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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 3 aprile 2012

LE LIBERTA' DEL PADRONE di Riccardo Achilli



LE LIBERTA' DEL PADRONE
di Riccardo Achilli


Qualche giorno fa, Sergio Marchionne si è recato a fare un discorso, che potremmo definire di “incoraggiamento”, alle nuove leve della classe dirigente italiana uscite dalla Bocconi. Trattandosi di un discorso fatto a chi si appresta ad entrare fra le classi dominanti, è di particolare interesse, per così dire, sociologico e storico, perché rappresenta uno spaccato della filosofia di vita e della visione del mondo dei padroni. Per questo, andrebbe esaminato e quasi dissezionato.
Tralasciando la parte di discorso relativa alle strategie del settore automobilistico, sulla quale peraltro molte cose si potrebbero dire, il succo della filosofia padronale di Marchionne rappresenta una sintesi molto efficace, e devo dire anche molto comunicativa e di impatto, del turbo capitalismo globalizzato più estremo. L’invito che Marchionne fa ai futuri manager dell’economia (e della politica, visto che questa è oramai del tutto asservita agli interessi dell’accumulazione) è in fondo la riproposizione dei due valori fondanti del cosiddetto “american dream”, o del mito della frontiera in salsa protestante: libertà individuale e capacità di innovazione e di rottura degli schemi e dei recinti che impediscono alla libertà dell’individuo-creatore, portatore cioè di una sorta di nuovo umanesimo militante (perché benedetto dall’alto da un Dio che non ama i timidi ed i pigri, e che benedice solo gl avventurieri ed i creativi), di estrinsecarsi.
Fondamentalmente, il messaggio lanciato da Marchionne ai suoi futuri colleghi quello di abbracciare una libertà totale, ed assoluta, di inventare e reinventare, costruire, distruggere e ricreare su basi fondamentalmente nuove, i propri criteri di lavoro, di business ed anche di vita personale, mantenendosi sempre disponibili a rimettere in discussione modelli precedenti, parametri del passato, in una sorta di permanente stato di “distruzione creativa”, per utilizzare la felice espressione del principale studioso ei processi di innovazione e creatività sub-specie capitalista, ovvero J.A. Schumpeter.
E’ naturalmente appena il caso di far notare due cose: la prima è che la “distruzione creativa” non coinvolge solo la vita di chi decide di sottoporsi ad una simile disciplina, ma, poiché costui è chiamato, in quanto bocconiano, a ricoprire ruoli dirigenziali, nell’economia e nella società, coinvolge, volente o nolente, anche chi si trova nelle parti basse della gerarchia, ovvero i lavoratori, nel caso delle imprese, gli stessi, insieme agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati, alle massaie, nel caso della società. Che ovviamente si trovano tutti arruolati di forza in questo processo di distruzione continua dei punti di riferimento esistenziali, senza averlo richiesto, e spesso senza fruire di alcun beneficio. Non a caso, il discorso di Marchionne si sofferma anche sulla necessità di investire dell’ondata di distruzione creativa anche i sistemi di welfare tradizionali, secondo il manager Fiat non più idonei a creare lavoro (ma occorrerebbe anche spiegare che la funzione del welfare non è mai stata quella di creare lavoro, ma di mantenere una rete di protezione per chi il lavoro non ce l’ha, oppure ce l’ha ma è troppo poco remunerato; creare lavoro distruggendo il welfare è un po’ come cercare di pescare una balena drenando tutta l’acqua del mare; o non è realistico, o è enormemente ed insopportabilmente costoso dal punto di vista sociale).
Sarebbe allora giusto chiedersi, e tale domanda andrebbe fatta non fra le classi dirigenti del capitalismo, che costituiscono una piccolissima frazione della società, e che in generale non pagano il costo dell’innovazione, poiché si trovano in cabina di pilotaggio, ma andrebbe generalizzata all’intera società, quanta innovazione, non soltanto tecnologica ma soprattutto sociale ed economica, siamo disponibili a sopportare, stante il fatto che l’innovazione ha dei costi, ripartiti in modo ineguale fra le varie classi sociali. Siamo disponibili a smantellare il welfare ed a rendere totalmente flessibile il mercato del lavoro, con i costi sociali enormi connessi a ciò, per abbattere di qualche punto il tasso di disoccupazione, riempiendoci però di lavoratori precari, instabili economicamente, esistenzialmente e spesso anche psicologicamente e sottopagati. Siamo disponibili cioè ad innovare il nostro modello sociale europeo, avvicinandoci al modello statunitense, in cui il 30% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, pur lavorando nella maggior parte dei casi, e vive alle periferie delle città dentro delle  roulotte o dei camper, pronta a spostarsi continuamente alla ricerca di un frammento di American Dream lasciato cadere in terra dai padroni, all’interno di una società completamente destrutturata, in cui i legami familiari e territoriali, quei legami che Putnam e Hanifan chiamano il “capitale sociale”, sono totalmente destrutturati?
Ricordando che secondo Hanifan il capitale sociale “si riferisce a quei beni intangibili che hanno valore più di ogni altro nella vita quotidiana delle persone: precisamente, la buona volontà, l'appartenenza ad organizzazioni, la solidarietà e i rapporti sociali tra individui e famiglie che compongono un'unità sociale”?
Siamo disponibili a pagare l’eccitazione e l’emozione di cambiare continuamente lavoro, colleghi, città, vicini di casa, moglie, con la moneta dello stress, della psicosi da sradicamento (che nei casi più gravi si traduce nella scena, tipica degli USA, di un poveraccio che imbraccia un fucile e compie una strage in un centro commerciale) e della sindrome da burning out (che, secondo gli psicologi statunitensi, colpisce, con gradazioni diverse, almeno il 40% della popolazione lavorativa degli USA, con punte del 60% proprio fra i manager cui si rivolge Marchionne, tanto che negli ultimi anni, fra i manager statunitensi, va dilagando la moda di dimettersi dai loro sontuosi incarichi per ritirarsi in campagna, a fare i contadini, pur di salvarsi la vita)?
Siamo disponibili ad una vita da zingari permanenti?
E’ giusto per i nostri figli, costringerli a vivere un’esistenza incerta e raminga, in cui sono obbligati a cambiare continuamente città, scuola ed amicizie (ed ancora una volta lascio la parola agli psichiatri, che possono certificare, dati alla mano, quanti adolescenti che si sono resi protagonisti di stragi dentro le loro scuole hanno una storia personale di questo genere)?
E’ umana una vita di continuo sradicamento, o è una condanna terribile, pagata alle esigenze dell’accumulazione capitalistica (che oramai, nell’attuale fase del capitalismo smaterializzato, avviene più su asset immateriali come la creatività, le competenze e l’intelligenza, che su beni capitali materiali tradizionali)? Basterebbe chiederlo a chi è stato sradicato: agli immigrati, ai profughi. Sono forse contenti del loro stato? Alcuni dei Paesi con la più ampia diffusione di nevrosi e psicosi individuali nella popolazione, e con la più alta incidenza di psicoterapeuti per abitante, sono quelli interamente creati dall’emigrazione esterna, in cui la popolazione autoctona è stata praticamente cancellata, come ad esempio gli USA, o l’Argentina.
Il problema di fondo, e questo è il secondo punto da evidenziare, è che l’idea liberale di innovazione è strettamente connessa a quella di libertà individuale. E’ l’uomo galileiano che, liberandosi dagli schemi teorici prestabiliti, si assume la libertà-responsabilità di dichiarare che la Terra è tonda, e che ruota attorno al Sole. E’ il manager toyotista che, liberandosi dalle dottrine manageriali preesistenti, inventa il kai-zen, la qualità totale ed un nuovo modo di produrre e fare profitti.
Senza libertà, non c’è l’innovazione continua di cui parla Marchionne. Ma la libertà individuale, la possibilità di scegliere “chi essere” e “come essere” nella vita, esiste per chi ha i mezzi, e la collocazione economica e sociale, per poter essere libero. Ma chi fornisce la sua forza-lavoro, e la sua esistenza, per realizzare concretamente il sogni dei pochi “liberi”, non ha alternative: o muore o si rende ingranaggio di una macchina che lo sovrasta. Nel mondo, il 30% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Costoro non hanno nessuna libertà di scegliere chi essere e quale modello abbracciare. Non possono acquistare quei servizi e beni di base (cibo, assistenza sanitaria di base, educazione) che li mettono in condizione di poter scegliere “whoever you want to be”, dice Marchionne citando una nota novella di Francis Scott Fitzgerald.
Nello Sri Lanka devastato dagli effetti dei cambiamenti climatici, la popolazione rurale le cui terre vengono mangiate dalle inondazioni monsoniche sempre più violente, ha solo la scelta fra morire di fame o inurbarsi nella capitale, finendo inevitabilmente per andare a vivere nelle bidonvilles, lavorando 14 ore al giorno per non più di pochi centesimi di dollaro, senza via d’uscita, senza domani. Che senso ha per loro dire che “it’s never too late or, in my case, too early to be whoever you want to be” (come da citazione di Marchionne alla novella di Scott Fitzgerald)? Nessuno.
Tra l’altro, poiché lo stesso Marchionne parla di etica del business, nello stesso discorso ai bocconiani, sarebbe utile ricordare che la drammatica situazione dello Sri Lanka, come di molte zone del pianeta, è dovuta ai cambiamenti climatici indotti dall’industria di massa, in primis proprio da quella automobilistica e dal suo indotto metalmeccanico, chimico e della gomma/plastica, e da un modello di business realmente “innovativo” che, a partire dagli anni Settanta, ha desertificato le tradizionali aree industriali europee e nordamericane, promuovendo la delocalizzazione verso i Paesi del Terzo Mondo, al fine di poter mettere a lavorare i cittadini di quei Paesi senza alcuna tutela pensionistica, sanitaria, ambientale, ad un dollaro al giorno di paga.
Quanto vale la libertà dei pochi pagata da moltitudini di disperati?
Quanto vale l’etica nel business capitalistico?

La libertà, Marchionne lo sa sicuramente, si regge su un detto popolare: “non vi è libertà fra più opzioni se non si fornisce l’informazione completa a chi deve scegliere”. Se non si dice quali sono le conseguenze sociali del modello della “distruzione creatrice” schumpeteriano, non vi è libertà, perché la società non ha gli elementi per valutare se tale modello è positivo o negativo. Se non si offrono alternative diverse al modello liberista, tali da configurare la possibilità di scegliere l’alternativa socialmente migliore, non vi è libertà.  Perché qualcuno dovrebbe anche spiegare come mai, persino all’interno degli angusti confini del capitalismo, fra i Paesi asiatici in cui il nostro premier Monti è impegnato, con il cappello in mano, a racimolare qualche investimento diretto nella nostra agonizzante economia, il Giappone viva con il 200% di rapporto fra debito pubblico e Pil ( non con il 120% italiano, che a detta di Napolitano sarebbe insostenibile), e negli ultimi 10 anni abbia messo a segno una crescita complessiva, in termini reali, del PIL del 6,5% (contro un misero +2% del PIL italiano) o come in Cina, con un indice di protezione del lavoro pari al 185% del valore italiano, i consumi privati delle famiglie siano cresciuti del 77% in termini reali fra 2003 e 2009, a fronte del miserrimo +4,5% italiano o del comunque modesto 18,9% del modello di Marchionne, ovvero gli stati Uniti). IL modello liberista di Marchionne non spiega nemmeno perché un piccolissimo Paese con una struttura produttiva poverissima e tradizionale, essenzialmente agricola, come l’Uruguay, che però ha agito in modo drastico per ridurre la povertà ed aumentare i consumi interni (l’indice di povertà complessivo è infatti passato dal 37,1% della popolazione al 19,7% in soli 5 anni, dal 2006 al 2010; grazie all’aumento della propensione media al consumo, generato dalla succitata riduzione della povertà, poiché è noto che le classi di redditieri più basse hanno la propensione marginale al consumo più alta, i consumi privati, nel medesimo periodo, sono cresciuti del 29,7% in termini reali) ha chiuso il 2011 con una crescita del 5,8%, ed una previsione di crescita del 3,5% per il 2012, a fronte di un dato italiano complessivo, fra consuntivo 2011 e previsioni 2012, di riduzione complessiva del PIL per circa 0,8 punti.
La verità è che il modello predicato da Marchionne non colloca al suo centro la libertà, ovvero la reale possibilità di scegliere “whoever you want to be”, perché indica una sola strada da percorrere, senza nemmeno evidenziare le conseguenze di tale strada.  E questo modello che non consente la libertà di scelta fra più alternative sociali non è innovazione, è anzi conservatore e regressivo, è l’antitesi esatta dell’innovazione, perché l’innovazione richiede creatività, e la creatività è un frutto della libertà, che non cresce nella costrizione. Per fare un paragone aziendale, non è strangolando i lavoratori ad un modello, come quello di Pomigliano/Mirafiori, di produttività estrema, riducendo gli intervalli per le esigenze fisiologiche come andare in bagno e nutrirsi, restringendo gli spazi di espressione, anche radicale, tramite la contrazione del diritto di sciopero, che si incentivano i lavoratori a fornire il loro apporto creativo al processo innovativo di cui tanto ha bisogno la Fiat. E non c’è bisogno di essere studiosi di economia dell’innovazione per sapere che, come insegna un economista dell’innovazione del calibro di Schmookler, l’innovazione è un processo condiviso e diffuso, mai gerarchico o individuale, ed anche l’imprenditore-innovatore individualista di Schumpeter entra, volente o nolente, in un processo di diffusione dell’innovazione, quando l’ondata di distruzione creatrice riconfigura l’intero sistema economico e sociale.
Quindi Marchionne ai futuri manager bocconiani non ha indicato la strada verso il coraggio dell’innovazione. Ha insegnato la strada verso l’egoismo della conservazione degli assetti di potere esistenti. Ed è freudianamente interessante che abbia scelto la novella “Il curioso caso di Benjamin Button” di Scott Fitzgerald per sostenere le sue argomentazioni sul “be whoever you want to be”. Non dovrebbe sfuggirli che l’autore di tale novella fu una vittima dell’American Dream, cioè del modello dallo stesso Marchionne evocato: il padre, che lavorava nella Procter and Gamble, fu licenziato dalla stessa; indebitatosi fino all’osso, visse e raccontò nel suo romanzo “Belli e Dannati” la tragedia della dissoluzione economica e morale di una famiglia di New York; cadde in miseria estrema dopo il crack borsistico del 1929 e morì molto giovane, avendo lasciato come ultimo romanzo “Gli Ultimi Fuochi”, un terribile e struggente tentativo letterario di far riemergere un mondo passato perduto, e migliore dello squallore quotidiano, un vero inno alla decadenza del capitalismo che si chiude con un simbolo potentissimo, che dovrebbe preoccupare molto Marchionne: il protagonista del romanzo, un imprenditore fallito, incontra un sindacalista comunista, lo insulta e viene da questo steso da un potente cazzotto.
Scott Fitzgerald è il peggior autore che Marchionne potesse usare per supportare la sua tesi circa la necessità di una continua “distruzione creatrice” dei punti di riferimento costruiti nel passato. La lettura della novella citata da Marchionne nel suo discorso, che come è noto narra la storia di un uomo nato settantenne, e che con il passar del tempo anziché invecchiare ringiovanisce, fino a scomparire del tutto, con il suo passato e le sue memorie, nel grembo neonatale della balia, ha una lettura ben diversa da quella unilaterale data dal manager Fiat: lungi dal raccontare una storia di libertà e catarsi nelle acque di eterna giovinezza dell’innovazione e della creatività, questa storia racconta la disperazione di chi, avendo perso i suoi punti di riferimento nel passato, è condannato ad una giovinezza forzosa, e molto dolorosa (per via del suo continuo ed inarrestabile ringiovanimento, il protagonista del racconto perde la moglie, e non riesce nemmeno a laurearsi ad Harvard, perché divenuto troppo giovane per competere con gli altri studenti).
Distruggendo i punti di riferimento del passato in nome di un furioso bisogno di giovinezza e rinnovamento indotto dalla società capitalistica competitiva e continuamente mutevole, l’uomo, secondo Scott Fitzgerald, si autodistrugge. Il modello di “distruzione creatrice” di Marchionne, che vorrebbe far tabula rasa delle conquiste del passato in nome di un eterno futuro di innovazione continua, ci porterà alla rovina.
Ad un giovane manager intelligente e sensibile suggerirei di leggere con attenzione il messaggio di Scott Fitzgerald, e di abbinarlo a questa bellissima frase di uno scrittore che seppe vedere nel lato oscuro del marchionnesco “American Dream”, ovvero Charles Bukowski: “quelli coi tacchi delle scarpe consumati e con quelle facce, derubate di tutto da tempo immemore, di tutto, salvo la determinazione a tirare avanti, anche senza la minima traccia di speranza o di musica, anche senza la minima speranza di vittoria”.
Non facciamoci derubare del nostro passato, non facciamoci derubare delle nostre conquiste, non perdiamo la speranza e la musica.

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