A SETTE PASSI DAL BUIO
di
Sara Palmieri
Sara Palmieri
Cap.1
Un cielo viscido e
lattiginoso incombeva sulla distesa di acquitrini delle risaie, che avevano lo
stesso colore grigio slavato e formavano quasi un tutt’uno.
L’aria umida e
fredda sembrava immobile nel rigore invernale e solo ogni tanto, a distanza
dalla lingua di strada che tagliava la pianura, si intravedeva la luce accesa
di qualche cascina, offuscata anch’essa dalla bruma che saliva dalla terra e
dall’acqua.
Le poche auto del
mattino procedevano lente, timorose, con gli occhi dell’autista incollati sulla
striscia bianca che divideva in due la carreggiata, con il terrore di vederla
scomparire e ritrovarsi ribaltati nell’acquitrino che fiancheggiava la strada.
La nebbia si
presentava ora a banchi ora rarefatta ora con sbuffi che apparivano
all’improvviso come infidi e dispettosi fantasmi.
D’estate il
paesaggio non cambiava granché: il cielo rimaneva latteo, il sole faticava a
mostrarsi, pallido e impotente, come prigioniero di quella lattugine.
L’aria calda e
soffocante si appiccicava addosso, provocando goccioline di sudore incessanti e
tremule.
Gli acquitrini
d’inverno, si erano colmati di terra ed il riso cresceva rassegnato, come ogni
anno.
Man mano che ci si
avvicinava alla città, si provava come una liberazione da quel paesaggio
asfittico e lunare.
Ma anche in città la
vita era come sedata.
Il mattino era reso
più vivace dal vocio dei ragazzi delle scuole, ma poi calava il silenzio.
La gente camminava
di fretta sotto i portici, avvolta da sciarpe e piumini, d’inverno, più leggera
d’estate, ma sempre appariva scostante, arroccata nel proprio benessere.
Le relazioni erano
silenziose, in ogni caso distaccate, attente a non invadere il campo altrui, ma
soprattutto attente che il proprio non venisse invaso.
In quei luoghi poco
ospitali, ma ricchi, anche se già in odore di spread, erano arrivate genti da
tutto il mondo, le più normali e le più strane: studenti iraniani, operai
magrebini, artigiani albanesi, prostitute nigeriane, trans brasiliani,
spacciatori tunisini, ambulanti senegalesi, badanti ucraine, domestiche rumene.
Persone diverse per
cultura ed estrazione, tradizioni e lingue, ma tutte percepivano quel nuovo
mondo come diffidente, ostile, interessato solo al denaro e al profitto.
Cap.2
Accadde di sera,
mentre Angelo Guagnini, in piccolo imprenditore agricolo locale, osservava
soddisfatto le camere delle risaie ormai rigonfie.
Sentì una presenza
alle sue spalle, qualcosa di sovraumano, fu un sibilo a farlo girare, mentre
cercava di capire – ma non fece in tempo – cosa fosse quella verga rigida e
sottile che quasi lo sovrastava e che si abbattè su di lui in un lampo.
Riuscì tuttavia ad
improvvisare una fuga che durò pochi passi e che lo fece barcollare e cadere
sul limite della prima camera.
Fili verdi di riso
gli coprirono pietosamente la piega della bocca trasformata in ghigno.
Non lo trovarono
subito dal momento che viveva solo, sua moglie lo aveva abbandonato qualche
anno prima, dopo aver scoperto delle cassette pedopornografiche.
Non aveva chiesto la
separazione, semplicemente era andata ad abitare in città con le due bambine e
lo teneva in pugno col ricatto.
Tutti sapevano che
Angelo soffriva di cuore.
Nessuno notò quei
due forellini neri nell’incavo del collo e neppure quelli alla base del tallone
e nessuno reclamò indagini approfondite.
L’ispettore capo
della polizia che comunque giunse sul posto si chiamava Annalisa Rumma,
laureata in criminologia, era la nipote prediletta di un onorevole campano ed
aveva fatto una brillante quanto fulminea carriera.
Quella mattina aveva
altro per la testa che occuparsi di un caso che le appariva chiaro.
Il suo amante, un
collega del commissariato, stava per tornare dalla moglie e dai tre bambini,
interrompendo una relazione che ormai gli risultava pesante e la sciando la
giovane ispettrice sgomenta ed incredula a leccarsi ferite che sembravano
inguaribili.
Qualche giorno dopo
Luigina Bianchi si alzò presto a causa di una ormai fisiologica insonnia e
stava per recarsi alla consueta messa delle 7,30.
Era donna timorata
di Dio, vedova, i figli abitavano altrove, la sua casa nel centro città era
linda come uno specchio grazie alla sua collaboratrice bulgara a cui stava
appresso, durante il disbrigo delle faccende domestiche, con lo zelo di un
segugio, capace com’era di scovare un granello di polvere nell’angolo più
recondito di quella casa.
Per la povera
Antoaneta non c’era momento di respiro, quella megera le fiatava sul collo
durante tutte le quattro ore di lavoro per darle alla fine sempre meno di ciò
che era stato pattuito, che comunque era poco.
Per un attimo
qualcuno pensò ad Antoaneta quando trovarono la Luigina lunga e stesa sul
pavimento, rigida e nera.
Questa volta erano
stati chiamati i vigili del fuoco, l’ambulanza, polizia e carabinieri.
Un infermiere del
118 si accorse dei due buchini sul collo di Luigina, all’altezza della nuca, ma
ne aveva altri, sulla pancia e sullo stomaco.
Nell’andirivieni di
uomini e mezzi, qualcuno notò delle tracce a zig-zag sul pavimento incerato da
Antoaneta la sera prima, e le orme delle scarpe della vecchia, che , dopo
essere stata morsa, era riuscita a compiere pochi passi verso il telefono.
Tra le mani
rattrappite teneva ancora stretto l’apparecchio.
Rino De caro, un
appuntato stolido che aveva la mania dei conti e che contava tutto quello che
durante il giorno gli passava davanti per dimenticarlo subito dopo, contò i
passi che Luigina aveva fatto per raggiungere la mensola del telefono e che si
stagliavano chiaramente sula pavimento: erano sette.
Si pensò ad una
vipera, ma bisognava capire come avesse fatto ad introdursi in quel fortino
circondato dal cemento, in pieno centro cittadino; si giunse alla conclusione
che ogni circostanza fortuita avrebbe potuto concorrere all’ingresso
dell’animale nell’appartamento di Luigina.
Le autorità
disposero l’autopsia, il medico legale decretò la “morte per morso di vipera”,
ma siccome c’era qualcosa di poco chiaro, fu chiesta la perizia di un
anatomopatologo.
L’anatomopatologo
Corrado Fusi era il figlio di un importante chirurgo di Bologna che gli aveva
imposto la professione.
Siccome Corrado non
era granché portato, né aveva voglia di studi così complessi e difficili, il
padre, il quale era convinto che tutto a questo mondo abbia un prezzo, gli
aveva comprato la laurea e trasferito il suo portafoglio di clienti, che era
composto da enti e strutture, soprattutto pubbliche, politicamente scorrette e
lottizzate.
Il giovane non
sapeva distinguere una macchia di sangue da una di ragù, ma aveva quell’aria
dottorale che convinceva tutti della sua professionalità e, soprattutto, godeva
di ampie e altolocate protezioni.
Confermò il responso
del medico legale di “morte per morso di vipera”.
Un mese dopo toccò a
Tamara Bregozzi, quarantenne d’assalto, con due figli da uomini diversi ed un
compagno in carica, gestrice di una bar in periferia, amante di moto e macchine
di grossa cilindrata, tiratardi inguaribile, negata per qualsiasi attività
domestica.
La maternità le dava
la nausea anche adesso che i figli erano grandi e vivevano con i rispettivi
padri.
L’attuale compagno
era un lavoratore eclettico, ma non era chiaro che tipo di lavoro svolgesse.
Senz’altro uno
remunerativo considerate le auto sportive o di lusso con cui girava e che
avevano attirato l’attenzione e l’interesse di Tamara.
I due vivevano comunque
ognuno a casa sua e in quella di Tamara regnava incontrastato il caos.
Ancora rintronata
dalla notte trascorsa in una discoteca della zona, stava rientrando in casa che
erano le due del pomeriggio.
Nel cortile assolato
non c’era nessuno.
La fontana, al
centro del cortile su cui si affacciavano gli appartamenti dagli altri
inquilini (si trattava di una casa di ringhiera ristrutturata), spargeva
schizzi d’acqua sul terreno attorni, rendendolo umido.
Anche lei udì quel
sibilo prima di girarsi e rimanere inorridita da quella bocca nera spalancata,
che, dopo più morsi, le lasciò il tempo di compiere qualche passo verso la
fontana.
Le impronte dei
sandali di cuoio rimasero sul terreno bagnato.
Un vicino, che verso
sera si affacciò sul cortile, vide il corpo riverso sui bordi della fontana col
viso e parte delle spalle completamente immerse nella vasca ed il resto fuori,
a penzoloni.
Più fori avevano
attraversato lo sgargiante vestito di cotone e si erano impressi su più parti
del corpo, dall’incavo dell’ascella, all’altezza del seno destro, fino al
coccige.
Il veleno iniettato
aveva agito paralizzando gli organi vitali, dando alla poveretta prima un vago
senso di vertigine e poi una sensazione più intensa di soffocamento.
Tamara assunse una
giallastra rigidità che si concentrava su quello sguardo terrorizzato e ormai
spalancato sul nulla.
Due casi accertati
fecero balzare agli onori delle cronache la “vipera killer”, che si aggirava in
città, aggredendo le vittime senza scampo.
Gli esperti – in
Italia ci sono sempre degli esperti che pontificano da comodi salotti
televisivi – avanzarono l’ipotesi sulle motivazioni che avevano spinto
l’animale a tanta aggressività e a dispensare consigli su come affrontarlo se
si fosse avuta la malagurata sorte di incrociarlo.
Si chiedevano anche
come la vipera avesse potuto compiere un tale balzo e colpire in parti del
corpo più difficili da raggiungere che i piedi o le gambe.
Le farmacie
cominciarono a vendere quantità esagerate di siero antivipera e in poco tempo
esaurirono le scorte.
Un cronista locale
ipotizzò che la vipera fosse lo strumento di un assassino, ma gli organi
competenti esclusero tali ipotesi, dal momento che le vittime erano tra loro
diverse, non avevano nulla in comune, conducevano vite ordinarie, non si conoscevano
tra loro ma , soprattutto, l’agricoltore era dato per morto d’infarto.
Cap.3
Nel casolare
disastrato tra gli acquitrini delle risaie si erano insediati e si
avvicendavano disperati di tutte le nazionalità che a volte riuscivano a
convivere pacificamente, mentre altre entravano in conflitto.
Allora le urla si
udivano fin nelle cascine più lontane e sfociavano in liti violente che
richiedevano l’intervento della polizia.
In quel frangente il
casolare veniva sgombrato, vecchi materassi e utensili bruciati o gettati in
discarica, ma, dopo qualche tempo, tutto tornava uguale, quegli spazi si
riempivano di nuovi inquilini e le autorità ricominciavano a fingere di non
sapere.
Gli occupanti erano
soprattutto uomini, clandestini che una legge barbara aveva bollato come tali,
ma che in realtà erano fuggiti da povertà, guerre, feroci dittature, profonde
ingiustizie sociali.
Ayébi Badou aveva
ventisei anni, veniva dal Benin, era cresciuto con i nonni in una capanna ai
margini della foresta, che era stato il suo parco giochi.
A stretto contatto
con animali feroci e non, Ayebi era a suo agio.
Agli uomini, e
ferfino alle donne, preferiva le bestie con cui era capace di entrare in una
metafisica sintonia.
Era stato un bambino
umbratile e solitario e lo era rimasto anche da adulto.
Conosceva la foresta
palmo a palmo, le tane e i rifugi degli animali, le piante e le loro proprietà,
camminava a piedi nudi tra gli sterpi, sapeva i segreti della caccia senza
amarla, viveva in osmosi con la natura, così come insegnava la religione vudù
praticata anche dall’etnia yoruba cui apparteneva.
Al giovane però, ad
un certo punto, la sua foresta non basto più.
Voleva vedere il
mondo, le città moderne dell’Europa di cui aveva sentito parlare e che molti
connazionali cercavano di raggiungere.
Con la curiosità dei
suoi anni voleva conoscere quella società moderna ed evoluta, che prometteva
ricchezze ed agi.
Partì senza salutare
nessuno, ma non da solo, con ppochi risparmi.
Risalì fin dove poté
il Niger in barche di fortuna, con le lunghe gambe da maratoneta attraversò le
pianure della savana, dormì raggomitolato nei ricoveri più diversi.
Di notte, mentre il
suo compagno dormiva, cercava di procurarsi e diprocurargli del cibo.
Alla fine giunse in
Marocco, dopo aver attraversato il deserto in compagnia di tuareg, che lo
avevano accolto nella loro tenda e gli avevano insegnato a mangiare e bere
indossando la tagelmust e qualche parola di tamasheq.
Sotto la volta
stellata del deserto, in compagnia di quei uomini austeri, si era sentito al
sicuro e pieno di speranza.
Aveva avvertito –
come in Benin – di essere parte dell’universo, così come significava il suo
nome, Ayébi.
Non aveva i soldi
per la traversata sulla carretta del mare, ma mostrò il suo compagno, che
funzionò come un lasciapassare.
Sbarcò su un’isola
italiana, fuggì da una specie di lager che chiamavano centro di accoglienza e
raggiunse la penisola.
Puntò a nord salendo
su un treno qualunque e, con un altro treno preso a caso, arrivò in Lomellina.
Per altre fortuite
circostanze finì nella cascina disastrata tra le risaie.
Nel frattempo aveva
cambiato abigliamento: dai suoi camicioni variopinti e leggeri era passato alle
tuniche color indaco dei tuareg e poi a jeans sdruciti, magliette già usate ed
a scarpe che gli stavano strette.
Fino all’arrivo in
Italia non aveva sofferto la fame più di tanto, malgrado tutto era sempre
riuscito a procurarsi del cibo, ma ora i crampi allo stomaco gli toglievano il
respiro e mangiare era diventato un assillo.
Cominciò a chiedere
lavoro, ma raramente ne trovava, imparò ad elemosinare, ma ne ricavava pochi
spiccioli.
Per gli yoruba la
dignità è un’ossessione e per questo ad Ayébi fare l’elemosina costava fatica,
ma vi era costretto.
Allora allungava la
mano guardando dritto negli occhi il suo possibile benefattore, cercando di
trasmettergli la sincerità e l’impellenza della richiesta.
Negli occhi della
gente cui si avvicinava leggeva ora disprezzo, ora sterile compassione.
Ma quelli che più lo
addoloravano erano gli sguardi no sguardi, che lo trapassavano con la loro
indifferenza, senza vederlo, come se non esistesse.
Dimagriva a vista
d’occhio e la sera tornava stremato in quel casolare, tra i disperati che non
lo aspettavano.
Solo il suo
compagno, Kodjo, il serpente, rimaneva in attesa, arrotolato nella tana che
Ayébi gli aveva scavato non visto.
Con gli occhietti
aguzzi sembrava chiedergli perché lo avesse portato lì, in quella terra lontana
ed infida, dove non sei nessuno se non possiedi, dove non c’è nulla di gratuito
o di condivisibile, e dove finanche la natura sembra respingerti.
Ayébi aveva scovato
Kodjo ancora cucciolo in una tana abbandonata, si erano guardati negli occhi ed
erano diventati amici.
Ayébi e Kodjo
avevano in comune la solitudine e da quel giorno, un lunedì, che diventò il
nome del serpente, erano divenuti inseparabili.
Una notte Ayébi si
ammalò, la febbre salì altissima, gli occhi si torcevano per le convulsioni
oppure si sbarravano allucinati.
Nei deliri che lo
colpirono gli passarono davanti gli ampi cieli dell’Africa, le nuvole che
corrono veloci, gli sembrò perfino di sentire il soffio fresco dell’harmattan.
Vide i suoi nonni
che lo aspettavano e gli amici animali, che cominciarono ad alternarsi al volto
di quella vecchia che all’uscita dalla chiesa, al suo tendere la mano, aveva
risposto con sdegno di tornarsene al suo paese.
Era anziana – aveva pensato
Ayébi – usciva da un tempio, di certo lo avrebbe aiutato.
I vecchi yoruba sono
saggi ed amorevoli, protettivi verso i più giovani.
Il viso della
vecchia si alternò con quello dell’agricoltore che lo aveva fatto sgobbare
nella risaia e che alla fine gli aveva rifiutato la paga, mentre ad Ayébi,
sbranato dalle zanzare, non era rimasto che tornare sgomento al casorale.
Nel vaneggiamento
gli comparve infine, ingigantito e dilatato, il viso della ragazza del bar a
cui aveva chiesto da mangiare, ma lo aveva cacciato minacciando di chiamare la
polizia.
Ayébi quella notte
morì tra i rimpianti, la rabbia, i rimorsi, la nostalgia.
Kodjo uscì elegante
dalla sua tana, scivolò tra i corpi dei disperati che dormivano e si diresse
verso il primo acquitrino.
Ora un mamba nero,
che concede alle sue vittime solo sette passi prima del buio della morte,
provvisto di un veleno per il quale in Europa non è facile reperire un
antidoto, si aggira furente e insospettato tra le nebbie e le acque stagnanti
della Lomellina.
Nessun commento:
Posta un commento