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lunedì 3 marzo 2014

IL KEYNESISNO NON PUO' CONDURCI FUORI DALLA CRISI di Luca Lombardi




IL KEYNESISNO NON PUO' CONDURCI FUORI DALLA CRISI

di Luca Lombardi
( Tratto da FalceMartello )



Dal 2007 l’economia mondiale è impantanata in una profonda crisi. La borghesia ha tentato di tutto per uscirne: dal “quantitative easing” (QE), all’azzeramento dei tassi di interesse alla socializzazione delle perdite bancarie, ma tutto inutilmente. Perché una versione moderna del keynesismo non può funzionare?

Una famosa citazione di Keynes recita: “se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata... di scavar fuori di nuovo i biglietti..., non dovrebbe più esistere disoccupazione e il reddito reale della popolazione e la sua ricchezza di capitale… sarebbero probabilmente diventati molto maggiori di quanto siano ora”.

Le politiche seguite prima della crisi, basate sul mantra della globalizzazione, si sono rivelate un disastro. Questo è chiaro a tutti e inizia a emergere non solo nelle riviste specializzate, ma anche nei media più diffusi. Ciò che però non si discute in modo chiaro è quale alternativa abbia la borghesia. Non è un caso: questa alternativa non esiste.

Dopo anni di ottimismo panglossiano sul destino del capitalismo, la crisi ha bruscamente messo fine a qualsiasi illusione di uno sviluppo ininterrotto dell’economia di mercato. Tutto ciò che veniva presentato come elemento della storia di successo della globalizzazione si è trasformato nel suo opposto e si è dimostrato come un fattore che ha scatenato la crisi. Ciò vale soprattutto per lo sviluppo selvaggio della finanza che ha preparato il crollo. In questo articolo ci concentriamo su un particolare aspetto della crisi politica e ideologica della classe capitalista: il futile tentativo di applicare il keynesismo alle concrete condizioni della crisi attuale.

Che il capitalismo possa trovarsi di fronte una profonda crisi è qualcosa che i marxisti non hanno più bisogno di spiegare. Le moderne teorie economiche ortodosse (monetarismo, teoria delle aspettative razionali, ipotesi dei mercati efficienti e così via) si basano sull’idea che il laissez-faire e la deregolamentazione sono tutto ciò di cui l’economia mondiale ha bisogno per svilupparsi. Lasciate che le grandi multinazionali governino il mondo senza ostacoli da parte dello stato, i mercati si aggiusteranno e tutto andrà per il meglio. A questo proposito, come osservò Keynes, il filosofo britannico Jeremy Bentham (1748-1832) coniò l’espressione “laissez-nous faire” (lasciate fare a noi), che in effetti suona ben diversamente e chiaramente che il solo laissez-faire.

A quel tempo, la classe capitalista stava prendendo il controllo dell’economia e non voleva che il vecchio stato assolutista le intralciasse la strada. L’idea liberista, un’arma potente contro le vecchie monarchie, era già un’inutile reliquia all’epoca di Keynes. Da allora, più e più volte, il laissez-faire è crollato assieme all’economia mondiale. Qualsiasi grave crisi del capitalismo ha costretto gli strateghi borghesi a ripensare i dogmi che usano per spiegare la realtà. Nelle epoche di crescita del capitalismo, non importa come ottenuta, domina l’ottimismo senza cervello: le cose stanno funzionando, non ci intralciate. Quando il capitalismo entra in crisi, gli strateghi borghesi sono costretti a cercare delle alternative e questo è il senso del keynesismo. La domanda da porsi oggi è: può esserci una nuova forma di keynesismo in grado di offrire alla borghesia qualche tipo di politica alternativa in grado di far funzionare il sistema?

Il keynesismo originale

Keynes è stato uno dei prodotti più tipici della borghesia inglese. Nato a Cambridge, figlio di un professore di Cambridge, educato a Eton, ha lavorato in India per conto dell’Impero Britannico e poi come funzionario del Tesoro. Come teorico, il suo contributo più importante è stato quello di distruggere i vecchi dogmi del laissez-faire dopo la prima guerra mondiale e durante la depressione degli anni 30. Non è mai stato molto interessato a sviluppare una spiegazione coerente di come funziona il capitalismo, anche se ha provato, soprattutto nella Teoria Generale del 1936. Il problema per lui è sempre stato pratico: costringere la classe capitalista a capire la realtà della grande crisi in cui il mondo era immerso. Nelle pagine di apertura della Teoria Generale, Keynes chiarisce questo obiettivo: convincere gli economisti ortodossi a riesaminare la teoria economica e cambiare direzione.

Già molti anni prima, Keynes aveva tratto la conclusione che il pensiero economico ortodosso aveva fallito: “gli economisti si danno un obiettivo troppo facile e troppo inutile se nei momenti tempestosi possono solo dirci che quando la tempesta è passata l’oceano sarà di nuovo piatto”(1). Se non sono in grado di impostare un nuovo percorso, sono inutili come consulenti della borghesia e vanno emarginati, come è avvenuto negli anni 20 e 30.

Keynes riuscì nei suoi sforzi di far cambiare corso alla borghesia poiché questa non aveva altra scelta che seguire i sui consigli respingendo le vecchie idee pre-crisi. Non ci occuperemo qui del se e quanto il keynesismo di per sé sia stato utile a superare la crisi del ‘29. Ci limiteremo a ricordare che il rimescolamento ideologico è stato profondo e duraturo perché Keynes ha interpretato una nuova fase dello sviluppo capitalistico.

Il capitalismo si è sempre basato sulla regolamentazione oltre che su meccanismi automatici di funzionamento. Ma il capitalismo monopolistico ha fatto sì che l’intervento nell’economia raggiungesse un nuovo stadio. Il significato delle proposte di Keynes è questo: il capitalismo è intrinsecamente instabile e i governi devono agire in modo permanente per stabilizzarlo. L’idea della necessità di un capitalismo regolato deriva dalla concentrazione e centralizzazione del capitale. Nell’epoca dell’imperialismo, l’economia mondiale è dominata da una manciata di multinazionali giganti che pianificano le loro strategie a lungo termine e hanno un ruolo determinante su tutto il mercato mondiale. Questo non significa che vengono meno le leggi di movimento del capitalismo, ma si applicano in modo diverso. Il capitalismo monopolistico aveva determinato nuove politiche economiche già al tempo della prima guerra mondiale, quando i governi furono costretti alla mobilitazione totale di tutte le risorse economiche e sociali raggiungendo un livello di pianificazione economica che nei periodi precedenti sarebbe stato considerato incompatibile con l’economia di mercato.

Questo cambiamento irreversibile del capitalismo significa che diventa del tutto insensato criticare l’intervento pubblico, come se il capitalismo fosse quello dei tempi di Adam Smith. La socializzazione delle forze produttive è avanzata immensamente, un capitalismo senza regole non è semplicemente più possibile. I vecchi meccanismi automatici, come il gold standard, non funzionavano più già nel ‘29. In un modo o nell’altro, lo stato doveva prendere l’iniziativa. Questo è il cuore del keynesismo.

Le singole ricette pratiche che la teoria keynesiana propone ai governi (riduzione dei tassi di interesse, aumento della spesa pubblica e così via) in sé aiutavano e aiutano relativamente. Il vero punto del keynesismo è fornire un approccio per superare la contraddizione tra gli interessi del singolo capitalista e la classe capitalista nel suo insieme, per salvare il sistema capitalista dalle proprie contraddizioni. Accettare l’intervento dello stato, spiegava Keynes, non era la fine della borghesia, al contrario, era l’unica via praticabile per salvare il capitalismo.

Indubbiamente, questa nuova situazione doveva condurre a un importante rimpasto inter-capitalistico. Nel capitolo finale della Teoria Generale, le famose “Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre”, Keynes propone opinioni abbastanza radicali. Inizia affermando: “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a prevedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi” (ed it. p. 566). Keynes sosteneva che il capitalismo aveva fatto passi avanti su questi problemi, ma parziali e che, per sopravvivere, al capitalismo era necessaria “l’eutanasia del rentier”, ossia la riduzione del potere della rendita finanziaria attraverso tasse più alte, tassi di interesse più bassi e così via. In secondo luogo, sosteneva che gli investimenti dovevano essere socializzati nella misura in cui ciò fosse necessario per la piena occupazione. Ciò però non implicava un’economia statale:

“Non è importante che lo Stato si assuma la proprietà dei mezzi di produzione. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo delle risorse destinate ad accrescere i mezzi di produzione e il tasso di base di remunerazione per coloro che le posseggono, avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre, le necessarie misure di socializzazione possono essere applicate gradualmente e senza provocare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società” (cit., p. 572)


Queste proposte sembrano molto radicali, ma ciò dipende dal fatto che il capitalismo non aveva alternative: la socializzazione degli investimenti da parte dello stato è solo un riflesso della tendenza storica verso la socializzazione delle forze produttive che si sviluppa con il capitalismo. Pertanto, queste idee sono compatibili con un’ampia varietà di forme politiche. Sia il fascismo che la socialdemocrazia classica promuovevano un vasto intervento dello stato nell’economia e si proponevano la piena occupazione, almeno nel loro programma. Pertanto il keynesismo può essere la teoria economica alla base di agende politiche molto diverse all’interno dei confini del sistema capitalista.

I meriti scientifici di Keynes

Partendo dalle critiche agli elementi deboli della scuola classica (principalmente Smith e Ricardo), Marx condusse quel paradigma scientifico alla sua logica conclusione, mostrando che l’emergere della lotta di classe nel capitalismo è inevitabile. Ciò significava che quella teoria non era più utile per difendere il dominio borghese. Pertanto, dopo la Comune di Parigi, fu sostituita da un altro paradigma, la cosiddetta idea ottocentesca della “rivoluzione marginalista”. La caratteristica teorica più importante di questo nuovo approccio è che dichiarava di basarsi sui comportamenti individuali. Si tratta di una teoria micro-economica.

Secondo questa teoria, se qualcosa non può essere giustificata in base al comportamento individuale, non esiste. Le dinamiche sociali ed economiche devono essere spiegate risalendo alle azioni degli individui (“individualismo metodologico”). Si tratta di un approccio sorprendentemente futile poiché gli obiettivi dei singoli sono completamente rovesciati quando messi insieme su scala sociale. Ad esempio, per il singolo capitalista il taglio dei salari per aumentare i profitti è una buona idea, ma quando tutti i capitalisti tagliano i salari crolla il mercato e i profitti scendono. Allo stesso modo, un lavoratore può fare gli straordinari per aumentare il suo reddito, ma se tutti i lavoratori fanno gli straordinari, la disoccupazione sale e i salari scendono. Ancora più chiaramente, la dinamica tecnologica del capitalismo si basa su questo aspetto contraddittorio. Il singolo capitalista investe per ridurre i costi e guadagnare quote di mercato e profitti, ma quando l’innovazione si generalizza, i profitti iniziano a scendere di nuovo. Non capendo la differenza tra la logica individuale e l’esito sociale di un’azione, la moderna economia borghese è inutile per spiegare i meccanismi del capitalismo, né è utilizzata a tal fine.

Il merito di Keynes è stato di partire da questa contraddizione e reintrodurre, nella teoria economica, un’analisi complessiva della società. È un punto di partenza fondamentale, soprattutto per capire le crisi. Serve a capire che a lungo andare è controproducente ridurre i salari per aumentare i profitti, come potrebbe valere prendendo in considerazione singole aziende. Questo è vero anche quando si analizzano gli investimenti. Il singolo capitalista di norma deve risparmiare prima di investire, ma per l’economia nel suo complesso i risparmi vengono creati dagli investimenti. Per inciso, ciò dimostra quanto le cosiddette “misure di austerità” dimostrino confusione tra livello micro e macro dell’analisi. In ogni caso, Keynes ha sottolineato la dimensione sociale dei fenomeni economici: la disoccupazione, gli investimenti, i consumi. Da questa analisi aggregata ha tratto una spiegazione teorica della crisi. Naturalmente, misure concrete per combattere la crisi sono state prese ben prima di Keynes, che ha semplicemente fornito un supporto teorico a ciò che molti governi stavano già facendo, anche se molti rifiutavano di intervenire sottoscrivendo la “visione del Tesoro”, ossia l’idea che la politica fiscale non ha alcun effetto sulla complessiva attività economica, un’idea sostenuta in particolare dal Tesoro britannico.

Keynes fu anche il responsabile dell’introduzione, nella teoria economica, di una serie di concetti soggettivi (“spiriti animali”, lo “stato delle aspettative”, il meccanismo del “concorso di bellezza” e così via). Non a caso. La concentrazione del capitale, la fusione del capitale industriale e bancario, la separazione dei capitalisti da qualsiasi ruolo diretto nella produzione e il ruolo crescente dello stato (cioè le caratteristiche di base del capitale finanziario) determinavano anche la soggettivizzazione completa della teoria economica . Questi concetti venivano utilizzati per valutare il ciclo degli investimenti che è il motore della dinamica capitalista.

La decisione di investire dipende dalla prospettiva del profitto. I profitti futuri per loro stessa natura sono sempre stati incerti. Ma nel 20° secolo la concentrazione del capitale era cresciuta a tal punto che un singolo investitore poteva svolgere un ruolo importante nel mercato: i grandi monopoli hanno un grande potere di mercato. Inoltre, la differenziazione tra puri rentier e manager si rifletteva anche nella teoria economica con il crescente peso dato agli aspetti psicologici piuttosto che a quelli oggettivi, strutturali.

In ultima analisi, il capitalismo si sviluppa se i capitalisti investono, ma la logica del capitalismo, con la concorrenza tra capitalisti che spinge verso il basso i salari per aumentare i profitti, crea una contraddizione fondamentale, la sovrapproduzione, perché la classe operaia non può permettersi di comprare ciò che il capitalismo produce. La produzione, e quindi anche gli investimenti, si blocca perché le merci restano invendute determinando perdite. Quando le cose vanno male, lo stato deve investire direttamente in modo che l’economia possa riprendersi e i capitalisti privati tornino a galla. Questo è il succo del keynesismo. Gli strumenti specifici sono un aspetto minore rispetto al ruolo chiave: salvare la borghesia dalle contraddizioni del proprio sistema.

È anche interessante notare che la concentrazione del capitale e la monopolizzazione dell’economia produssero anche un dibattito teorico sulla pianificazione sociale dato che le aziende giganti richiedono una pianificazione per sopravvivere e l’istinto del capitalista non è più sufficiente a guidarle (2).

Da tutte queste teorie, Keynesestrasse una serie di specifici strumenti. Come abbiamo detto, sarebbe un errore ridurre il keynesismo a un insieme specifico di misure economiche. Tuttavia, esso è tradizionalmente legato a certe politiche che possiamo dividere in quattro aree principali: politica fiscale, politica monetaria, politica industriale e regolamentazione dei mercati, in specie finanziari. Cercheremo dimostrare perché nessuna di queste può più funzionare.

I quattro pilastri del keynesismo

La prima e più rilevante politica legata al keynesismo è la politica fiscale, utilizzata per due obiettivi principali: distribuzione del reddito e spesa pubblica. In poche parole, l’idea è di tassare i ricchi per avere una più equa distribuzione del reddito e così raccogliere risorse per costruire lo stato sociale. Poiché i lavoratori spendono più o meno tutto il loro reddito, tassare i ricchi significa una spinta ai consumi. Per questo, negli Stati Uniti, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito aveva raggiunto il 91% nel 1940 e aliquote simili c’erano in Europa. A quel tempo, la politica fiscale era davvero un mezzo di ridistribuzione del reddito verso i ceti più poveri. Oggi non è più così. Dagli anni 80, le politiche fiscali sono cambiate in modo tale che le tasse dei lavoratori vadano alle aziende attraverso un certo numero di metodi legali e semi-legali, dimostrando che, come ha sottolineato Marx, la lotta fiscale è il più antico tipo di lotta di classe. Questa inversione completa nella politica fiscale è profondamente legata ai bisogni vitali del capitalismo. Non è solo una questione di bassa redditività, ma del modo in cui i governi cercano di sfuggirvi da decenni: con la crescita del debito. Viviamo nell’epoca del debito e c’è poco spazio per una forte politica fiscale attiva, come abbiamo spiegato altre volte3. Si veda questo grafico:



Il debito totale degli Usa in percentuale sul Pil


È chiaro che l’aumento del debito è qualcosa che precede di molto la crisi. È connesso al declino storico del capitalismo. È ciò che rende la politica fiscale meno efficace, non una fissazione ideologica dei politici “neoliberisti”. Va da sé, poi, che la crisi ha peggiorato enormemente la situazione, poiché i governi sono stati costretti a usare centinaia di miliardi per salvare i grandi gruppi bancari:

“Dall’inizio della crisi finanziaria, i debiti pubblici dei paesi industriali sono drammaticamente aumentati. E sono destinati ad aumentare ancora per il prossimo futuro ( ... ). Le nostre proiezioni del rapporto del debito pubblico sul Pil ci portano a concludere che il percorso perseguito dalle autorità fiscali in molti paesi industriali è insostenibile. Sono necessarie misure drastiche per controllare la rapida crescita delle passività attuali e future dei governi e ridurne le conseguenze negative per la crescita a lungo termine e per la stabilità monetaria.” (4)

Nel contesto di questi squilibri strutturali, una politica fiscale espansiva serve a ritardare il problema, ma nel lungo periodo lo peggiora. Nei decenni prima della crisi, lasciando da parte tutti i discorsi ideologici sulla necessità per lo stato di ritirarsi dall’economia, il suo peso complessivo nei paesi sviluppati non è cambiato molto.

La reazione della destra contro l’intervento pubblico, tuttavia, coglieva una necessità da un punto di vista borghese. Nel complesso, lo stato non produce nulla, quindi è un onere per l’economia. Il problema è che più il capitalismo si sviluppa meno è in grado di operare senza l’intervento statale. Il processo di concentrazione del capitale e la finanziarizzazione dell’economia si riflettono in questo ruolo permanente dello stato. Dopo un quarto di secolo di cosiddetta globalizzazione di libero mercato, la spesa pubblica e il debito pubblico non si sono ridotti. L’ idea che la deregolamentazione alla Thatcher - Reagan sospingesse indietro il ruolo dello stato è un parto della fantasia borghese, come mostra questo grafico (5):



L'indebitamento dei governi e il bilancio fiscale primario nelle economie industriali sviluppate (come percentuale del Pil)




È chiaro che le privatizzazioni, la deregulation, il monetarismo e così via erano in realtà un tentativo di limitare il calo della redditività a scapito della classe operaia. Il debito pubblico e il debito nel suo complesso non sono mai stati seriamente tagliati. Questo fatto è un chiaro indicatore della natura sempre più parassitaria del capitalismo che i fanatici del laissez-faire non possono invertire. Un uomo di 70 anni può vestirsi come un adolescente e andare in discoteca atteggiandosi da ragazzino, ma non ingannerà nessuno.

Il peso complessivo della spesa pubblica nell’economia non è stato ridotto in modo significativo, tuttavia il suo ruolo è cambiato notevolmente. I capitalisti volevano che fossero i lavoratori a pagare, e tutta la politica economica è stata costruita intorno a questo asse. Ciò che è cambiato è dunque la direzione dell’intervento statale: le risorse pubbliche sono utilizzate sempre più per aumentare la redditività, non per fornire servizi sociali. Questo è vero per tutte le politiche statali, a partire dal sistema fiscale.

Ora gli economisti keynesiani lamentano che questa è una follia, che è iniquo e che ha contribuito al disastro. Certo, non è giusto usare le tasse dei lavoratori per aiutare le grandi aziende, certo, è una follia tagliare i salari direttamente o indirettamente in una situazione di eccesso di capacità produttiva, ma c’è un metodo in questa follia. Per garantire un futuro al capitalismo i governi hanno dovuto aumentare il tasso di profitto con ogni mezzo possibile. È inutile, come fa la sinistra riformista, lamentarsi delle conseguenze negative di questa necessità vitale della borghesia, se non si è pronti a combattere il capitalismo nel suo complesso.

Come abbiamo visto, lo stato non è scomparso dall’economia, anche nel periodo dell’euforia del “libero mercato”, ma la crisi ha comportato un enorme aumento nel suo intervento. Per esempio negli Stati Uniti:

“Il saldo di bilancio federale come percentuale del PIL è crollato da un surplus che aveva raggiunto il 3% nel 2000 a un deficit del 3,6% nel 2003, un aumento incredibile dell’indebitamento del 6,6 per cento del PIL - circa 700 miliardi di dollari - in soli tre anni, un enorme ulteriore sussidio alla domanda aggregata. Nello stesso intervallo di tempo, le autorità economiche statunitensi hanno varato un’importante svalutazione del dollaro, il cui cambio effettivo reale è diminuito dell’8 per cento (anche se la caduta della valuta americana contro i suoi principali partner commerciali asiatici è stata più limitata). Mettendo tutto insieme, è stato lo stimolo alla crescita economica più forte nella storia degli Stati Uniti esclusi i periodi di guerra.”6

Ma tutte queste misure hanno avuto successo? Se per successo s’intende evitare il crollo immediato del capitalismo la risposta è sì. Tuttavia, la situazione è tutt’altro che stabile e nuove contraddizioni si sono accumulate al centro del sistema. Lo stato, le imprese, le banche e le famiglie sono sommersi dai debiti e utilizzare la politica fiscale per rinviare i problemi è molto pericoloso.

Politica monetaria e l’inflazione

Questa esplosione del debito ha colpito anche la politica monetaria. Nello schema keynesiano, la politica monetaria ha due obiettivi principali: promuovere gli investimenti e ridurre i salari. Il primo obiettivo è evidente: a parità di altre condizioni più basso è il tasso di interesse maggiori gli investimenti. Il problema è che nessuno è interessato a investire quando c’è eccesso di capacità, e il denaro a buon mercato può produrre un problema ancora più grande di sovraccapacità, come il Giappone ha imparato a sue spese.

Dopo 20 anni di politica di tassi zero, il Giappone è tornato a una crescita elevata? Niente affatto, come abbiamo spiegato molte volte7. Il nuovo governatore della Banca del Giappone Kuroda, ha annunciato un pacchetto di stimolo senza precedenti con l’acquisto di titoli di stato per più di 500 miliardi di dollari all’anno. Questo fornirà senza dubbio alcuni mesi di sollievo, ma poi cosa succederà? Negli ultimi 20 anni hanno provato tutti i tipi di politica di stimolo, ma inutilmente. Tassi a zero, quantitative easing, una ventina di pacchetti di stimolo, la svalutazione, niente! Dopo tutti questi anni, il debito pubblico in Giappone è oggi il più alto del mondo (oltre il 250% del PIL). Questo significa che già oggi il 20-25% della spesa pubblica va a pagare il debito. Sarebbe sufficiente che i tassi salissero al 2-3% perchè l’intero budget statale servisse per gli interessi sul debito. In altre parole, i tassi di interesse non sono più liberi di salire.

Ciò che ieri era vero per il Giappone oggi è vero più o meno ovunque. Tutte le banche centrali hanno ridotto i tassi di interesse ai minimi storici e hanno comprato montagne di debito pubblico. Prendiamo gli Stati Uniti: la Fed compra più di 500 miliardi di dollari di buoni del Tesoro l’anno e già ne possiede 1.860 miliardi, un sesto del debito pubblico degli Stati Uniti per giunta in crescita. Questo significa che la Fed sarebbe tra i dieci più grandi paesi del mondo in termini di PIL se fosse una nazione.

Le cose vanno così male che le banche centrali stanno giungendo a proposte impensabili: fissare tassi di interesse negativi. Ad esempio, la Bank of England potrebbe far pagare le banche per lasciare soldi presso di lei. Inutile dire che “l’introduzione nel Regno Unito di un tasso di interesse negativo sarebbe un significativo ulteriore passo e senza molti precedenti”8. In Danimarca questa strana idea è già un fatto e anche la BCE sta pensando di caricare un interesse alle banche che mantengono presso di lei denaro oltre la riserva minima (9). La situazione è grave perché il “rapporto tra servizio del debito e reddito è ora al massimo storico del 13,6%. E questo con i più bassi tassi d’interesse in 50 anni”(10). La situazione, per molti versi, è peggiore che nel 1930:

“Il confronto con il 1929 è allarmante. Nel 1929, le famiglie negli Stati Uniti avevano accumulato poco debito. Il debito commerciale in relazione al profitto era circa la metà di oggi. E naturalmente non c’era nessun debito estero – gli Stati Uniti vantavano un credito netto verso il mondo nel 1929” (11)

La crescita senza fine del debito fa sì che le banche centrali non siano più libere di fissare i tassi di interesse. Al contrario, sono sempre più spinte in un angolo e se cercassero di uscirne alzando i tassi d’interesse, crollerebbe tutto come un castello di carte. Addio politica dei tassi!

Le banche centrali ora hanno così paura delle proprie politiche che stanno cercando di aggrapparsi a qualcosa di davvero solido: l’oro. Nel 2012 hanno comprato più oro dal 1964 e ora possiedono circa il 19 per cento di tutto il metallo mai estratto (12).

Le politiche fiscali e monetarie keynesiane hanno portato negli anni 70 a disastrosi effetti collaterali sotto forma di inflazione. La forte spesa per i servizi pubblici, le infrastrutture e le spese militari, in nome della “creazione di domanda”, si rivelò una politica inflazionistica, venne speso denaro che non corrispondeva a vero valore (e nel caso di produzione di armi, senza creare alcun corrispondente aumento del valore). I nodi vennero al pettine con la crisi petrolifera del 1973-74. Esplosero fenomeni inediti di stagflazione: recessione economica assieme ad alta inflazione, una situazione che i keynesiani avevano in precedenza negato potesse accadere, in quanto la mancanza di domanda in una fase di recessione dovrebbe ridurre i prezzi.

Per la classe operaia, un’inflazione così alta significa un forte taglio dei salari. Nonostante le molte dure lotte da parte dei sindacati per agganciare i salari ai prezzi, le retribuzioni non riuscivano a tenere il passo con l’inflazione.Per i capitalisti, l’inflazione aveva creato incertezza e instabilità economiche e politiche. Da quila svolta anti-inflazionistica con le politiche monetariste e “del lato dell’offerta” sotto forma di thatcherismo e reaganismo.Tuttavia, per far funzionare tali politiche, i capitalisti dovevano schiacciare isindacatieabbassare i salaria favore dei profitti.

Peraltro, il trucco dell’inflazione per abbassare i salari non era nuovo ed era già noto almovimento operaio.Possiamoleggerenella Piattaforma dell’Internazionale comunista del 1919:

“Le lotte degli operai per l’aumento dei salari non comportano - anche in caso di successo - lo sperato miglioramento delle condizioni di vita, giacché l’immediato aumento del costo dei beni di consumo rende illusorio ogni successo.” (13)

La depressione del ‘29 eliminò il problema dell’inflazione come minaccia immediata ma la seconda guerra mondiale mutò nuovamente le cose e Trotskij, nel Programma di transizione, spiegò come lottare seriamente contro l’inflazione:

“Né l’inflazione monetaria né la stabilizzazione possono servire da parola d’ordine per il proletariato; sono le due estremità dello stesso bastone. Contro il carovita…si può lottare solo con la parola d’ordine della scala mobile dei salari. I contratti collettivi devono assicurare l’aumento automatico dei salari in correlazione agli aumenti dei prezzi degli articoli di consumo…I salari con un minimo rigorosamente garantito, dovranno seguire il movimento dei prezzi. Nessun altro programma può essere accettato per l’attuale periodo di catastrofi.” (14)

In questa epoca di disoccupazione strutturalmenteelevata edeccesso di capacità, moltikeynesiani non considerano ancora pericolosa l’inflazione, ma date le grandi quantità di denaro pompato nel sistema sotto forma di quantitative easing, la minaccia di inflazione rimane sempre latente. C’è però da dire che quanto più il capitale finanziario domina l’economia mondiale, tanto meno appetibile è l’inflazione per la classe dominante, poiché il capitale finanziario deriva il suo profitto dal credito e dalle attività finanziarie che sono negativamente colpiti dall’inflazione.

Politica industriale


Ci vuole una politica industriale! Questo è il mantra di ogni politico “di sinistra” dall’inizio della crisi. Nel periodo di massimo splendore del keynesismo lo stato controllava direttamente una larga fetta dell’industria e dei servizi di base come i trasporti e l’energia, ma anche dell’industria siderurgica e automobilistica. Dovremmo innanzitutto chiederci perché non è più così.

Come ha detto Keynes:

“La più importante Agenda dello stato si riferisce non a quelle attività che i privati ​​sono già in grado di portare avanti, ma a quelle che non rientrano nella sfera dell’individuo, a quelle decisioni che nessuno prende se non le prende lo stato. È importante per il governo non fare le cose che i singoli stanno già facendo, per farle un po’ meglio o un po’ peggio ma fare quelle cose che al momento non sono fatte da nessuno” (15)

Quando Keynes propose di socializzare parzialmente gli investimenti stava descrivendo una tendenza storica che il marxismo ha spiegato molto prima di lui: lo sviluppo capitalistico implica una socializzazione crescente delle forze produttive. Tuttavia, anche se necessario, il coinvolgimento diretto dello stato nella produzione crea un problema per il capitalismo. Se gestisce imprese sane, sottrae profitti ai capitalisti privati​​, se gestisce imprese in perdita, deve usare le tasse per farle sopravvivere. In entrambi i casi ai capitalisti non va bene. Questa è la contraddizione fondamentale del keynesismo come politica industriale. Nel periodo d’oro dopo la guerra, ciò non era molto importante per diverse ragioni. I profitti erano alti e i capitalisti vedevano nello stato una leva necessaria per ricostruire le loro industrie. Inoltre, lo stato era utile per gestire settori che non erano redditizi di per sé, ma producevano profitti per gli altri settori. In quel momento la borghesia poteva accettare l’ovvio argomento teorico che le industrie che sono monopoli naturali dovrebbero essere di proprietà dello stato, non essendovi possibile la concorrenza. Questo intervento diretto a lungo termine da parte dello stato ha creato una vera e propria pianificazione capitalista, con agenzie statali, piani pluriennali e così via. Era l’epoca della “planification indicative”, come veniva chiamata in Francia. Nei paesi in via di sviluppo la pianificazione era ancora più importante poiché si trattava di costruire l’industria da zero (16).

Poi arrivò la crisi degli anni 70, il crollo di Bretton Woods, lo shock petrolifero e la lotta di classe. I profitti crollarono, in tutto il mondo lo stato fu costretto a salvare aziende private per motivi contingenti, senza alcun piano prestabilito, e le finanze pubbliche peggiorarono anno dopo anno. Negli anni 80, anche se l’economia si riprese, il saggio del profitto non tornò al periodo d’oro degli anni 50 e 60. I capitalisti si misero alla disperata ricerca di modi per fare soldi facili. Questo spiega perché lo stato fu costretto a vendere le sue migliori aziende ai capitalisti privati​​. Svendere tutto era il consiglio che nessun governo poteva rifiutare e venne privatizzato praticamente tutto. Interi settori economici furono smantellati e ceduti senza che le finanze pubbliche ne traessero seri benefici.

Il processo di privatizzazione non è dunque il risultato di una sorta di odio ideologico per le imprese di proprietà statale. La questione è molto semplice: la privatizzazione è una componente fondamentale per permettere la ripresa del saggio generale di profitto, come lo sono la redistribuzione del reddito a favore dei ricchi e la distruzione dello stato sociale. I capitalisti non possono più permettere che un settore redditizio sia in mani pubbliche, hanno bisogno di occupare ogni spazio economico possibile per sopravvivere, non possono permettersi alti salari e buoni servizi sociali. In sostanza, hanno bisogno di fare profitti letteralmente con tutto, dall’acqua alla sanità, dalle scuole alle autostrade. Ecco perché oggi una politica industriale organica nei paesi occidentali è impensabile.

Anche quando lo stato è costretto a salvare le aziende private, non si tratta di un vero intervento, se si esclude la semplice elargizione di denaro. In passato, dopo aver nazionalizzato una banca per esempio, lo stato avrebbe inviato i suoi funzionari per impostare una nuova strategia, il consiglio di amministrazione sarebbe stato cacciato e così via. Niente del genere adesso. Prendiamo RBS, grande banca inglese nazionalizzata nel 2008. Dopo più di cinque anni che cosa è cambiato nel modo in cui opera? Niente! Nemmeno per quanto riguarda lo scandalo dei bonus d’oro (17). RBS non è diversa da altre grandi banche inglesi o di altre nazioni. La sua natura statale non ne cambia di una virgola il modo di operare, tanto che il governo di coalizione di centrodestra sta pensando di creare un’altra banca per finanziare le piccole e medie imprese perché non può utilizzare RBS per raggiungere questo obiettivo. Le grandi banche degli Stati Uniti, salvate dal governo con il TARP (il programma per garantire i titoli tossici delle banche), si sono precipitate a rimborsare lo stato per poter essere libere anche dalle miti condizioni con cui era formulato quel programma. Ancora una volta vediamo come questo aspetto del keynesismo non può essere applicato nelle condizioni attuali.

La regolamentazione finanziaria e la finanziarizzazione dell’economia

Il quarto pilastro delle politiche keynesiane è costituito dalla regolamentazione dei mercati, in particolar modo quelli finanziari. Si tratta di una serie di controlli rigorosi sul sistema finanziario nati dopo la crisi degli anni 1930. Innanzitutto, per tutto un periodo storico il settore bancario è stato rigorosamente diviso tra le banche che esercitavano il credito ordinario a imprese e famiglie e l’investment banking (Glass-Steagall Act negli Stati Uniti e leggi simili in altri paesi). In secondo luogo, quasi ovunque il settore bancario era per buona parte di proprietà dello stato (Italia, Francia) o così fortemente regolato dalle autorità pubbliche da ottenere lo stesso risultato: l’attività bancaria era noiosamente prevedibile. Negli Stati Uniti, per 30 anni l’industria bancaria era così stabile che veniva descritta come basata sulla “regola del 3-6-3”: i banchieri prendevano depositi al 3 per cento, prestavano al 6 per cento e alle tre erano sul campo da golf. Severi controlli sui flussi di capitale e i tassi di cambio fissi facevano anch’essi parte del quadro regolamentare. I risultati sono stati positivi: le crisi finanziarie, qualcosa che per secoli è parso un elemento ineliminabile della storia economica, scomparvero:

“Fino alla Grande Depressione, ci sono state grandi crisi ogni circa 15 o 20 anni - 1792, 1797, 1819, 1837, 1857, 1873, 1893 , 1907 e 1929-1933. Poi le crisi si fermarono. In effetti, gli Stati Uniti non hanno subito un’altra grave crisi bancaria per quasi 50 anni, di molto il più lungo di questi periodi nella storia della nazione. Anche se le ragioni per tale risultato sono molte, è difficile ignorare il ruolo attivo del governo federale nella gestione del rischio finanziario.”(18)

È troppo facile per un economista keynesiano osservare quanto stabile fosse la situazione nell’era della regolamentazione finanziaria, guardando alla situazione attuale. Il capitale finanziario poteva permettersi un forte controllo statale in un’epoca di straordinaria crescita economica. Dopo il crollo di Bretton Woods e la crisi degli anni 70, la regolamentazione finanziaria è stata smontata pezzo per pezzo. I tassi di cambio sono diventati flessibili, i controlli sui capitali sono stati demoliti e il Glass-Steagall Act è stato abolito (da un presidente democratico tra l’altro). Si passò alla deregulation, all’autoregolamentazione, alla regolamentazione dal “tocco leggero”, e ogni altro genere di politica a favore delle banche. Il peso delle banche e della finanza sull’economia mondiale sono cresciute senza sosta. Fusione dopo la fusione sono state create banche sempre più grandi. Quando fu coniato nel 1984 il termine di banca “too big to fail” (troppo grande per fallire) per descrivere la nuova situazione, solo una banca negli Stati Uniti aveva un totale attivo di oltre il 3% del PIL. Nel 2007 ce n’erano nove, e questo nella prima potenza economica mondiale. Nei paesi europei la situazione è diventata farsesca, con alcune banche più grandi del paese che le ospita, tanto che è ora evidente che il paese è loro ostaggio. I casi dell’Islanda o di Cipro sono eclatanti. Il peso del settore bancario è cresciuto a livelli senza precedenti (19):



La grandezza del settore finanziario in relazione al Pil, in 14 paesi avanzati




Come ha notato Crotty:

“Il valore di tutte le attività finanziarie negli Stati Uniti è cresciuto daquattro volte il PIL nel 1980 a dieci volte il PILnel 2007.Nel 1981 l’indebitamento delle famiglie era il 48% del PIL, nel 2007 era il 100%. Il debito del settoreprivatoera del 123% del PIL nel 1981, del 290% a fine 2008. Il settore finanziario è in una situazione di frenesia permanente:il debitoè aumentatodal 22% del PIL nel 1981 al 117%a fine 2008. La quota degli utili societa rigenerati nelsettore finanziario è aumentato dal 10% nei primi anni 80 al 40% nel 2006, mentre la sua quota del valore del mercato azionario è cresciutodal 6% al 23%.” (20)

Parte di questa follia è dovuta alla colossale bolla immobiliare che ha costituito,nel suo complesso, la più grande bolladella storia.

Poiché il rapporto di forza tra i capitalisti è stabilito dai profitti, la migliore dimostrazione del dominio del capitale finanziario sull’economia mondiale è data dalla distribuzione di utili. Anche se le banche impiegano una piccola frazione del totale della forza lavoro, al giorno d’oggi prendono tra un terzo e la metà dei profitti totali (21):


Profitti del settore finanziario come quota dei profitti delle multinazionali


Il declino inarrestabile del capitalismo implica un peso crescente del capitale finanziario. Capire questo aspetto è la chiave per comprendere il capitalismo di oggi, compresa l’impossibilità di costringere le banche a tornare a una dura regolamentazione finanziaria. Gli strateghi della borghesia non si occupano di questo problema, come abbiamo spiegato analizzando il documento del FMI che abbiamo citato sopra.

Il punto è chiaro: il debito (o il credito) è l’unico strumento che capitalismo ha trovato per ritardare una crisi che è il risultato delle proprie contraddizioni interne: la caduta del tasso di profitto nei settori maturi, la sovrapproduzione e la bassa crescita economica. Anche se la redditività delle aziende si è ripresa negli anni 80 per una serie di ragioni che abbiamo spiegato più volte, ciò è avvenuto solo grazie a un’enorme e crescente espansione del credito, cioè del debito. Il debito è necessario per mandare avanti le cose. Ciò ha costituito un ulteriore spinta, per le grandi banche, a prendere il timone dell’economia mondiale.

Prima, si sono sbarazzate di ogni serio controllo pubblico (“deregulation”). Poi alle autorità di vigilanza (banche centrali, ecc) è stato detto, dai politici per conto delle banche, di pensare ai fatti loro, arrivando alla farsa di accettare i metodi di calcolo dei rischi delle banche come misura valida anche per le autorità di vigilanza di questi stessi rischi (il cosiddetto accordo di “Basilea 2”). Ne è derivato il fiorire dell’innovazione finanziaria, ossia la creazione di ogni genere di strani strumenti finanziari, tra cui i derivati.

Si potrebbe pensare che i più acuti strateghi borghesi avrebbero anticipato il crollo di questo gigantesco castello di carte finanziario. Al contrario, si è celebrata un’orgia di ottimismo. Greenspan e simili erano gli eroi del giorno. Poco prima del crollo, Greenspan spiegò nella sua autobiografia: “vorrei dire ai lettori che abbiamo di fronte non una bolla, ma un po’ di schiuma, una serie di piccole bollicine locali, che non potranno mai crescere a una scala tale da minacciare la salute dell’economia globale” (22). Davvero brillante!

Eppure, dai dati era sin troppo facile vedere come già da un decennio quanto più il sistema finanziario veniva liberalizzato tanto più era incline a produrre ciclicamente bolle che poi esplodevano, con crisi sempre più frequenti e più grandi fino a quando il tutto è esploso nel 2008. In effetti si levarono alcune timide voci di dissenso poco prima della crisi:

“Vi sono forti riserve sulla sostenibilità del processo di finanziarizzazione. Gli ultimi due decenni sono stati caratterizzati da rapido aumento del rapporto debito/reddito delle famiglie e debito/capitale delle aziende. Questi sviluppi spiegano sia la crescita del sistema sia l’aumento della sua fragilità, e indicano anche l’insostenibilità di tale crescita perché i vincoli del debito prima o poi si faranno sentire.” (23)

Tutto ciò rimase inascoltato. Poi, tutto a un tratto, tutti i banchieri centrali, gli economisti, i politici si svegliarono e riconobbero la realtà: le grandi banche stavano mettendo in serio pericolo il futuro del capitalismo a livello mondiale. Così si precipitarono a dare un giro di vite regolamentare alle banche iniziando a discutere tutta una serie di nuove regole. Eppure, nulla è cambiato in modo significativo, perché nulla potrebbe davvero cambiare. Le banche non sono in crisi perché i loro top manager sono avidi. Piuttosto al giorno d’oggi il capitalismo non può funzionare senza banchieri avidi e affamati di profitti. Nessuna nuova regola può cambiarlo. Al contrario, se riusciranno a costringere le banche a essere più prudenti, tagliando i loro profitti, le spingeranno poi a comportamenti ancora più rischiosi.


Le grandi banche considerano queste nuove regole un fastidio, ma sanno che in realtà i governi nazionali sono ai loro ordini, e devono solo aspettare un po’ prima che tutto torni al “business as usual”, compresi i bonus d’oro. Anche ora, dopo anni di crisi, dopo che le banche sono state salvate con soldi pubblici, fanno quello che vogliono. Gli economisti keynesiani sono molto irritati per questo, ma la loro irritazione non può cambiare la situazione storica del capitalismo.

La traiettoria storica del keynesismo

Quando è scoppiata la prima guerra mondiale, lo stato è stato costretto a mobilitare tutte le risorse economiche e sociali disponibili per lo sforzo bellico. Una forte presenza dello stato nell’industria era inevitabile in tali circostanze e il debito pubblico esplose. Dopo la guerra, l’economia europea era in cattive acque. Non c’erano più le leve automatiche del periodo precedente, create per garantire la crescita economica. Dopo anni di vani tentativi di tornare al gold standard e al capitalismo liberale, il crollo del 1929 distrusse quel mondo per sempre. L’intervento dello stato (e dei dirigenti riformisti del movimento operaio) salvò il capitalismo dall’abisso. Indipendentemente dal suo colore politico, il governo fu costretto a intervenire per salvare l’industria. Anche i successi dell’economia pianificata in URSS giocarono un ruolo in questo senso.

Dopo la seconda guerra mondiale, ovunque si impose un forte intervento pubblico nell’economia. Dall’essere un pacchetto di salvataggio di emergenza, il keynesismo divenne la politica ortodossa in tutti i paesi capitalistici. La borghesia occidentale accettò un forte intervento pubblico per motivi politici ma anche perché la redditività delle imprese era buona. L’economia stava crescendo, i profitti erano alti, quindi tutto bene. Lo stato investiva in infrastrutture, in servizi pubblici e nei settori economici con scarse prospettive di profitto nel breve termine. I salari crescevano e la disoccupazione era bassa così che i consumi crescevano a ritmo sostenuto. Molte banche erano di proprietà dello stato, la finanza speculativa era irrilevante e Bretton Woods era una buona imitazione del gold standard. Tutto sembrava sotto controllo. Nei paesi sottosviluppati, l’intervento dello stato era l’unico modo per creare industrie moderne da zero, ma anche nei paesi capitalisti avanzati fu necessario lo stato per ricostruire l’economia dopo la guerra e per migliorare il contesto generale in cui potevano fiorire gli stessi capitalisti privati. Democrazie o dittature, sottosviluppati o sviluppati, ovunque i regimi borghesi contavano su un massiccio intervento pubblico per attivare la crescita.

Questi interventi non erano semplicemente di politica monetaria o fiscale, ma implicavano un forte ruolo a lungo termine diretto dello stato come proprietario e propulsore di interi settori economici sino al punto che in paesi imperialisti come la Francia si predisponevano piani quinquennali. Il boom era così forte da emarginare i critici di Keynes, sia tra i borghesi sia a sinistra. C’erano sedicenti marxisti che scrivevano libri lodando le politiche economiche keynesiane a cui attribuivano il merito del boom. Tuttavia, anche se gli stessi critici delle politiche keynesiane non se ne rendevano conto per il successo che questi metodi sembravano avere nella regolazione del ciclo, i cosiddetti “stabilizzatori automatici” keynesiani stavano introducendo delle enormi rigidità nel funzionamento dell’economia capitalistica. Bretton Woods, la piena occupazione, il welfare state, erano tutte cose che il capitalismo poteva permettersi solo durante la più potente ascesa economica della sua storia:

“Pur mantenendo le economie capitaliste avanzate relativamente stabili, la gestione keynesiana della domanda le ha però lasciate anche sempre più stagnanti. Col passare del tempo, i governi hanno potuto garantire sempre meno ulteriore crescita del PIL per ogni incremento del deficit, nel linguaggio dell’epoca, meno risultati a banconota. La crescita del debito pubblico, così come in aggiunta l’indebitamento privato che ha reso possibile, hanno sostenuto il potere d’acquisto e, in questo modo, hanno evitato che il calo della redditività andasse oltre ciò che è già accaduto, mantenendo l’economia in movimento. La crescita del potere d’acquisto che ne risultò fu particolarmente decisiva per invertire le gravi recessioni cicliche del 1974-5, 1979-1982 e dei primi anni 90, che furono di gran lunga più gravi di tutte quelle che si ebbero nei 25 anni dopo la guerra e avrebbero probabilmente portato a una profonda crisi economica in assenza di un forte aumento della spesa pubblica e dell’indebitamento privato che ne derivarono. Tuttavia, il crescente indebitamento che ha sostenuto la domanda aggregata ha portato anche a un accumulo sempre maggiore di debito che, nel tempo, ha ridotto la sensibilità di imprese e famiglie a nuovi cicli di stimolo e ha reso l’economia sempre più vulnerabile agli shock” (24).

L’incapacità del keynesismo di evitare le crisi comportò la sua emarginazione a livello teorico. Il punto più basso di successo scientifico di Keynes si ebbe negli anni 80, quando l’economia ortodossa ritornò alla religione del “libero mercato”. Si iniziò a dire che “la migliore politica è nessuna politica”, che la disoccupazione era sempre volontaria e la sua cura l’eliminazione dei sindacati e così via. Abbiamo già spiegato perché questo tentativo di tornare ai bei vecchi tempi del capitalismo di libero mercato era condannato fin dall’inizio.

Ora, dopo decenni di giustificazione teorica della globalizzazione, siamo tornati al keynesismo, anche se in forma nuova. Sono dunque uscite decine di articoli sul ritorno a Keynes e persino a Marx (25). La vecchia ortodossia si è dimostrata inutile dato che la crisi è stata “un crollo intellettuale oltre che economico” (26). Ancora una volta, gli economisti borghesi sono costretti a tornare alla realtà dalla sciocchezza che ripetono ciclicamente e che si può condensare in un famoso libro uscito pochi anni fa, “questa volta è diverso”. Recentemente, Borio , direttore della ricerca presso la Banca dei regolamenti internazionali, ha sottolineato il problema:

“Le cosiddette lezioni si apprendono e dimenticano, si riapprendono e ridimenticano di nuovo. I concetti salgono alla ribalta e poi cadono nell’oblio per poi forse risorgere. Succede perché cambia l’ambiente economico, a volte lentamente ma profondamente, altre volte improvvisamente e violentemente. Ma succede anche perché la disciplina non è immune alle mode.” (27)

Questo è vero ma il punto è perché queste mode si ripetono. La risposta è che sono radicate nella ricerca del profitto dei capitalisti. Negli anni 60 le industrie statali erano positive per i profitti, non così dagli anni 80, solo che lo stato è oggi più che mai determinante per sostenere i profitti e le teorie anti-keynesiane sono nuovamente tornate a essere irrilevanti poiché la borghesia è sempre più irritata con i suoi teorici.

Tuttavia, ciò che questi possono mettere assieme per aiutare la borghesia a capire la situazione è l’esperienza storica. Questo potrebbe sembrare ovvio a chiunque, ma non è così. Per gli economisti borghesi la storia è anatema, una serie inutile di fatti a cui nessuno è interessato. Questo perché, per la classe dominante, la stessa esistenza di esperienza storica è un fatto spiacevole, in quanto dimostra che altre società sono nate, vissute e morte, e che quindi anche il capitalismo non andrà avanti per sempre. Ora, però, alla disperata ricerca di una comprensione degli avvenimenti, anche la storia è tornato di moda28. Certo, non è sufficiente accettare che la storia fa parte degli strumenti necessari per studiare la società e capire realmente il capitalismo. Nient’affatto. In generale, lo stato attuale delle scienze sociali è di profonda crisi, proprio come il capitalismo, senza alcuna valida alternativa in vista.

Gli economisti keynesiani sembrano meglio posizionati per la situazione. Come zombie in un film horror, la crisi li ha spinti fuori dalle loro tombe. Senza dubbio, sono più vicini al mondo reale dell’economista borghese medio che considera la concorrenza come la soluzione a qualsiasi malattia sociale. Ma quali proposte fanno davvero? Se guardiamo alle proposte dei più noti, come Stiglitz e Krugman, propongono misure davvero valide? Sono contro l’austerità, che è un buon punto di partenza, ma la loro soluzione – la crescita economica basata sulla spesa pubblica e sul debito – è proprio ciò che ha causato una crisi così profonda e di lunga durata. Il problema del debito oggi non è di minor conto. Non può essere risolto con l’inflazione senza distruggere il sistema bancario. Le conseguenze politiche di una tale scelta sarebbero enormi. Che dire allora delle svalutazioni competitive usate per aumentare le esportazioni? Questa è vista dal keynesismo standard come la soluzione magica contro la stagnazione. Inutile dire però che potrebbe funzionare solo se la strada fosse intrapresa da un paio di paesi non fondamentali nel tentativo di uscire dalla crisi. Quando tutti svalutano, lo strumento è inefficace e produce guerre commerciali e tensioni politiche.

Nelle condizioni concrete in cui si trova il capitalismo oggi – nel mezzo della più grande crisi della sua storia, una crisi veramente globale su scala senza precedenti – le politiche keynesiane e le politiche riformiste in generale, sono una completa utopia.

L’esempio della Cina di oggi, che ha intrapreso politiche keynesiane su vasta scala, creando un’enorme bolla immobiliare, livelli insostenibili di indebitamento e l’aumento dei problemi di eccesso di capacità in settori chiave, serve solo a dimostrare l’impossibilità di politiche keynesiane in questa situazione; nello stesso tempo, l’attuazione di politiche di austerità piuttosto che keynesiane da parte di governi socialdemocratici in Grecia, Spagna, Portogallo e ora anche in Francia, dimostra che non c’è più spazio per il riformismo e il keynesismo. Non c’è alternativa sotto il capitalismo all’austerità. La questione non è più quale tassa proporre, quale nuova regola ai mercati, questa o quella riforma, la vera domanda è: quale classe decide la politica economica, in altre parole, qual è la natura sociale dello stato?

Questo è sempre stato un punto debole del keynesismo. Contrariamente al pregiudizio socialdemocratico, un maggiore intervento dello stato nell’economia non è di per sé una politica di “sinistra”. Già negli anni 70, l’economista marxista O’Connor dimostrò, con studi comparativi dei paesi avanzati, che non vi era alcuna correlazione tra la forza della sinistra e un maggiore ruolo economico per lo stato29. “Più Keynes” non significa, automaticamente, salari più alti, una società più giusta, più stato sociale e così via. Solo la lotta di classe e, in ultima analisi, la trasformazione socialista della società, possono portare a questi obiettivi.

Le politiche keynesiane sono impraticabili perché sono radicate in un’epoca che il capitalismo ha da tempo superato. Finché le grandi banche e i monopoli capitalistici dominano lo stato, la piena occupazione, uno stato sociale efficiente e così via sono solo sogni.

I riformisti chiedono una forte presenza pubblica nel settore bancario, investimenti pubblici per ridurre la disoccupazione e così via. Naturalmente siamo tutti a favore della riduzione della disoccupazione, dell’aumento dellaspesa per i servizi pubblici e dei salari: come si può essere in disaccordo con tali misure? Il problema è che queste misure non possono far tornare il mondo agli anni 60, più di quanto possa farlo ascoltare i Beatles. Il keynesismo oggi è impossibile. È necessario cambiare radicalmente le leggi che governano l’economia: abolire l’anarchia e il caos del capitalismo, prendere in mano le banche e le grandi imprese e integrarle in un piano razionale di produzione, in sintesi, occorre la trasformazione socialista della società. Questa è l’unica alternativa.


3 marzo 2014


NOTE:




1J. M. Keynes, 1923, A Tract on Monetary Reform, cap. 3.


2 P. Baran e P. Sweezy, 1965, Economics of Two Worlds.


3 http://www.marxismo.net/crisi-ecomonica/il-brutto-il-brutto-e-il-cattivo-le-soluzioni-del-fondo-monetario-per-la-crisi-del-debito.


4 Cecchetti et al., 2010, The future of public debt: prospects and implications,http://www.bis.org/publ/work300.pdf.


5 Cecchetti et al., cit.


6 R. Brenner, 2009, What is Good for Goldman Sachs is Good for America The Origins of the Present Crisis,http://www.sscnet.ucla.edu/issr/cstch/papers/BrennerCrisisTodayOctober2009.pdf.


7 Vedi http://www.marxismo.net/crisi-ecomonica/il-brutto-il-brutto-e-il-cattivo-le-soluzioni-del-fondo-monetario-per-la-crisi-del-debito.


8 “BOE discussed Negative Interest Rates”, WSJE 27.2.2013.


9 “The negative option”, The Economist, 1.6.2013.


10 Moseley F., Is the U.S. Economy headed for a Hard Landing?,https://www.mtholyoke.edu/courses/fmoseley/HARDLANDING.doc.


11 Moseley, cit.


12 http://www.bloomberg.com/news/2013-04-24/gold-rout-for-central-banks-buying-most-since-1964-commodities.html.


13 AA VV, Piattaforma dell’Internazionale Comunista per il congresso del ‘19, Laboratorio Politico, 1997.


14 Trotskij L., The Death Agony of Capitalism and the Tasks of the Fourth International, 1938 (trad. it., Il programma di transizione, 1993), p. 10.


15 Keynes, cit., cap. IV.


16 Vedi, per esempio, il caso della Corea del Sud e di Taiwan: http://www.marxist.com/how-capitalism-developed-in-taiwan-pt-one.htm.


17 http://www.guardian.co.uk/business/2012/jan/30/rbs-nationalised-operating-private-sector.


18 E. Stockhammer, 2010, Financialization and the Global Economy,http://www.peri.umass.edu/236/hash/c054892e7a23115bfbd0c22c9e90f57c/publication/432/.


19 Grafico da Taylor, The Great Leveraging, 2012.


20 J. Crotty, 2008, Structural Causes of the Global Financial Crisis: A Critical Assessment of the ‘New Financial Architecture’, http://scholarworks.umass.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1017&context=econ_workingpaper.


21 Grafico da Stockhammer, cit.


22 A. Greenspan, 2007, The Age of Turbolence, p. 231.


23 T. Palley, 2007, Financialization: What It Is and Why It Matters, http://www.levyinstitute.org/pubs/wp_525.pdf.


24 Brenner, cit.


25 Cfr., ad esempio, il recente articolo di Time sulla “rivincita di Marx” (http://www.marxist.com/the-resilience-of-the-ideas-of-karl-marx.htm, e http://business.time.com/2013/03/25/marxs-revenge-how-class-struggle-is-shaping-the-world/).


26 A. M. Taylor, 2012, The Great Leveraging, http://www.nber.org/papers/w18290.


27 C. Borio, 2012, The financial cycle and macroeconomics: What have we learnt?,http://www.bis.org/publ/work395.htm.


28 Vedi, per esempio, Jorda et al., 2010, Financial Crises, Credit Booms, and External Imbalances: 140 Years of Lessons (http://www.ecb.europa.eu/events/conferences/shared/pdf/net_mar/Session1_Paper2_Jorda_Schularick_Taylor.pdf?5fc02e3a1cf2f994aff3170a89fdab74).


29 J. O’Connor, 1979, La crisi fiscale dello stato, cap. VII.
Succ. >

  DAL SITO http://www.marxismo.net/

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