul piano geopolitico è poco meno di un atto di guerra nei confronti di Cina, Russia e Brics in generale. Gli Usa stanno riorganizzando un loro campo economico dentro la crisi della globalizzazione.
Questo trattato – ci spendo solo un minuto perché non ne ha parlato nessuno – avrà effetti devastanti per l’Europa. L’unica cosa di cui il grande pubblico è a conoscenza è che il governo francese si è opposto al fatto che la cultura, la produzione di audiovisivi, fosse considerata parte integrante del trattato, cioè una merce come le altre. Questo è un fatto positivo per evitare la piena colonizzazione della cultura europea da parte dei giganti come Hollywood, Google, Microsoft … Tenete presente – sia detto tra parentesi – che il processo di centralizzazione dei capitali avvenuto con l’industria informatica è il più rapido e il più forte che si sia mai realizzato nella storia dell’umanità e nel capitalismo. Il processo di centralizzazione dei capitali che è avvenuto con la prima e con la seconda rivoluzione industriale è ridicolo rispetto a quello che si è realizzato oggi. Tra le maggiori aziende quotate in borsa, a livello mondiale in vent’anni le aziende informatiche hanno sorpassato le aziende petrolifere e le aziende manifatturiere che avevano caratterizzato il ciclo di accumulazione precedente. Quindi la Francia ha tenuto la cultura fuori dal trattato. Il problema è che nel trattato c’è rimasto tutto il resto. Ad esempio ci sono i servizi pubblici. Nelle proposte degli Stati Uniti, è previsto che i servizi pubblici (dalla sanità all’acqua ai trasporti, ecc.), debbano obbligatoriamente andare a gara salvo che vi sia l’assenza di un’offerta del privato; cioè può rimanere pubblico solo dove non ci sia interesse del privato. Per non parlare della tutela dell’ambiente o dell’agricoltura: un accordo che abolisce dazi e uniforma al livello più basso i regolamenti distruggerebbe l’agricoltura italiana di qualità e ogni discorso sui cicli corti e ci farebbe invadere da cibo OGM e carne di mucca estrogenata, come chiedono le multinazionali agroindustriali statunitensi.
Nella crisi della globalizzazione c’è quindi un progetto egemonico statunitense di annettersi l’Europa – che è un gigante economico ma un nano schizofrenico sul piano politico e militare - dentro un asse atlantico in funzione anti sud ed est del mondo.
In terzo luogo, le classi dirigenti europee procedono alla distruzione delle grandi conquiste del secondo dopoguerra a partire dal welfare e dai diritti sindacali, per arrivare alla democrazia. Questa distruzione, che si accompagna ad una gerarchizzazione interna all’Europa, che vede la Germania comandare e i paesi del sud obbedire, è realizzata attraverso l’applicazione criminale delle politiche di austerità. Del resto si dice che i Chicago boys abbiano inventato il monetarismo e poi oltre a Pinochet, abbiano trovato in Europa gli idioti che l’applicassero, a cominciare da Margaret Thatcher.
Le politiche di austerità oltre a distruggere i diritti del lavoro, il welfare e la democrazia, determinano regressioni più ampie: pensiamo solo a come la demolizione del welfare incide negativamente sui ruoli sessuali, con le donne ricacciate nel ruolo di angeli del focolare a gestire la riproduzione sociale in chiave domestica. È l’idea neofamilista che torna fuori come fattore di modernità dentro la distruzione del welfare. Quindi è un fatto economico, di civiltà, di costumi, di modi di vita.
L’altro fenomeno che voglio sottolineare è che il modo in cui l’Europa affronta la crisi produce fortissima gerarchizzazione tra i paesi e una centralizzazione dei capitali sulla Germania, sull’asse carolingio. L’idea che l’Europa sia un’unione di Stati più o meno alla pari, una specie di primo passo per gli stati uniti d’Europa, è una stupidaggine senza alcun senso. Le decisioni di Bruxelles sono in realtà validate alla Corte di Karlsruhe e al Bundestag di Berlino. L’Europa non è in nessun modo uno spazio democratico ma è un impero “in un continente solo”, con stati sovrani e colonie gli uni a fianco agli altri.
Per riassumerla in una battuta, la crisi origina dalla piena vittoria del capitale sul ciclo di lotte degli anni ‘70 e oggi produce socialismo per soli ricchi, crisi della globalizzazione e la distruzione del modello sociale europeo.
La colonizzazione dei cervelli
La controrivoluzione capitalista non si è esercitata solo sul piano della struttura ma anche – in Italia per certi versi soprattutto – sul piano delle idee, delle ideologie, della formazione dell’immaginario pubblico e provato.
Per rimanere al caso italiano abbiamo assistito in questi anni:
In primo luogo ad un rovesciamento dell’idea della libertà dell’individuo: dal dopoguerra fino agli anni ’70, l’idea della libertà era un’idea collettiva, faceva parte di un percorso storico, partecipato: l’individuo si liberava con gli altri e le altre. Oggi l’idea della libertà è individuale, istantanea ed estetica, nel senso di potere sovrano privo di limiti: l’individuo si libera contro gli altri non con gli altri. Io penso che il berlusconismo, l’elemento principale del berlusconismo, sia stato il rovesciamento dell’idea di libertà. Per Berlusconi la libertà è la libertà di far quello che vuole: è la libertà del maschio di fare cosa vuole, compresa l’organizzazione della prostituzione delle minorenni. È l’idea della potenza immediata, autistica ed egocentrica, che vive come vincolo negativo chiunque ponga dei problemi, che sia lo Stato, sia la comunità. Con questo rovesciamento dell’idea di libertà Berlusconi ha plasmato il senso comune, sdoganato il peggio dell’animo umano ed è diventato la vera biografia della nazione.
In secondo luogo col neoliberismo c’è stato un rovesciamento del ruolo della politica: da strumento di emancipazione è presentata come lo schifo assoluto. E’ evidente che la politica nella fase precedente, fosse fatta da destra o da sinistra, aveva un elemento che riguardava la vita delle persone. Com’è noto i democristiani rubavano ma davano anche qualche posto di lavoro. Oggi, il neoliberismo ha posto le condizioni perché la politica diventasse inutile cioè non serva mai a migliorare le condizioni di vita della gente. Questa inutilità della politica prodotta dall’applicazione delle politiche neoliberiste, grazie al meccanismo del bipolarismo e dell’alternanza tra simili, ha determinato una ulteriore crisi della politica nella percezione del “sono tutti uguali”, “chiunque governi fa le stesse cose”. A questo si aggiunge l’odio per i privilegi che caratterizzano il ruolo del “politico”. Qui c’è la rottura della politica e qui nasce anche la rottura dello Stato nazionale: se lo Stato non serve più a niente, ci teniamo i soldi a casa nostra e votiamo chi promette di tagliarsi lo stipendio.
In questo contesto la politica cerca una sua arma di legittimazione nello spettacolo: esce dalla vita delle persone ed entra nei loro salotti attraverso la televisione, si fa intrattenimento, arte della chiacchiera fine a se stessa e fine gesto teatrale. La personalizzazione estrema, i collegi uninominali, i sindaci eletti direttamente dal popolo e – da ultimo – il presidenzialismo vanno tutti nella stesa direzione: la disfida personale si concentra sulle caratteristiche dei soggetti piuttosto che sulle scelte politiche. Le lobbies americane – per non sbagliare – finanziano le campagne elettorale di entrambi i candidati presidenti ben consapevoli che la durezza dello scontro teatralizzato copre sovente la sostanziale identità dei programmi e soprattutto dei comportamenti concreti nell’azione di governo. Del resto più il prodotto che si vende è simile e più la concorrenza si fa dura e l’inganno necessario.
In terzo luogo in Italia abbiamo un rovesciamento nella formazione dell’immaginario: l’Italia diventa definitivamente una società dello spettacolo in senso proprio. Le tv commerciali producono una colonizzazione del senso comune di massa: ai fini della formazione dell’opinione non è essenziale cosa ti capita ma cosa dice la televisione, la verità è quella che appare in video, se non appare in tv è inessenziale nella formazione della tua percezione del reale. La ripetizione infinita di messaggi stereotipati ha modificato complessivamente la percezione del reale.
Mi è capitato due giorni fa di scrivere una lettera a Sergio Rizzo perché sul Corriere della Sera aveva scritto che la vittoria di Accorinti a Messina rappresenta la vittoria dell’Italia del NO, No ponte, No tav e così via. Ho scritto a Rizzo per dire che quella di Messina è una esperienza straordinaria, che ha visto una ampia coalizione sociale che andava dai cattolici di base a noi passando per tutti i movimenti e che aveva in Accorinti, pacifista, nonviolento, il collante etico prima ancora che politico. Gli ho detto che dentro quei e che dentro i NO c’erano molti SI e che sono i giornalisti come lui che li riducono a NO. Rizzo mi risponde con tre righe: “Sì ma allora perché si è presentato con la lista ‘No ponte’ invece che con la lista ‘Sì giustizia’?” C’è solo un particolare, che la lista non si chiamava ‘No Ponte’, ma “Renato Accorinti Sindaco”, con un bell’arcobaleno. Allora io ho fatto un’altra lettera che non so se pubblicheranno, in cui gli dico, Caro Rizzo, grazie per la risposta, ma è totalmente infondata, l’oggetto con cui polemizza se lo è inventato lei rovesciando la realtà. Nella comunicazione mediatica la realtà è piegata alle esigenze del messaggio da veicolare e il messaggio diventa molto più forte della realtà: la interpreta e la plasma. Questo accade ogni giorno da anni e ha plasmato il senso comune di massa.
Negli ultimi trent’anni abbiamo quindi una modifica radicale del formarsi delle coscienze e del rapporto tra l’individuo e la società, tra l’individuo e la politica. Sia detto di passaggio, io penso che Beppe Grillo è il frutto maturo di questi processi di trasformazione. Secondo me sbaglia radicalmente chi pensa che Grillo rappresenti l’alternativa a questo stato di cose: Grillo è un punto di sintesi di queste trasformazioni, è totalmente in sintonia con quello che il telegiornale più seguito in Italia da vent’anni - cioè Striscia la notizia – dice tutte le sere agli italiani: il popolo italiano è buono, tutto, sono i politici e i banchieri che fanno schifo, ma il resto è tutto buono. Infatti Grillo si erge a rappresentante di tutto il popolo e quindi non si occupa delle cose che dividono il popolo: la mafia, l’immigrazione, la lotta di classe, etc. Grillo fa leva sul massimo della delega, sulla ricerca miracolistica dell’uomo della provvidenza: Grillo raccoglie consenso confermando pienamente l’impotenza sociale di chi lo vota.
Perché non ci sono le lotte
Quando ragioniamo sulla pesantezza della crisi e sulla sostanziale assenza di conflitto sociale, dobbiamo tener presente oltre alle condizioni materiali anche le modifiche dell’immaginario a cui ho fatto cenno poc’anzi e alcuni altri elementi. In particolare io penso:
In primo luogo occorre notare come la forma dell’individualità prodotta dalle tv commerciali vada in rotta di collisione frontale con la crisi. Di fronte ad un immaginario che ci aveva detto che bastava volere ed essere più furbo del prossimo per poter avere tutto, l’impoverimento e il blocco della mobilità sociale sono un corpo mortale. Quello che è stato definito “l’edonismo reaganiano” se funzionava nella fase espansiva, adesso produce depressione, perdita del senso di se. L’impoverimento produce smarrimento, disperazione, ma non produce automaticamente conflitto di classe, perché l’orizzonte resta quello dell’individualismo sfrenato tenacemente propagandato per 30 anni. Chi fallisce non si sente uno sfruttato che deve cercare la solidarietà degli altri sfruttati, ma si sente un fallito, uno sfigato che ha perso. La crisi del modello di promozione sociale basta sull’individualismo e sulla fine delle classi e delle ideologie, non riporta magicamente in vita le pratiche e le ideologie precedenti, ma si presenta come fallimento senza alternative. La gente subisce i disastri del neoliberismo ma continua a pensare con una testa neoliberista. C’è una ragione strutturale nel fatto che le reazioni degli italiani di fronte alla crisi sono diverse da quelle di tutti gli altri Paesi europei, c’è una relazione col modo in cui è cambiata la cultura di massa, lo dobbiamo capire, perché altrimenti rischiamo di fare appelli che cadono nel vuoto e noi non sappiamo spiegarci il perché. Le forme di costruzione dell’individualità determinano anche le forme di reazione alla crisi. Non è un caso che i suicidi e i femminicidi – espressione palese dell’impotenza del maschilismo – sono le due forme principali in cui il malessere sociale si esprime oggi in Italia.
In secondo luogo, le lotte sono scarse, anche per una responsabilità sindacale enorme. Di CISL e UIL non parlo nemmeno, ma anche la CGIL fa il sindacato unicamente quando c’è Berlusconi al governo. Questa assenza di azione sindacale ha privato i lavoratori e i pensionati del loro principale strumento di difesa. L’assenza di autonomia che il sindacato italiano ha nei confronti del quadro politico non ha eguali in Europa e ne subiamo le tragiche conseguenze in termini di mancanza di conflitto. Il prossimo congresso della Cgil sarà un’occasione per affrontare questo nodo.
In terzo luogo, le lotte che ci sono, quelle più significative, sono quelle legate al territorio, in cui l’elemento della partecipazione e del personale supera la difficoltà del rapporto con la politica, perché c’è un rapporto immediato, diretto: dalla Val di Susa al No Muos al No ponte. Una delle poche lotte che funzionano in questi mesi sono le forme di solidarietà e di conflitto sul tema della casa, i picchetti anti sfratto e le occupazioni. C’è un legame sempre col territorio – non sono gli anni ’70, mediati dalle organizzazioni sindacali e dai partiti – è l’organizzazione diretta, il controllo stretto su cosa si fa che favorisce l’organizzazione, che ha caratteristiche più mutualistiche che universali.
Vi è quindi un’enorme disperazione sociale che non trova le idee, i codici culturali, le strutture per diventare protagonismo sociale, se non in minima parte. Il problema della costruzione del movimento di massa contro il liberismo, non può quindi essere la pura sommatoria di cosa oggi si muove: non è solo un problema organizzativo ma politico e culturale. Per produrre lotte identificanti ed efficaci occorre individuare un progetto che entri in connessione con la testa e la pancia della gente e ne determini contemporaneamente un percorso di modifica. Altrimenti il nostro discorso rischia di scivolare via come acqua sul marmo.
Per quanto possa risultare paradossale, c’è nel corpo sociale una domanda di potere, di potenza, di forza – di cambiamento – che deve imparare a misurarsi con l’impotenza concreta per riuscire a trasformarsi e quindi a diventare effettivamente potenza. Non riuscire a padroneggiare le ragioni della crisi e avere la testa piena delle stupidaggini propinate negli ultimi 30 anni, non facilita la costruzione di percorsi collettivi per uscire dalla crisi. Occorre ragionare meglio su come si forma la soggettività in un contesto in cui per vent’anni ci hanno colonizzato il cervello con le stupidaggini berlusconiane. È un punto decisivo per l’Italia.
PARTE II: LA PROPOSTA
Il progetto di Rifondazione Comunista
In questo quadro, penso che dobbiamo fare le seguenti cose:
A) Spiegare perché c’è la crisi.
Innanzitutto dobbiamo essere capaci a spiegare al popolo italiano perché c’è la crisi, quali sono le sue cause. Questa opera di alfabetizzazione è decisiva perché altrimenti hanno la meglio le spiegazioni magiche di Grillo, Berlusconi, Renzi o Enrico Letta! La comprensione delle ragioni della crisi è un passo obbligatorio per poter essere riconosciuti come quelli che indicano la via corretta per uscire dalla crisi: chi non sa perché sta male difficilmente capirà come guarire. Senza una comprensione di massa del perché c’è la crisi è impensabile costruire un movimento di massa che permetta di uscirne. In America Latina hanno capito a livello di massa che cos’era il neoliberismo e per quello riescono a cambiare. Così come chi ha fatto la Resistenza o ha lottato negli anni ’50, ’60, ’70, aveva chiaro da dove arrivavano i problemi e cosa occorreva fare per risolverli. Rifondazione deve fare un’alfabetizzazione di massa sulle cause della crisi: la crisi non è frutto di scarsità, ma di cattiva distribuzione del reddito, del lavoro e del potere. L’unica risorsa scarsa è la natura, che invece il capitale spreca e distrugge a tutto regime. Il capitale tratta come scarso il denaro – che invece è illimitato – e come illimitata la natura, che invece è limitata. L’origine della crisi è la cattiva distribuzione del reddito, del lavoro e del potere in un contesto di mercificazione e distruzione della natura. Il nostro primo compito è quello di costruire una critica di massa al neoliberismo, di fare un processo di alfabetizzazione sulla crisi, attorno a cui dobbiamo coinvolgere tutti gli intellettuali disponibili. Decostruire il pensiero dominante, l’ideologia dominante, decolonizzare i cervelli.
B) In secondo luogo avanzare proposte concrete per uscire dalla crisi.
dobbiamo individuare una strada chiara e percorribile per uscire dalla crisi. Non possiamo limitarci a denunciare, dobbiamo avanzare proposte concrete che rovescino le ragioni della crisi.
Bisogna redistribuire il reddito come condizione per rialimentare i consumi e permettere alla gente di vivere civilmente, cosa che fa anche funzionare l’economia. Bisogna redistribuire il lavoro e il tema della riduzione dell’orario di lavoro deve diventare centrale. Faccio notare una cosa: oltre all’aumento dell’età per andare in pensione della delinquenziale riforma Fornero, in vari contratti, c’è un aumento dell’orario; alla Fiat sono 200 ore di straordinario obbligatorio, nei ferrovieri sono 2 ore a settimana e così in vari settori. In vent’anni siamo passati da 1800 ore di lavoro l’anno per 35 anni a 2000 ore di lavoro l’anno per 42 anni: si passa da 63mila ore lavorate, nella vita, a 84mila ore, il 30% in più, una enormità. Stiamo subendo un enorme aumento di plusvalore relativo e assoluto, di aumento della produttività del lavoro e di allungamento dell’orario di lavoro. Da dopo la seconda Guerra mondiale l’orario di lavoro è sceso di oltre 10 ore la settimana, oggi avviene il contrario!
In terzo luogo, oltre alla redistribuzione del reddito e del lavoro, dobbiamo ridistribuire il potere.Dobbiamo avere come parola d’ordine “Sovranità al popolo”, bisogna ottenere la piena sovranità dei cittadini: democrazia sui posti di lavoro, proporzionale, allargare la possibilità dell’utilizzo dei referendum, allargamento dei beni comuni, gestione partecipata del welfare. Occorre allargare la sovranità del popolo all’economia: gli investimenti e la gestione della moneta devono essere decisi democraticamente, non dalle banche e dalle multinazionali. Quindi intervento pubblico, beni comuni, sovranità sul denaro: non si capisce perché le banche devono avere i soldi allo 0,5% e la gente normale al 10%, la sovranità sul denaro è un punto costitutivo di uno stato democratico, non esiste uno stato democratico in cui la sovranità sul denaro ce l’hanno i privati, perché lo Stato viene ricattato, come capita oggi. Redistribuire reddito, lavoro, potere in tutte le sue articolazioni.
E poi riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni: la parola d’ordine per uscire dalla crisi e dalle politiche di austerità non può essere la pura ripresa della crescita indifferenziata. Occorre cambiare modello di sviluppo, facendo della finitezza delle risorse naturali un vincolo virtuoso attorno a cui ripensare il modello produttivo e la stessa organizzazione sociale. Abbiamo 40 milioni di autovetture, non possiamo pensare di arrivare a 50 e poi a 60. Praticare una riconversione ambientale e sociale significa mettere al centro il valore d’uso e non il valore di scambio, ridurre gli sprechi, demercificare, valorizzare i cicli corti in agricoltura e via di questo passo. Anche su questo terreno vi è la necessità di valorizzare i saperi sociali presenti sul territorio, dell’intellettualità diffusa sul territorio, con cui occorre costruire una relazione e un lavoro comune.
Il piano del lavoro, che poi Roberta illustrerà, è evidente che lo dobbiamo costruire sui territori, a livello regionale, provinciale, comunale, e per settori, mettendo a valore l’intellettualità diffusa che c’è in questo Paese, facendo progetti concreti e costruendo su questo la lotta per il lavoro.
In questo quadro la lotta contro le privatizzazioni, per lo sviluppo dell’intervento pubblico in economia e per lo sviluppo dei beni comuni è un punto fondamentale nel nostro progetto. I beni comuni per noi hanno un doppio valore: da un lato la messa al centro della produzione di valori d’uso e non di valori di scambio, dall’altro la costruzione di una sfera pubblica frutto della dialettica tra Stato e autogestione sociale, tra stato e controllo sociale. Vi è chi pensa ai beni comuni – e al comune – come contrapposti allo Stato, proponendo nei fatti una dialettica tra mercato e autogestione sociale. Si tratta di una prospettiva diversa dalla nostra: lo stato centralizzato e burocratico va superato in avanti, la democrazia e lo stato vanno socializzati in un processo di allargamento dell’universalismo e non di suo restringimento. Costruire quindi una dialettica tra stato e autogestione, tra stato e controllo sociale, al fine di restringere sempre più la sfera dei bisogni che vengono soddisfatti attraverso le merci e il mercato, allargando sempre più la sfera dei bisogni soddisfatti attraverso i valori d’uso, i diritti.
C) Rompere la gabbia rappresentata dall’Europa di Maastricht
La proposta di uscita dalla crisi che ho appena formulato va in rotta di collisione con l’Europa così com’è fatta oggi. L’Unione Europea non è oggi uno spazio di libertà: la sovranità dei popoli non si è trasferita dal livello nazionale a quello sovrannazionale ma dai parlamenti alle banche e ai potentati economici privati. Oggi l’Unione Europea è un territorio governato dal neoliberismo che è stato codificato in leggi attraverso i trattati. Questa Europa è incompatibile con la possibilità di uscire dalla crisi, anzi, tende ad aggravarla, così come tende ad aggravare le diseguaglianze all’interno dell’Europa.
Questo valutazione sull’Europa significa che l’idea del Partito democratico – di uscire dalla crisi rendendo progressivamente più forte il potere politico in Europa e per quella via modificare le politiche europee – è priva di fondamenta. Gli interessi in Europa sono divergenti e il fatto che i trattati sono modificabili unicamente all’unanimità rende impossibile una graduale modifica dell’Europa liberista in una Europa solidale. Basta vedere cosa sta accadendo sull’occupazione: Letta magnifica come enormi successi stanziamenti di qualche centinaio di milioni sull’occupazione, mentre il fiscal Compact da solo peserà per 45 miliardi l’anno: cento volte tanto. L’Europa è un disastro non modificabile per linee interne, questo è il punto. Vorrei che fosse chiaro che non sto dicendo che il Pd in Europa vuole solo 5 e noi vogliamo 10 perché siamo più estremisti. Il punto è la direzione di marcia che va in senso opposto alla necessità di uscire dalla crisi. La posizione del PD infatti non è moderata ma totalmente irrealistica e non a caso produce uno schema comunicativo che è grosso modo questo: “noi abbiamo ragione e prima o poi ci daranno ragione, ma gli altri per adesso sono cattivi e ottusi e quindi le cose non vanno ancora nella direzione giusta”. Sono dieci anni che ci raccontano questo ritornello!
D) Ridare sovranità al popolo e disobbedire ai trattati
Noi avanziamo una proposta diversa basata sulla ricostruzione della sovranità popolare a tutti i livelli, a partire da quello nazionale. Quest’Europa non è democratica ma ha spostato il potere dagli stati ai banchieri e alle tecnocrazie. Noi dobbiamo sconfiggerla rimettendo al centro la sovranità popolare, cioè il potere ai luoghi in cui democraticamente si possono assumere decisioni: i parlamenti. I comunisti devono essere i garanti della democrazia e dell’indipendenza dell’Italia che si sta trasformando sempre più in un protettorato gestito in forme a-democratiche. L’uscita dalla crisi presuppone un passaggio di potere dalle banche e dalle imprese ai popoli, cioè una decisa ripresa della sovranità popolare sull’economia e sulla moneta.
Per questo noi proponiamo di disobbedire unilateralmente ai trattati, modificando così direttamente le politiche economiche e sociali. La storia di questi 10 anni ci dice infatti che la strategia di andare a Bruxelles e “battere i pugni sul tavolo” non porta alcun risultato tangibile: si tratta di una finzione retorica buona per qualche articolo di giornale finalizzato a prendere in giro il popolo, ma non serve a nulla. Occorre al contrario praticare l’obiettivo della modifica delle politiche economiche e sociali come consapevole forma di lotta, che si può allargare anche ad altri paesi e – per questa via – mettere in discussione concretamente le politiche europee ed aprire le condizioni per una ricontrattazione dei trattati. Per ricontrattati i trattati bisogna violarli e per cambiare l’Europa bisogna rompere questa Europa neoliberista. Per cambiare la situazione in fabbrica a me hanno insegnato che non basta discutere, bisogna fare sciopero. La stessa cosa vale in Europa.
Questa linea politica ha un rischio, che è relativo alla possibilità di vedere il finanziamento del nostro debito pubblico finire sotto il tiro della speculazione internazionale.
Questo problema è risolvibile e soprattutto deve essere contestualizzato:
innanzitutto – a differenza di quanto ci hanno raccontato per un anno – il problema della speculazione sul debito pubblico non è tanto legata all’entità del debito quanto al disavanzo della bilancia dei pagamenti. In altri termini la speculazione trova un terreno fertile quando gli speculatori pensano che un paese abbia difficoltà a rimborsare il debito e quindi quando il paese in questione consuma regolarmente più di quanto produce. Detta in altre parole, se un Paese è importatore netto e non ha forme di garanzie date dall’Europa, la speculazione ha campo libero per esercitarsi. È quanto avvenuto negli anni scorsi a partire dalla Grecia per poi allargarsi a tutti i paesi del Sud Europa a partire dalla scommessa che l’Euro si frantumasse. È bastata la garanzia della BCE di intervenire sul mercato secondario per fermare questo processo. In ogni caso faccio notare che l’Italia non ha un passivo nella bilancia commerciale, anzi è lievemente in attivo e un intervento pubblico sulle politiche industriali può facilmente consolidare questo attivo. Nell’economia e nel mondo reale valgono i rapporti di forza: l’Italia non è all’ultimo posto, è la seconda potenza industriale dell’Unione Europea dopo la Germania. In realtà quindi la denigrazione continua della situazione economica italiana è finalizzata unicamente a terrorizzare la popolazione, a produrre paura per facilitare l’accettazione delle politiche di austerità. Non è quindi vero che l’Italia sia strutturalmente esposta al rischio concreto di una ripresa della speculazione sul debito, dipende dalle politiche del governo. A questo riguardo è bene ricordare che sono proprio le politiche di austerità che – indebolendo pesantemente l’economia reale – stanno ponendo le condizioni per un peggioramento del rapporto debito/PIL e della capacità di tenuta dell’apparato industriale e quindi per una ripresa della speculazione. Detto questo, la disobbedienza ai trattati chiede un forte intervento statale sulla gestione del debito pubblico. Elenco qui di seguito alcune misure che possono essere prese. Innanzitutto una modifica del ruolo della Banca d’Italia nelle aste dei titoli di stato: in Germania la Banca centrale tedesca partecipa alle aste dei titoli di stato e ha una funzione di calmierare i tassi di interesse, In Italia no, non si capisce perché. In secondo luogo i Fondi pensione italiani ammontano a 100 miliardi di patrimonio, con 12 miliardi di entrate l’anno. Il 70% delle entrate è investito all’estero. È evidente che occorre produrre una normativa che porti i fondi pensione italiani ad investire in titoli di stato italiani. In terzo luogo è possibile fare emissioni di titoli di stato a base nazionale, con cui pagare almeno una quota delle cifre che lo stato deve pagare a vario titolo sul territorio nazionale. Questa prospettiva si potrebbe poi allargare ulteriormente al complesso dei pagamenti dello stato, dando vita ad una effettiva circolazione dei titoli di stato di piccolo taglio come moneta corrente, una vera e propria moneta nella moneta il cui costo non sarebbe determinato dai mercati internazionali. Mi è chiaro che i trattati prevedono espressamente il divieto di creazione di moneta ma questa non sarebbe formalmente creazione di moneta e permetterebbe di aggirare le follie della gestione dell’Euro prevista dai trattati. Ovviamente si tratterebbe anche di fare un audit sul Debito pubblico italiano, per verificare la parte di debito illegittima che nel corso degli anni si è accumulata.
Ho fatto alcuni esempi e altri potrebbero essere fatti. Il punto politico è quello dell’uscita della lamentela impotente per le politiche europee e la riconquista concreta di margini di sovranità popolare, di autonomia, indipendenza e democrazia a livello nazionale. Disobbedire ai trattati per mettersi nelle condizioni di non farsi macellare dalla speculazione finanziaria internazionale e per porre con i piedi per terra la modifica unilaterale della politica economica e finanziaria. Questo mi pare un punto decisivo: è una strada diversa dall’idea che andiamo a Bruxelles a batter i pugni sul tavolo e poi siamo però obbligati ad applicare quello che ci ordinano. Quando il padrone non accetta la tua piattaforma devi dichiarare sciopero: disobbedire ai trattati è equivalente a una dichiarazione di sciopero.
Per andare dove? La cosa migliore sarebbe riuscire a modificare l’Europa, cambiare il ruolo della BCE, adottare una politica fiscale unitaria che preveda la redistribuzione delle risorse dai più ricchi ai più poveri: la cosa migliore sarebbe riuscire a costruire una Europa egualitaria, nella pienezza di diritti sociali, civili e nel rispetto dell’ambiente. Se questo non dovesse accadere o se l’Euro saltasse per le sue folli dinamiche di funzionamento, almeno avremmo recuperato dei margini di manovra e di sovranità che saranno comunque utili. La cosa che secondo me non è più accettabile è di rimanere in questa condizione ad aspettare Godot, che sia il ravvedimento della Merkel o che l’euro salti per aria. Bisogna smetterla di lamentarsi aspettando, bisogna agire, subito. Questo è tanto più necessario visto che le dinamiche concrete generate dai trattati che governano il funzionamento dell’Euro e dell’economia europea, stanno determinando una divaricazione sempre maggiore tra le diverse economie e vi sono tutte le condizioni affinché l’euro salti per aria. Occorre infatti tener presente che c’è un legame tra i livelli salariali, i tassi di cambio e la redistribuzione fiscale: in una Europa che ha molte differenze occorre agire su una di queste tre variabili – tra loro interconnesse – per riequilibrare il sistema. O si vi è una svalutazione salariale – taglio dei salari in qualche paese – o una svalutazione monetaria o una redistribuzione fiscale. Ad esempio il nord e il sud Italia sono diversi ma esiste lo Stato italiano che sia pure in minima parte redistribuisce risorse. A livello europeo non essendoci alcuna redistribuzione – anzi – e non essendo possibili svalutazioni differenziate, tutto si sta scaricando sui salari e su una concentrazione di capitali dal centro alla periferia. È un meccanismo criminale nei confronti dei lavoratori dell’Europa del Sud non è un meccanismo che possa procedere a lungo senza esplodere.
La battaglia per la disobbedienza dai trattati si pone esattamente l’obiettivo politico di dar vita ad una azione politica positivo in questa terra di mezzo, in cui l’euro c’è ma produce gravissimi danni. È l’unica battaglia che possa dare risultati perché anche chi pone l’obiettivo dell’uscita dall’euro, sostiene che questa uscita non può essere un atto unilaterale ma dovrebbe essere concordata a livello europeo. Dovrebbe cioè avere il benestare della Merkel. Mi pare che il problema è proprio questo: che si punti a uscire dall’euro o alla modifica dei trattati, il tutto resta delegato all’accettazione di queste prospettive da parte di tutti i paesi della UE, a partire dalla Germania. Non mi pare una prospettiva né credibile né auspicabile, perché il problema è la ripresa di potere da parte del nostro stato, non di attendere che la Merkel e i mercati finanziari decidano il nostro futuro.
L’unico che ha parlato di uscita unilaterale dall’euro è stato Grillo che ha avanzato una tesi abbastanza strampalata. Grillo ha detto: bisogna uscire dall’euro il venerdì sera, quando i mercati sono chiusi, avere già le banconote stampate e il lunedì mattina si riparte con la moneta nuova. Si tratta di una proposta inverosimile perché magari per stampare e distribuire le banconote non bastano 2 giorni e se uno stato si mette a stampare nuove monete è evidente che il minuto dopo lo sanno tutti e si avrebbe uno spostamento di capitali in euro dall’Italia all’estero che rischia di lasciare il paese molto più povero di prima. È poi in ogni caso evidente che una eventuale uscita dall’euro richiederebbe come minimo il ripristino di una scala mobile integrale – altrimenti la svalutazione verrebbe fatta pagare ai salari – e la messa sotto il controllo pubblico della banca d’Italia, altrimenti il debito continuerebbe ad essere finanziato sul mercato internazionale ma a condizioni più svantaggiose. Di questo però Grillo non parla forse perché invece che con la demagogia questi misure hanno a che fare con la lotta di classe.
La posizione che propongo di adottare si basa quindi sulla spiegazione delle cause della crisi, sulla definizione di un praticabile piano del lavoro e sulla ripresa della sovranità del popolo sulle scelte economiche. Non più un generico inno all’Europa ma la ripresa della sovranità nazionale quale condizione per mettere in discussione l’Europa di Maastricht e impostare correttamente una Europa dei popoli e dei diritti.
E) Per rendere efficaci i contenuti proposti occorre modificare in profondità il modo di essere del partito.
Se è giusta tutta l’analisi fatta sulla crisi della politica, sulla spettacolarizzazione della politica, sulla riduzione della politica a teatro, sul fatto che la politica non fa presa sulle cose reali, noi non possiamo risultare quelli che pur non avendo alcun potere sono uguali agli altri. Occorre essere consapevoli che noi rischiamo di avere tutti gli elementi negativi della crisi della politica senza averne alcuna rendita di posizione. Come dire, oltre al danno la beffa.
Per questo io penso che occorre modificare le nostre pratiche e che occorre mettere al centro il tema del partito sociale, cioè di un partito che, oltre a dire, fa, delle azioni di solidarietà, di mutualismo, oltre che di organizzazione del conflitto. Queste pratiche noi le facciamo ma troppo a macchie di leopardo e in modo sovente discontinuo, si tratta invece di un punto decisivo per modificare radicalmente la nostra identità di fronte al paese. Le pratiche del “partito sociale” riguardano la definizione del “pulpito” da cui parliamo. Se siamo identificati in quanto politici come gli altri, che semplicemente dicono cose un po’ diverse, l’efficacia è quasi pari a 0. Se in Italia riuscissimo a far sì che i comunisti vengano riconosciuti come portatori di una pratica sociale solidale e conflittuale forte, determinata, potremo fare un salto di qualità. Pensiamo a come la pratica della Caritas ha completamente modificato la percezione sociale della Chiesa Cattolica. Noi dobbiamo produrre una modifica pari a quella determinata dalla Caritas affinché la credibilità delle cose che diciamo sia significativamente più alta. Dobbiamo prendere atto che sin’ora con il partito sociale è stato sperimentato ma non è diventato il modo di esistere del partito. Noi a libertè ed egalitè, dobbiamo aggiungere in modo virtuoso e riconoscibile fraternité. Dobbiamo fare un salto di qualità per cui ogni circolo possa essere riconosciuto a partire dalle sue pratiche sociali e quindi dalle cose che dice e propone. Del resto noi abbiamo il problema di cambiare il mondo non solo di cercare di rappresentarlo. Occorre superare le rigidità mentali che ci impediscono di cogliere questo dato elementare per riuscire a riposizionare il partito nella società e a superare per quanto ci riguarda la crisi della politica. Ovviamente non è il mutualismo che farà uscire il paese dalla crisi economica; il mutualismo però può dare un contributo significativo alla costruzione di una soggettività alternativa, che non si basi sulla delega ma sulla piena coscienza della propria importanza e del proprio ruolo storico. Da questo punto di vista a mio parere occorre rivedere e costruire un rapporto col mondo cattolico. Lo dico in modo esplicito: noi abbiamo un conflitto col Vaticano sul tema dei diritti civili, non sono per ridurlo nemmeno di un millimetro. Ma oggi, come giustamente avevamo detto, questo Papa, che arriva dall’America Latina, darà un forte impulso al lavoro sociale della chiesa verso gli ultimi. Mi è del tutto chiaro che questo avrà una funzione di concorrenza alla sinistra in America Latina, ma qui in Europa, in Italia, questo ci propone il terreno dell’impegno sociale come terreno di dialogo e azione comune. Anche qui abbiamo numerose differenze: noi lavoriamo per un pieno dispiegamento della lotta di classe, siamo per il mutualismo e non per la carità. Tuttavia qui vi è un terreno di confronto e di azione che dobbiamo sviluppare. Per non fare che un esempio a Messina abbiamo vinto le elezioni perché c’erano le parrocchie, che sono la Caritas, la cooperazione internazionale, sono tante cose. Del resto in America latina la teologia della liberazione c’entra qualcosa col cambiamento sociale che c’è stato in quel continente.
F) Costruzione del conflitto.
Dobbiamo stare dentro le lotte, e riuscire a crearne di nuove articolando il Piano del lavoro, su cui dobbiamo centrare il grosso del nostro impegno. Ovviamente in primo luogo dobbiamo stare dentro i conflitti che ci saranno. I movimenti stanno lavorando a una manifestazione a fine ottobre, penso che ci dobbiamo stare a prescindere dal fatto che tutte le singole virgole della piattaforma siano condivisibili o meno, dobbiamo stare dentro le lotte che si determinano, lavorare a metterle insieme.
Sul terreno del conflitto sociale dobbiamo fare un salto di qualità in particolare sulle lotte per la casa. Noi generalmente siamo nelle lotte sul lavoro – e dobbiamo starci di più e con maggior protagonismo – ma dobbiamo registrare che il tema della casa sta diventando sempre più scottante e determina un certo grado di conflitto in ogni città; proporrei di assumere per ogni federazione il tema del conflitto sulla casa come un punto da sviluppare. Dal blocco degli sfratti alle occupazioni, occorre sviluppare un nostro intervento: ci battiamo per il reddito sociale ma lo pratichiamo anche.
La sinistra
Finisco sulla sinistra. Dobbiamo costruire la sinistra, una sinistra autonoma dal centro sinistra, perché il centro sinistra non ha un progetto per uscire dalla crisi, è totalmente interno ai meccanismi che riproducono la crisi. Il fondamento della nostra collocazione politica non può e non deve essere geometrico (c’è il Pd lì, noi stiamo un po’ più qua, poi ci sono quegli altri..). Il fondamento della nostra collocazione politica deve essere nella società e riferito al problema fondamentale che determina il quadro: la crisi. Se il nodo di fondo è la crisi e la ragione di esistenza de comunisti oggi è l’uscita della crisi, il tema della costruzione della sinistra non può prescindere dalla collocazione di fronte alla crisi. Occorre unire una sinistra che sia in grado di porre il problema dell’uscita dalla crisi, cioè dalle politiche neoliberiste. Questo implica la piena autonomia e alterità al centro sinistra perché il centro sinistra è interno alle politiche neoliberiste: fare la sinistra del centro sinistra non serve a nulla, a noi interessa fare la sinistra.
Il punto è come unire questa sinistra, sapendo che le esperienze di unità dall’alto, pattizia, le abbiamo già provate e non funzionano. Un buon punto di partenza sono le esperienze sui territori. Nelle ultime tornate amministrative a Imperia, Ancona, Avellino abbiamo costruito un polo di sinistra assieme a Sel, e ci sono stati buoni risultati, a volte con due liste, a volte con una. A Pisa, Siena, Isernia, Roma, Messina, Catania abbiamo fatto poli di sinistra senza Sel. Sono buone esperienze. In qualche caso, a Messina addirittura abbiamo vinto, nella normalità siamo stati tra il 5 e il 10%. Dobbiamo operare per generalizzare questo sui territori. Occorre generalizzare non l’isolamento ma la costruzione di poli di sinistra sul territorio. Dovremmo provare a vedere – e più tardi sentiremo Ciccio Auletta, il nostro candidato sindaco a Pisa – se da queste esperienze che ci sono state sui territori, fosse possibile far partire una qualche forma di progetto più largo, nazionale. Quindi ripartiamo dai territori e cerchiamo di generalizzare le buone esperienze.
Sul piano nazionale, abbiamo detto no ai patti di vertice e abbiamo proposto di costruire un percorso di aggregazione democratico e partecipato, basato sul principio di una testa un voto. Non voglio riproporre in nessun modo una forma federativa perché l’abbiamo provata e non ha funzionato e la federazione della Sinistra si è scassata alla fine del tema di chi decideva. Per questo l’unica strada è quella democratica della piena partecipazione ed eguaglianza tra tutti coloro che vogliono partecipare al processo, così come ha proposto la Direzione Nazionale nella sua penultima riunione. Se c’è un conflitto nel gruppo dirigente deve decidere il livello più basso, e alla fine – come fa Izquierda Unida – con il referendum vincolante per tutti. La costruzione di uno spazio pubblico democratico, con delle regole condivise e pochi punti chiari è la nostra proposta. E’ difficile ma è la direzione giusta, dobbiamo lavorare per questo. Non siamo in grado noi tutti i soggetti interessati: non ne abbiamo l’autorevolezza. Confidiamo nel fatto che persone più autorevoli di noi possano essere le levatrici di questo processo. Noi lavoriamo quindi in tutti i modi a favorire un processo di aggregazione a sinistra del centro sinistra delle forze che vogliono uscire da questa situazione. Cosa si riesce a fare sui territori si fa sui territori, se si riesce a farlo sul livello nazionale si fa a livello nazionale.
Rilanciare e avere cura di Rifondazione Comunista
La cosa che per me è chiara è che la nostra proposta unitaria non sta al posto della ripresa e del rilancio di Rifondazione Comunista. Rifondazione deve funzionare in modo non settario – guai a noi se ci dividiamo anche qui tra chi vuole tenere Rifondazione e chi vuol fare la sinistra – ma deve funzionare sempre meglio. Come sappiamo per sposarsi bisogna essere almeno in due e la depressione e l’abbruttimento non servono a trovare moglie o marito.
Finisco con una riflessione. Penso che la ridefinizione del nostro progetto deve avere un’idea del rapporto con la storia del paese, con la storia d’Italia. Noi dobbiamo sapere dove ci collochiamo. Non vi sfugge che uno dei modi attraverso cui è stata distrutta una parte dei diritti e viene posta in discussione la Costituzione, è l’idea che il fascismo, tutto sommato, “erano brave persone”, che la prima repubblica era uno schifo indicibile. C’è una ricostruzione della storia del Paese dentro l’offensiva moderata. Non si tratta di un tema culturale ma direttamente politico come aveva sottolineato Orwell scrivendo: “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”.
Noi dobbiamo dotarci di una nostra idea della storia del Paese. La mia idea è che il benessere dell’Italia è nato con la partecipazione del popolo alla gestione della cosa pubblica. L’atto fondativo è stato la lotta partigiana, che non ha delegato la liberazione del Paese agli eserciti alleati. È proseguita nel dopoguerra grazie alla partecipazione popolare, con le lotte sindacali, politiche, comuniste, socialiste, grazie a una Costituzione che permetteva la permeabilità dello Stato al conflitto sociale, grazie al proporzionale. Il benessere non è stato concesso dalle classi dirigenti ma è il frutto di un processo di conflitto e di lotta: la scuola pubblica, la sanità e tutto il resto ce le siamo conquistate, non ce le ha regalate nessuno. La conquista di un relativo benessere in Italia è stata possibile grazie ad un forte intervento pubblico in economia, non certo grazie alle privatizzazioni. Questa situazione positiva che ha costruito l’Italia nel dopoguerra è stata smantellata nei termini che ho raccontato all’inizio della relazione con l’applicazione delle politiche neoliberiste, favorite dallo scioglimento del Partito comunista, dall’accettazione della concertazione da parte del sindacato, dal sistema politico bipolare, dall’entrata nell’Europa di Maastricht. È il ventennio della seconda repubblica che ha portato l’Italia in questa condizione disastrosa, non la storia del paese in generale e nemmeno la tanto deprecata prima repubblica. Quella che viviamo è quindi l’epilogo della seconda Repubblica e delle scelte fatte nella seconda repubblica contro le conquiste fatte dal movimento dei lavoratori e della sinistra. Questa crisi, per questo, chiede una risposta che non può avere le stesse medicine che sono state usate per determinarla.
Ed è per questo che noi rivendichiamo la piena sovranità del popolo sulle scelte di politica economica, il rispetto della natura e la redistribuzione del lavoro, del reddito e del potere.
Ecco, io penso che se vogliamo rilanciare il tema della trasformazione sociale dobbiamo avere anche una idea chiara sulla storia del paese, costruire un immaginario contrapposto a quello dominante, per proporre un sogno che abbia le radici ben piantate nella nostra realtà.
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