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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 23 agosto 2011

Dopo Gheddafi la barbarie? Di Riccardo Achilli


L'esito della guerra in Libia non è ancora del tutto definito, stante la confusione nella descrizione della situazione reale sul campo, alimentata da una stampa imperialista piuttosto interessata e faziosa (mentre si scrive tale articolo, il figlio di Gheddafi, dato poche ore prima per prigioniero del Cnt, rilascia tranquillamente interviste in mezzo alla strada nel pieno centro di Tripoli, mentre dalle aree della Sirte più fedeli a Gheddafi continuano ad essere sparati missili Scud, segno inequivocabile del persistere di una capacità operativa delle forze lealiste). Ad ogni modo, l'esito più probabile, ovvero la fine della Jamahiriyah, deve essere guardato con la logica della legge dello sviluppo diseguale e combinato (per quanto riguarda la prospettiva che la Libia post-Gheddafi avrà) e con i criteri con i quali Rosa Luxemburg analizzò le dinamiche imperialistiche del capitalismo (per quanto riguarda le ripercussioni globali che gli eventi libici avranno). Tale logica ci esime dall'analisi delle caratteristiche di quella che fu la Jamahiriyah, (socialiste, non socialiste, corporative, di democrazia diretta, o di dittatura personale, micro-imperialiste o panarabiste). Perché ciò che veramente conta è quello che succederà da adesso in poi, non quello che fu. Quindi il punto è comprendere se, con la probabile fine politica di Gheddafi, la situazione, per il proletariato libico e quello globale, peggiorerà ulteriormente o no. Naturalmente, ogni previsione deve godere del beneficio del dubbio, poiché la situazione è senz'altro fluida.

Iniziando da ciò che potrebbe succedere in Libia, si può dire che, a prescindere dalla natura della rivolta, e nonostante dichiarazioni di segno nazionalista ed autonomista fatte da alcuni esponenti del Cnt (in riferimento all'ipotesi di costruire basi militari NATO sul territorio nel post-Gheddafi) è difficile non immaginare che la Libia diventerà una dépendance delle potenze imperialiste che hanno aiutato in modo determinante la vittoria dei cosiddetti "ribelli" (in realtà in larga misura tribù cirenaiche penalizzate nella distribuzione della ricchezza petrolifera nazionale, con tradizioni autonomiste derivanti dal passato senussista. E' molto più difficile immaginare che si sia trattato di una rivolta su basi sociali, ovvero derivante da condizioni di oppressione economica generalizzate. Con un Pil pro capite di 14.000 dollari in termini di parità di potere d'acquisto, nel 2010, la ricchezza media disponibile del cittadino libico medio è più alta rispetto ad un cittadino medio rumeno, ad un serbo, ad un messicano, ad un turco, ed è incomparabilmente superiore a quella di un tunisino, di un algerino, di un egiziano; con una speranza di vita alla nascita di 77,7 anni nel 2010, la Libia sopravanza Paesi come la Serbia, la Romania, la Bulgaria, l'Ungheria, la Lettonia, ed è ovviamente la migliore performance di tutto il continente africano; fonte: CIA World Factbook). Le potenze imperialiste potranno gettare sul piatto l'offerta di ricostruire le città e le infrastrutture danneggiate dalla guerra, facendosi pagare in petrolio a basso prezzo, oppure in contratti che consentano l'accesso delle multinazionali alle risorse petrolifere libiche (più o meno quello che voleva fare l'ENI, prima che la guerra mettesse l'Italia parzialmente fuori gioco sullo scenario libico). Praticamente impossibile che il Cnt possa rifiutare, anche perché è pieno zeppo di ex dirigenti e uomini di fiducia del precedente regime di Gheddafi, il cui obiettivo è soltanto quello di sopravvivere a Gheddafi, rimanendo al potere (e per fare ciò devono soffocare qualsiasi rivoluzione). In Libia, così come in Egitto ed in Tunisia, manca, ad oggi, un partito in grado di portare avanti un processo rivoluzionario, di rivendicare autonomia dal basso nella gestione dei mezzi di produzione, coordinando questo processo, e manca anche una struttura produttiva autonoma (perché la Libia, con le esportazioni petrolifere, compra qualsiasi cosa dall'esterno), per cui la ocmponente più rivoluzionaria del proletariato industriale è in realtà numericamente ridotta e in larga misura non libica (essendo tale proletariato composto essenzialmente da immigrati di altri Paesi africani, arabi o asiatici).

Vi è poi un altro scenario, che ha buone probabilità di verificarsi, ovvero che le tribù che hanno vinto la guerra non trovino l'accordo per gestire il Paese, o non trovino l'accordo con le tribù rimaste fedeli a Gheddafi fino alla fine. In questo caso, vi sarebbe una somalizzazione della Libia. Proprio come in Somalia, in cui la fine politica di Siad Barre che, per quanto criticato, fu l'unico a tenere insieme il Paese, ha aperto la strada ad una interminabile guerra fra clan e signori della guerra, anche su base tribale, con continue interferenze esterne da parte dell'imperialismo USA e di quello francese, anche in Libia potrebbe aprirsi una interminabile guerra civile fra tribù, con l'aggravante che, mentre la Somalia è poverissima, la Libia ha un mare di petrolio, quindi i tentativi di interferenza esterna imperialistica sarebbero molto più forti e frequenti, a tutto svantaggio della possibilità del popolo libico di dirigere il suo futuro.

In sostanza, in termini di legge dello sviluppo diseguale e combinato, la Libia ha perso l'opportunità di sperimentare una via autonoma al suo sviluppo (che era l'ambizione della Jamahiriyah) e, nel migliore dei casi (ovvero se non si verificherà lo scenario della somalizzazione) non potrà che "importare" un modello di sviluppo occidentale, basato su forme pseudo-democratiche dall'alto (quindi addio agli esperimenti di democrazia diretta o dal basso), liberalismo economico e sociale, piena inclusione, dal lato dei perdenti, nei circuiti della globalizzazione (e quest'ultima riserva tristi destini a chi si trova dalla parte sbagliata del coltello).

A livello globale, la piega degli eventi presa in Libia non potrà che rafforzare la tendenza, tipica del capitalismo in crisi e con caduta verticale dei profitti, ad una crescente aggressività imperialistica. Se gli eserciti NATO si ritirano dall'Irak e dall'Afghanistan, saranno pronti a ridispiegarsi in Siria, e magari non molto tardi in Iran (l'avanzamento delle sperimentazioni nucleari iraniane fa ritenere che entro un anno e mezzo, forse due, l'Iran potrebbe disporre di armi nucleari, quindi se si deciderà di attaccarlo, occorrerà farlo presto) e, chissà, un domani contro il Venezuela chavista...Nel frattempo, si lascerà mano libera ad Israele per condurre l'ennesima guerra contro Hamas ed il popolo palestinese. Tutti meccanismi utili per far girare l'industria bellica ed i settori ad essa collegati, e quindi a generare un balzo in avanti dell'agonizzante saggio di profitto medio, e per procurarsi una egemonia sul prezzo del petrolio, scardinando il cartello dell'OPEC (di cui la Libia, con la sua politica di assoluta autonomia nell'uso delle risorse petrolifere nazionali, era un importantissimo soggetto, che ovviamente dava molto fastidio ai Paesi importatori di petrolio). Ciò non potrà che condurre ad un inevitabile scontro fra gli interessi imperialistici della NATO e l'emergente espansionismo della Cina e della Russia, di cui abbiamo indizi rivelatori (non ultimo dei quali un vero e proprio processo di potenziamento militare e riarmo, che è in corso in questi due Paesi, ma anche il tentativo di creare sfere di influenza, come dimostra l'attivismo politico/diplomatico cinese in Africa, ad esempio). Le conseguenze di tale crescente attrito potrebbero essere incalcolabilmente gravi, e comunque comporteranno un riassetto degli equilibri attuali fra le principali polarità imperialistiche globali. Un riassetto che si giocherà in primis sulla pelle dei Paesi sottosviluppati che cercano modelli autonomi e nazionali di sviluppo, che, visto l'esito della sperimentazione condotta in Libia, diverranno i campi di battaglia sui quali tale ristrutturazione globale delle gerarchie di potere economico, politico e militare, si giocherà.

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