MOBY PRINCE: UNA FERITA LUNGA VENTICINQUE ANNI
di Riccardo Achilli
Fra meno di un mese sarà il
venticinquesimo anniversario della tragedia del Moby Prince. Alle 22.25 del 10
aprile 1991, il traghetto Moby Prince, della compagnia Navarma di Onorato, appena
salpato dal porto di Livorno con 141 persone a bordo, diretto ad Olbia, va a
colpire di prua, a tutta velocità, il fianco della petroliera Agip Abruzzi, nel
cono di uscita del porto. Lo sfondamento del serbatoio 7 della petroliera
riversa sul ponte del Moby 300 tonnellate di petrolio. A contatto con il ponte
surriscaldato dall’energia cinetica dell’impatto, il petrolio prende fuoco in
un gigantesco rogo. L’equipaggio raduna i passeggeri nel salone “De Luxe”,
dotato di paratie ignifughe e porte tagliafuoco. Ma i soccorsi,
inspiegabilmente, tarderanno moltissimo, troppo, ad arrivare. Benché il punto
dell’incidente fosse vicinissimo alle banchine del porto, la motovedetta della
Capitaneria localizzerà lo scafo del traghetto soltanto un’ora dopo, alle 23.35.
I passeggeri scampati alla morte per carbonizzazione, ivi compresi quelli concentrati
nel salone De Luxe circondato da un alone di fiamme, moriranno per asfissia da
fumi tossici.
Un altro mistero italiano,
frettolosamente insabbiato sotto la più facile e comoda verità e dimenticato.
Nessun colpevole, nessuno che sta
pagando per i 140 morti, il più grave incidente della Marina mercantile
italiana di tutti i tempi. La fase giudiziaria lunghissima, fra processo chiuso
e poi riaperto, che nel 2010 stabilisce una verità processuale che scarica
tutta la responsabilità sui componenti dell’equipaggio del Moby Prince, morti e
quindi impossibilitati a difendersi. Chiudendo quasi vent’anni di indagini con
conclusioni forse un po’ troppo banali: una tragedia dovuta ad errori umani
dell’equipaggio del traghetto.Il portellone tagliafuoco prodiero lasciato
aperto, facendo penetrare sottocoperta, dove si erano rifugiate le vittime, le
lingue dell’incendio innescatosi sul ponte, gli sprinkler lasciati
colpevolmente spenti, con la pompa antincendio in posizione di accensione
“manuale” anziché “automatico”, l’impianto di aria condizionata lasciato
acceso, che ha distribuito il fumo tossico in tutti gli ambienti della nave,
uccidendo per asfissia chi sopravviveva all’incendio, l’errore di accendere i
fanali nel mezzo del banco di nebbia, l’aver fatto scendere troppo presto il
pilota del porto. Insieme alla disgraziata nebbia da avvezione che si sarebbe
levata improvvisamente, azzerando la visibilità.
Ed a errori nelle procedure di
salvataggio, legati all’equivoco generato dal Comandante della petroliera, che
riferisce alla Capitaneria di Porto di essere stato speronato da una semplice
bettolina, chiedendo di essere soccorso prioritariamente.Le operazioni di
soccorso condotte dalle due compagnie armatoriali, scavalcando la Sala
Operativa della Capitaneria, in quel momento sotto il comando di un
giovanissimo ufficiale di complemento, poco esperto. Il troppo debole segnale
di Mayday proveniente dal Moby, lanciato dal marconista tramite un Vhf
portatile anziché dalla radio di bordo (altro errore umano, il marconista non
era seduto alla sua postazione radio). Tutto qui. Dalla sentenza finale di
archiviazione della Procura di Livorno sembra quasi uscire un sospiro di
sollievo per la chiusura del processo, con una immotivata ed irrituale
aggressione alle teorie alternative del disastro, bollate come
fanfalucchecospirazioniste. Scrivono i magistrati labronici che “A questo
punto, sgombrato il campo da ricostruzioni viziate da suggestioni, cattiva
conoscenza e interpretazione degli atti processuali e interessate forzature, è
doveroso ricostruire il sinistro individuando le reali cause dello stesso”.
In realtà, però, di questa verità
processuale non torna quasi niente. Iniziando dal presunto banco di nebbia. Che
il capitano Cesare Gentile, della GdF, in mare in quelle ore per i soccorsi,
riferisce di non aver assolutamente visto. Il Comandante di un’altra petroliera
riferisce via radio alla Capitaneria: “io sto ad un miglio dall’incidente e
vedo tutto”. Alcuni filmati amatoriali ripresi da terra mostrano un orizzonte
limpido. Probabilmente non c’è nessuna nebbia, ma solo il vapore dell’incendio.
Non appare credibile che il Comandante della petroliera scambi un enorme
traghetto per una minuscola bettolina, ed infatti, il terzo ufficiale di
coperta riferirà, anni dopo, di aver detto quasi subito al Comandante che a
colpirli era stato un traghetto. Mentre a bordo del traghetto si moriva, i
soccorsi venivano diretti tutti quanti sulla petroliera, che non era in fiamme
e dove non c’era nessun ferito. E successive perizie smentiranno il fatto che
le vittime siano morte in fretta. Uno di loro morì addirittura alle 5 di
mattina, più di 6 ore dopo l’incidente, quando la nave era già in fase di
rimorchio verso il porto. Uscirà sul ponte, e morirà per l’enorme calore ancora
sprigionato dalle lamiere. Infine, è appurato che la petroliera si trovasse
alla fonda esattamente nel punto del cono di uscita del porto dove è proibito
ancorare per motivi di sicurezza. Ma nessuno ha pagato per questa grave
infrazione.
In sostanza, l’intero impianto
processuale si fonda su elementi equivoci, discutibili. E su una propensione a
“salvare tutti”. Nonostante le conclusioni processuali ufficiali, che imputano
gravi mancanze nella sicurezza della navigazione del traghetto, l’armatore
Onorato, padrone del Moby Prince, viene scagionato già in primo grado. Così
come il Comandante della petroliera, che stava ancorato dove non avrebbe
dovuto, e che contribuì a generare la successiva confusione nel coordinamento
delle operazioni di soccorso. E pensando anche alla tragedia del Costa
Concordia, viene da chiedersi come mai si consenta ad armatori privi di
scrupoli di utilizzare navi difettose in strumenti salva-vita essenziali (come
gli sprinkler) ed equipaggi evidentemente poco attenti alla sicurezza della
navigazione. Arrogandosi il diritto di coordinare le operazioni di soccorso al
fine di ridurre la propria responsabilità. Al punto tale che verrà addirittura
assolto il nostromo Ciro Di Lauro, reo
confesso della manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del
timone, insieme al tecnico alle manutenzioni di Navarma, Pasquale D'Orsi,nel
tentativo di addossare l'intera responsabilità della vicenda al Comandante del
Moby Prince, deceduto nel sinistro. In un sussulto di imbarazzo, il tribunale
di appello di Firenze ammetterà, a differenza della sentenza assolutoria di
primo grado, che sono stati commessi gravi illeciti. Ma scagionerà tutti quanti
per intervenuta prescrizione dei reati. Tuttavia, rileva possibili lacune
nell’inchiesta sommaria condotta dalla Capitaneria di Porto immediatamente dopo
il sinistro, rilevando che tale inchiesta è stata realizzata proprio da uno dei
soggetti coinvolti dal processo, in un evidente conflitto di interessi.
Nessuno mai approfondirà
l’ipotesi che la petroliera dell’Agip si trovasse al centro di una zona dove
numerose navi militari statunitensi (o navi mercantili-civetta) stavano, forse,
controllando lo scambio di armi di contrabbando. C’è la registrazione radio di
una nave fantasma, il Theresa, che, pur non avendo chiesto l’accosto al porto,
è presente in rada proprio nel momento dell’incidente. Quando il Moby esplode,
questa nave non dichiarata avverte via radio una misteriosa “ShipOne” del fatto
che si sta allontanando. Di fatto fuggendo. Tale nave sarà poi identificata
anni dopo. Si tratta di un cargo, comandato da un ucraino, proveniente da
Odessa, cioè da quella Unione Sovietica che proprio in quel periodo si stava
decomponendo, gettando sul mercato mondiale i suoi enormi arsenali militari. Dopo
l’incidente, il Theresa verrà avvistato in Sardegna, per poi scomparire per
anni. Oggi, quella nave è di proprietà di una compagnia croata. Nessuno ha mai
pensato di rintracciare ed interrogare il suo Comandante. Ed in quei giorni è
nel porto di Livorno, ufficialmente per riparazioni, il peschereccio Oktobar
21, che nel libro della Ilaria Alpi figurerà come nave utilizzata per il
contrabbando di armi verso i signori della guerra somali. Una testimonianza,
poi smentita, della moglie di un ufficiale della Capitaneria, riferisce che il
peschereccio in questione, nella notte dell’incidente, non fosse ormeggiato nel
cantiere di riparazioni navali in cui si trovava normalmente. Esattamente il
giorno dopo, l’11 aprile, si verifica un altro sinistro navale che coinvolge
una petroliera, stavolta nel porto di Genova: la Haven, di proprietà
dell’armatore cipriota HajiIoannu (il proprietario della compagnia Easy Jet)
esplode mentre sta travasando il carico di petrolio da prua verso il centro.
Appena tre anni prima, la stessa petroliera fu bombardata dagli iraniani con
missili Exocet, perché sospettata di trasportare armi per l’Esercito iracheno
di Saddam Hussein.
Una serie di strane coincidenze, che alludono ad una
versione navale di Ustica: un traghetto civile che si trova nel posto sbagliato
nel momento sbagliato, quando navi statunitensi, anche “travestite” da
mercantili civili, pattugliano lo specchio di mare antistante il porto di Livorno,
alla ricerca di navi “fantasma” che stanno trasbordando armi di contrabbando. D’altra
parte, gli Usa non hanno mai fornito alle famiglie delle vittime i tracciati
radar o satellitari di quella notte.
Quello che è certo è che questa
tragedia ha profondamente segnato la città di Livorno. E’ come se,
nell’immaginario collettivo della città, vi fosse stato un “prima” ed un “dopo”
il Moby Prince. Una città già in crisi di identità è stata come “ricoperta”
dalla coltre tragica della sciagura. Centinaia di cittadini andranno per anni
ed anni, come in processione, a guardare il relitto bruciato del traghetto,
ormeggiato nel porto, come un funesto “memento” di quella maledetta notte. Fino
a quando, come ulteriore modo per chiudere la questione e dimenticare, nel 1998
l’Autorità Giudiziaria ne autorizzerà la demolizione. Ma nessuno ha
dimenticato. Una città che vive in simbiosi con il suo mare non può
dimenticare. Da quel mare, di notte, si levano le voci dei morti, a ricordare
che giustizia non è stata fatta. E senza giustizia non si può veramente
dimenticare, non si può ripartire.
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